[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 201 / SETTEMBRE 2024 (CCXXXII)


attualità

una visione poliedrica del Medio Oriente
APEIROGON

di Giovanna D'Arbitrio


L’irlandese Colum Mc Cann nel suo libro Apeirogon (Ed. Feltrinelli) ci offre la sua particolare interpretazione del conflitto israelo-palestinese dopo numerosi viaggi in Terra Santa. Un apeirogon letteralmente è un poligono dai lati infinitamente numerabili e l’autore sceglie questa metafora per descrivere le svariate e infinite cause ed effetti, azioni e reazioni che da tempo stanno avvolgendo due popoli in una crescente spirale d’odio.

Colum Mc Cann, nato e cresciuto a Dublino, ha ricevuto numerosi premi, inclusi il National Book Award e l’International Impac Dublin Literary Award. I suoi lavori sono stati tradotti in più di 40 lingue. Insegna all’Hunter College e vive a New York.

Il libro viene così presentato: «Bassam Aramin è palestinese. Rami Elhanan è israeliano. Il conflitto colora ogni aspetto della loro vita quotidiana, dalle strade che sono autorizzati a percorrere, ai checkpoint, alle scuole che le loro figlie, Abir e Smadar, frequentano. Sono costretti senza sosta a negoziare fisicamente ed emotivamente con la violenza circostante. Come l’Apeirogon del titolo, un poligono dal numero infinito di lati, infiniti sono gli aspetti, i livelli, gli elementi di scontro che vedono contrapposti due popoli e due esistenze su un’unica terra. Ma il mondo di Bassam e di Rami cambia irrimediabilmente quando Abir, di dieci anni, è uccisa da un proiettile di gomma e la tredicenne Smadar rimane vittima di un attacco suicida. Due tragedie speculari, una stessa perdita insanabile che permette a Bassam e Rami di riconoscersi, diventare amici per la pelle e decidere di usare il loro comune dolore come arma per la pace. Nella sua opera più ambiziosa, Colum McCann crea un romanzo epico che affonda le sue radici nell’improbabile, reale amicizia tra due padri. Partendo dalle storie personali di questi uomini ne nasce un’altra, che attraversa secoli e continenti, cuce insieme arte, storia, natura e politica. Giocando con gli ingredienti del saggio e del romanzo, ci dona un racconto allo stesso tempo struggente e carico di speranza».

Senza dubbio un irlandese come Mc Cann sa cosa significhi dover vivere in un luogo dove precarietà e paura rappresentano la quotidianità nel contesto di guerra e terrorismo e pertanto si comprende il suo interesse per il conflitto in Medio Oriente e per la particolare storia dell’israeliano Rami Elhanan e del palestinese Bassam Aramin: il primo, discendente da un nonno sfuggito in Ungheria alla Shoah, il secondo cresciuto con la sua famiglia in una grotta vicino a Hebron, distrutta dall’esercito israeliano in una notte; Bassam (dopo sette anni di carcere per avere lanciato due granate contro una jeep militare) si sposa e ha dei figli tra i quali Abir, la sua bimba di 10 anni che viene uccisa davanti alla scuola da una pallottola di gomma sparata da un soldato israeliano. Otto anni dopo la morte di Abir, a Gerusalemme Smadar, la figlia quattordicenne di Rami, muore in un attentato suicida organizzato da Hamas.

Rami e Bassam diventano amici partecipando alle attività di “Combattenti per la Pace”, un’associazione nata nel 2005 per iniziativa di israeliani e palestinesi che hanno deciso di uscire dalla spirale di violenza con la nonviolenza della parola. In seguito, entrambi aderiscono all’associazione “Parents’ Circle Family Forum” in cui palestinesi e israeliani, uniti dal dolore, rifiutano la vendetta e lottano per dialogo e pace. Oggi Rami e Bassam stanno portando il loro messaggio in vari paesi del mondo, spiegando i loro obiettivi in scuole, centri culturali e conferenze, coinvolgendo personaggi politici e perfino il Papa.

«Da bambino pensavo che essere palestinese, musulmano, arabo, fosse una punizione divina. E me la portavo dietro come un grosso peso intorno al collo. Da bambino non fai che chiedere perché, ma da adulto, di chiedere perché te lo sei ormai dimenticato. Accetti e basta- ha affermato Bassan- Ma in prigione cominciai a riflettere sulle nostre esistenze, sulla nostra identità, in quanto arabi, e questo mi portò a riflettere anche sugli ebrei. E a quel punto compresi che l’Olocausto era reale, era successo per davvero. E cominciai a pensare, all’inizio con riluttanza, che gran parte della mentalità degli israeliani doveva essere scaturita da quello, decisi così di provare a capire chi fosse davvero quella gente, quanto avesse sofferto, e perché nel ‘48 avesse scaricato la sua oppressione su di noi, e avesse continuato a farlo, rubando le nostre case, portando via la nostra terra, infliggendoci la nostra Nakba, la nostra catastrofe. Noi, i palestinesi, eravamo diventati le vittime delle vittime. Volevo saperne di più».

Una domenica mattina un gruppo di israeliani entrò nel villaggio palestinese di Anata con diverse auto e si fermò davanti alla scuola dove Abir era stata uccisa, si misero al lavoro e dopo qualche settimana completarono un campo da basket, primo e unico campo giochi di Anata. Alla fine dei lavori gli amici di Rami e di Bassam misero un cartello sul quale era scritto “Il giardino di Abir”.

Senz’altro un libro colto e allo stesso tempo poetico, ricco di episodi e contributi di amici sparsi qua e là nel mondo, aneddoti storici, notizie di cronaca, immagini, informazioni di ogni genere.

Araab Aramin, che aveva 14 anni quando spararono a sua sorella Abir, ha affermato quanto segue: «Noi non parliamo della pace, noi facciamo la pace. Pronunciare insieme i nomi Smadar e Abir è la nostra semplice, genuina verità».

Una verità purtroppo oggi poco condivisa che vede crescere un conflitto in una pericolosa escalation.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]