N. 81 - Settembre 2014
(CXII)
SUL REFERENDUM SCOZZESE
ANALISI DI UNA SCELTA
di Filippo Petrocelli
Alla
fine
hanno
vinto
Better
togheter,
e
No
thanks,
gli
azzeccatissimi
slogan
degli
unionisti
che
hanno
fatto
breccia
nel
cuore
degli
scozzesi.
La
Scozia
resterà
nel
Regno
Unito
e –
purtroppo
o
per
fortuna
–
non
scopriremo
mai
cosa
sarebbe
successo
se
avesse
vinto
il
“Sì”.
Quindi
non
assisteremo
a
paventate
crisi
finanziarie,
né
alla
nascita
di
una
piccola
patria
welferista,
tantomeno
al
trionfo
sugli
sciacalli
della
City
da
parte
dei
“poveri”
cugini
scozzesi,
né a
un
effetto
domino
e
quindi
neanche
alla
primavera
dei
popoli
che
qualcuno
vaticinava.
Le
certezze
invece
sono
quelle
di
un
tempo:
sterlina
alla
stelle
e
popolarità
riconquistata
per
David
Cameron,
premier
tory
tutt'altro
che
in
auge
nell'ultimo
periodo.
La
prima
vittima
è
Alex Salmond,
uomo
catapultato
al
centro
della
scena,
il
cui
faccione
rassicurante
ha
infestato
in
maniera
virale
social
network,
tv e
giornali.
Il
leader
nazionalista
scozzese
alla
guida
dello
SNP,
ovvero
Scottish
National
Party,
si è
dimesso
in
seguito
all’esito
negativo
di
questa
consultazione,
dimostrando
non
poco
senso
di
responsabilità.
Da
politico
vero,
tutto
di
un
pezzo
Salmond,
nella
conferenza
stampa
a
caldo,
ha
ringraziato
i
circa
1.600.000
sui
connazionali
che
hanno
votato
per
l’indipendenza
scozzese,
non
senza
lasciar
trasparire
un
po’
di
amarezza.
Si è
assunto
le
sue
responsabilità,
ha
metabolizzato
la
sconfitta
invitando
i
suoi
ad
accettare
l’esito
del
voto,
ma
ha
deciso
di
dimettersi
dalla
carica
di
primo
ministro.
In
termini
percentuali
la
battaglia
per
l’indipendenza
scozzese
è
finita
55%
a
45%,
ma
sforzandosi
di
guardare
oltre
le
percentuali
i
numeri
raccontano
qualcosa
di
più.
Il
fronte
del
“No”,
ha
ottenuto
circa
2.000.000
di
voti,
neanche
400.000
in
più
del
“Sì”.
A
Glasgow
hanno
vinto
gli
indipendentisti
così
come
in
alcune
zone
meridionali
mentre
il
“No”
ha
vinto
a
Edimburgo,
nel
Abeerdeenshire,
nelle
isole,
nel
Nord
e
nelle
Highland.
In
altre
parole
la
Scozia
profonda
non
ha
voluto
saperne
del
sogno
secessionista
di
Glasgow.
ANALISIS
DELLE
CAMPAGNE
REFERENDARIE
Il
fronte
indipendentista
aveva
improntato
la
campagna
referendaria
in
modo
molto
razionale
e
sincero
–
scegliendo
come
slogan
Yes
Scotland
–
concentrandosi
sui
problemi
reali,
soprattutto
quelli
di
natura
economica,
non
senza
tralasciare
le
questioni
di
indipendenza
politica
e
sovranità
nazionale.
In
ambito
economico
le
richieste
più
importanti
riguardavano
la
gestione
del
petrolio
nel
Mare
del
Nord,
i
cui
ricavati
sono
sempre
finiti
nelle
casse
inglesi
e la
richiesta
di
piena
gestione
delle
risorse
fiscali.
In
ambito
politico
invece
il
fronte
del
“Sì”
si
concentrava
sul
problema
della
prevalenza
degli
interessi
nazionali
inglesi
su
quegli
scozzesi,
e
sulla
gestione
della
politica
estera
che
vedeva
Edimburgo,
fortemente
contraria
alle
scelte
dei
conservatori
di
Cameron
e
non
solo.
Uno
dei
punti
chiave
era
inoltre
quello
di
proporre
una
futura
Scozia
sovrana
e
indipendente,
ma
perfettamente
inserita
nel
tessuto
globale.
Quindi
non
una
scelta
autarchia
quando
una
richiesta
di
autodeterminazione
e
libertà,
alimentata
da
un
nazionalismo
non-xenofobo,
né
euroscettico
e a
suo
modo
“inclusivista”.
La
Scozia
degli
indipendentisti
non
sarebbe
uscita
dall’Unione
Europea,
certamente
sarebbe
diventato
membro
della
Nato
e
delle
Nazioni
Unite.
Una
diversità
però
che
sarebbe
passata
anche
per
la
proposta
di
Salmond
di
denuclearizzare
il
paese
incentivando
la
crescita
delle
energie
rinnovabili
e di
riproporre
con
forza
una
politica
fondata
sul
welfare
state,
rilanciando
le
politiche
sociali
lontane
dai
progetti
di
Londra.
A
sostenere
Salmond
nella
lotta
per
l’indipendenza
anche
molti
personaggi
celebri
ma
anche
tante
facce
comuni:
da
Ken
Loach
alla
stilista
Vivianne
Westwood,
passando
per
Sen
Connery,
fino
ad
arrivare
al
un
vasto
sostegno
internazionale
ricevuto
dai
molti
popoli
senza
stato
come
baschi,
bretoni,
abitanti
del
Quebec
e
corsi.
Il
fronte
del
“No”
invece
aveva
optato
per
una
scelta
più
emotiva,
con
una
campagna
mirata
alla
pancia
degli
elettorali
che
ha
sfruttato
la
paura
come
arma
prevalente.
Paura
di
una
crisi
finanziaria,
di
un
dissesto
insanabile,
ma
anche
dell’importanza
fondamentale
del
sostegno
inglese
all’economica
scozzese.
Ma
anche
una
narrazione
“diversa”
dei
307
anni
di
Gran
Bretagna,
nata
appunto
dall’unione
fra
Scozia
e
Inghilterra.
Così
Cameron
ha
parlato
di
grande
famiglia,
attraversata
dai
contrasti
ma
più
legata
che
mai,
mentre
Gordon
Brown,
ex
primo
ministro
inglese
nato
in
Scozia
–
che
si è
speso
senza
sosta
per
il
“No”
– ha
insistito
sul
rischio
default.
Altre
personalità
di
rilievo
si
sono
spese
per
il
“No”:
J.K.
Rawling,
creatrice
di
Harry
Potter
e
fervente
unionista,
ma
non
sono
da
dimenticare
gli
endorsement
indiretti
di
Obama,
Draghi,
della
Regina
Elisabetta
e
dell’alta
finanza
in
generale.
Tutti
i
principali
partiti
britannici
inoltre,
da
quello
Laburista,
a
quello
Conservatore,
passando
per
quello
Liberale
di
Clegg,
hanno
fatto
muro
contro
l’indipendenza.
Gli
unionisti
hanno
più
volte
ricordato
che
la
paventata
unione
monetaria
con
la
sterlina
proposta
dagli
indipendentisti
sarebbe
stata
impossibile
per
la
Banca
Centrale
Inglese
e
che
al
momento
delle
coniazione
di
una
nuova
moneta
scozzese
sarebbe
stata
automatica
una
fuga
di
capitali.
Analizzando
il
voto
traspare
anche
un
gap
generazionale,
una
distanza
di
vedute
fra
i
giovani,
tra
i
quali
ha
prevalso
l’idea
nazionalista
e
invece
un
elettorato
più
anziano
e
conservatore
che
ha
fatto
pendere
la
bilancia
dalla
parte
del
“No”.
Il
vero
dato
rilevante
però
è
quello
di
una
partecipazione
al
voto
altissima:
quasi
l’85%
degli
aventi
diritto
si è
recato
alle
urne,
in
un
esercizio
di
democrazia
che
comunque
ha
molto
da
insegnare
e
che
non
è
stato
oscurato
neanche
dai
riot
nella
notte
fra
vincitori
spavaldi
e
sconfitti
delusi.
BREVE
STORIA
DELLO
SCOTTISH
NATIONAL
PARTY
Lo
Scottish
National
Party,
o SNP,
è un
partito
indipendentista
e
nazionalista
scozzese
di
natura
socialdemocratica.
Ufficialmente
il
partito
nasce
nel
1934,
dalla
fusione
di
due
gruppi
National
Scottish
Party
di
orientamento
progressista,
e lo
Scottish
Party
spostato
su
posizioni
conservatrici.
Il
primo
seggio
conquistato
dal
partito
è
per
soli
tre
mesi
nel
’45,
mentre
si
dovrà
aspettare
il
1967
per
una
nuova
rappresentanza
al
parlamento.
A
partire
dagli
anni
Settanta
invece
le
percentuali
dei
nazionalisti
crescono
sensibilmente,
raggiungendo
l’apice
del
1974,
quando
si
attestano
al
30%,
facendo
diventare
lo
SNP
il
secondo
partito
del
paese
dietro
i
laburisti.
Fra
leggeri
cali
e
tornate
elettorali
positive,
solo
con
gli
anni
Novanta
il
partito
tornerà
a
giocare
un
ruolo
centrale
nella
politica
britannico
promuovendo
la
nascita
del
parlamento
scozzese
attraverso
un
referendum.
Salmond
ha
guidato
il
partito
per
un
breve
periodo
a
cavallo
del
Duemila,
ma è
tornato
leader
dei
nazionalisti
solo
nel
2004
e
dal
quel
momento
ha
lavorato
dietro
le
quinte
per
questo
importante
referendum.
Da
quel
periodo
fino
ad
oggi
i
consensi
del
partito
sono
comunque
in
ascesa
(solo
un
anno
fa
il
fronte
indipendentista
era
attestato
al
30%)
e il
leader
dello
SNP
è
riuscito
anche
a
diventare
il
primo
premier
scozzese
non
laburista.
E se
in
ambito
internazionale
il
partito
ha
relazioni
e
contatti
con
i
gruppi
europei
della
European
Free
Alliance,
un
raggruppamento
di
partiti
regionalisti,
indipendentisti
e
autonomisti
di
diverso
orientamento
e
orizzonte
politico,
lo
SNP
si
rapporta
anche
con
la
famiglia
dei
Verdi,
in
particolare
con
The
European
Green
Party.
La
Scozia
resterà
al
suo
posto
–
visceralmente
legata
al
Regno
Unito
– e
nonostante
i
suoi
sforzi,
Alex
Salmond
non
sarà
ricordato
come
il
moderno
William
Wallace.
A
vincere
ancora
una
volta
sono
gli
stati
gli
inglesi.