N. 65 - Maggio 2013
(XCVI)
James Ridde Hoffa
SANTO O MAFIOSO?
di Christian Vannozzi
Un
giovane
James
Ridde
Hoffa,
di
notte
su
una
strada
extraurbana,
scende
dalla
sua
macchina
per
avvicinarsi
ad
un
autocarro
fermo
sul
ciglio
della
strada,
in
cui
si
stava
riposando
Ciaro.
Ciaro
cerca
di
cacciarlo,
riconoscendolo
come
attivista
sindacale,
dicendogli
che
non
voleva
essere
licenziato
a
causa
sua.
, ma
Hoffa
con
insistenza
sale
sull’autocarro
ed
inizia
a
parlare
con
Ciaro,
dei
benefici
del
sindacato
e di
tutto
ciò
che
si
può
ottenere
con
la
contrattazione
collettiva.
Alla
fine
gli
lascia
il
suo
biglietto
da
visita,
e
scende
dall’autocarro.
Qualche
giorno
dopo,
Ciaro
incontra
Hoffa
fuori
dal
deposito
degli
autocarri,
intento
ad
organizzare
uno
sciopero.
Quando
il
presidente
della
compagnia
scopre
che
Ciaro
aveva
dato
un
passaggio
ad
Ho,
Ciaro
viene
licenziato.
La
sera
stessa,
Bobby
cerca
Hoffa
per
ucciderlo
con
un
coltello,
a
causa
del
licenziamento
subito,
ma
interviene
il
collaboratore
più
stretto
di
Hoffa,
Billy
Flynn,
che
intima
con
una
pistola
Ciaro,
ad
abbassare
il
coltello
e a
lasciar
libero
Jimmy.
Da
questo
momento
inzia
la
collaborazione
tra
Hoffa
e
Ciaro,
che
proseguirà
sino
alla
fine
del
film.
Oltre
ad
occuparsi
degli
autotrasportatori,
Hoffa
si
occupava
anche
delle
lavanderie,
ma
trovavano
anche
qui
una
forte
opposizione,
sia
da
parte
dei
datori
di
lavoro,
che
dei
lavoratori
stessi,
che
avevano
paura
di
perdere
il
lavoro.
A
volte
l’opposizione
poteva
anche
diventare
violenta
sia
dall’una
che
dall’altra
parte.
Hoffa
e
Flynn
infatti
non
disdegnavano
di
dare
avvertimenti
concreti
alle
lavanderie
che
rispondevano
negativamente
all’associazione
sindacale,
che
potevano
raggiungere
anche
incendi
dolosi.
Durante
una
di
queste
azioni,
Flynn
muore
bruciato,
e
Ciaro
diventa
il
collaboratore
più
stretto
di
Hoffa.
IL
film
torna
ora
al
parcheggio,
dove
i
due
anziani
Hoffa
e
Ciaro,
continuano
ad
aspettare
in
macchina,
ricordando
i
primi
passi
compiuti
dal
sindacato
degli
autotrasportatori.
In
uno
sciopero
contro
la
compagnia,
gli
scioperanti
vengono
attaccati
dalla
polizia
e
dalla
Pinkerton,
l’istituto
di
vigilanza
privata
a
cui
ricorrevano
i
datori
di
lavoro,
per
contrastare
gli
scioperanti
e
far
picchiare
i
lavoratori,
che
decidevano
di
aderire
allo
sciopero.
Durante
questi
scontri,
Hoffa
è
portato
via
da
un
paio
di
uomini
per
incontrare
il
boss
della
mafia
di
zona.
Ciaro
che
è di
origine
italiana,
lo
accompagna
per
fargli
da
interprete.
Durante
questo
incontro,
Hoffa
riesce
a
raggiungere
un
accordo
con
la
mafia,
in
nome
di
interessi
comuni.
In
questo
frangente
Hoffa
stringe
un
legame
basato
su
comuni
interessi,
con
il
giovane
boss
Carol
D’Allesandro.
Il
film
prosegue
con
l’ascesa
di
Jimmy
Hoffa
alla
presidenza
della
fratellanza
internazionale
degli
autotrasportatori
(IBT).
Nel
’37
come
capo
sezione
della
299
di
Detroit,
in
contrasto
con
il
presidente
del
sindacato
Tobin,
e
con
l’AFL,
che
aveva
appena
ottenuto
dal
presidente
Roosvelt
il
diritto
legale
all’associazionismo
sindacale,
Hoffa
continua
uno
sciopero
che
durava
ormai
da 6
settimane,
ed
organizza
una
marcia,
che
si
trasforma
in
uno
scontro
con
la
Pinkerton,
dove
rimarranno
uccisi
numerosi
manifestanti.
Diventato
vice-presidente
della
IBT
negli
anni
’50,
sotto
la
presidenza
di
Beck,
Hoffa
crea
un
fondo
pensioni,
dal
quale
concede
ingenti
prestiti
al
boss
della
mafia
D’Allesandro.
Una
commissione
di
inchiesta
condotta
da
R.
Kennedy,
prima
come
senatore,
poi
come
ministro
della
giustizia,
inizia
ad
indagare
sui
rapporti
illeciti
tra
IBT
e
malavita
organizzata.
R.
Kennedy,
arriverà
ad
incarcerare
prima
Beck,
e
poi
a
dirigere
il
suo
zelo
su
Hoffa,
divenuto
nel
’57
nuovo
presidente
della
IBT.
Lo
scontro
tra
i
due
protagonisti
di
questa
parte
del
film,
raggiunge
il
suo
culmine
nell’oscenità
di
linguaggio
di
Hoffa,
nello
studio
di
Robert
Kennedy,
dove
arriva
ad
insultare
il
fratello
presidente.
Alla
fine
c’è
comunque
l’incriminazione
di
Hoffa,
a
causa
di
un
collaboratore
del
sindacato,
che
testimonia
relativamente
agli
incontri
e
alle
discussioni
che
ci
sono
state
tra
Hoffa
e D’Allesandro,
alle
quali
era
presente.
Ciaro
e
Hoffa
vengono
così
arrestati
e
portati
alla
Pensylvania
Federal
Prison.
Ciaro
che
viene
rilasciato
prima
di
Hoffa
inizia
a
mobilitarsi
per
la
scarcerazione
del
suo
amico.
Durante
un
incontro
tra
Ciaro
e D’Allesandro,
il
boss
suggerisce
che
gli
autotrasportatori
avrebbero
dovuto
sostenere
la
candidatura
alla
presidenza
di
Nixon,
in
modo
che
in
caso
di
vittoria,
il
presidente
avrebbe
potuto
cncedere
la
grazia
ad
Hoffa.
Le
condizioni
per
il
rilascio
prevedono
però
l’allontanamento
di
Hoffa
dal
sindacato
per
10
anni,
condizione
che
Hoffa
non
accetterà,
e lo
renderà
furioso
nei
confronti
di
Fitzsimmons,
che
lo
aveva
sostituito
alla
presidenza
e
aveva
concordato
con
il
presidente
Nixon,
la
clausola
dell’allontanamento
dal
sindacato
per
10
anni.
Hoffa
arriverà
anche
ad
organizzare
un
attentato
nei
confronti
di
Fitz,
che
però
fallirà.
Chiede
anche
aiuto
a D’Allesandro,
che
gli
dà
appuntamento
nel
caffè,
nel
cui
piazzale
di
sosta,
gli
anziani
Hoffa
e
Ciaro
sono
in
attesa
dall’inizio
del
film.
Alla
fine,
si
scopre
infatti
che
è il
boss
D’Allesandro,
che
i
due
sindacalisti
attendono
nel
piazzale.
La
fine
cerca
di
dare
una
possibile
spiegazione
alla
scomparsa
di
Jimmy
Hoffa
nell’estate
del
1975.
Il
sindacalista
viene
assassinato
durante
l’attesa
nel
piazzale,
mentre
leggeva
il
libro
“il
nemico
in
casa”,
scritto
da
Robert
Kennedy,
e
donatogli
dal
senatore
stesso,
mentre
Hoffa
era
in
prigione.
La
critica
è
stata
molto
dura
sul
film
ma
allos
tesso
modo
a
rappresentato
ciò
che
il
film
voleva
far
emergere.
Qui
riportiamo
alcuni
passi:
Le
ragioni
festivaliere
(leggasi:
la
possibilità
di
avere
qualche
star
di
prima
grandezza
per
dare
lustro
mondano
alla
manifestazione)
hanno
spesso
la
meglio
su
ogni
altra
considerazione.
E
così
la
Berlinale
1993,
dopo
aver
presentato
Malcolm
X di
Spike
Lee,
ha
trovato
opportuno
insistere
sulla
linea
dei
“docudrama”
e
andare
alla
pari
nell’algebra
ideologica
mettendo
in
programma
un
filmone
epico
e
bugiardo
come
Hoffa
perché
Nicholson
-
che
è la
forza
e la
qualità
del
film,
bravissimo,
istrionico,
odioso
e
simpaticissimo
- si
era
dichiarato
disposto
a
venire:
ed è
venuto,
difendendo
a
spada
tratta
il
film
dalle
critiche.
Critiche
sin
troppo
facili.
Il
“biopic”
di
Danny
De
Vito
(per
una
volta,
con
un
modesto
Danny
De
Vito
attore
nel
personaggio
mai
esistito
di
un
assistente-amico
di
Hoffa)
ha
certo
tutte
le
qualità
produttive
di
un
film
di
alto
costo.
Ma
indulge
a
tutti
i
vizi
di
un
neoregista
che
gioca
con
le
tecniche
appena
scoperte:
ed
ecco
quindi
dissolvenze
incrociate
destinate
a
sbalordire,
riprese
zenitali
e,
peggio
di
tutto,
De
Vito
stesso
narcisisticamente
riflesso
in
almeno
nove
immagini
speculari.
Soprattutto,
presenta
come
un
eroe
dei
lavoratori
afflitto
solo
da
qualche
intemperanza
caratteriale
Jimmy
Hoffa,
il
potentissimo
presidente
dei
camionisti,
che
tra
il
1957
e il
1967
condusse
la
sua
Union
con
sistemi
a
dir
poco
malavitosi,
e
che
spari
senza
lasciar
traccia
da
un
parcheggio
alla
periferia
di
Detroit
nel
1975
per
finire,
a
opera
della
mafia
sostengono
i
più,
in
qualche
pilone
di
cemento
o in
pasto
ai
pesci.
La
tesi
del
film,
che
si
fa
beffe
in
maniera
pesante
di
Bob
Kennedy,
l’allora
ministro
della
Giustizia
che
trascinò
Hoffa
di
fronte
a
una
commissione
d’inchiesta,
è
che
Hoffa
sia
stato
vittima
della
Cia.
In
un
momento
in
cui
la
storia,
da
JFK
in
qua,
è
oggetto
di
riletture
e
revisionismi
continui
da
parte
del
cinema,
si
può
capire
anche
questo.
Un
po’
meno
il
tono
agiografico
che
il
film
riserva
al
suo
personaggio,
manco
fosse
Di
Vittorio.
E
ancora
meno
si
capisce
cosa
ci
faccia
David
Mamet
in
questa
sceneggiatura-polpettone
con
le
sue
evidenti
simpatie
di
destra.
Che
questo
fosse
l’unico
modo
per
fare
il
film
su
Hoffa
che
Hollywood
tenta
da
almeno
trent’anni
-
tra
l’altro,
da
un
libro
di
Bob
Kennedy
- e
che
le
minacce
dei
Teasters
impedirono
di
fare,
non
giustifica
l’operazione,
se
non
dal
punto
di
vista
della
disinformazione-spettacolo.
Da
Irene
Bignardi,
Il
declino
dell’impero
americano,
Feltrinelli,
Milano,
1996
Danny
De
Vito
e
David
Mamet,
insieme:
basta
questo
a
garantire
spettacolo
e
acutezza
d’analisi.
Il
primo
-
interprete
completo
che
passa
con
uguale
efficacia
da
ruoli
comici
a
ruoli
tragici
-
s’è
da
tempo
rivelato
regista
sicuro
ed
elegante.
Il
pubblico
italiano
ne
ha
gustato
il
caustico
Getta
la
mamma
dal
treno
(1987)
e il
raffinato
La
guerra
dei
Roses
(1989).
Il
secondo,
già
autore
teatrale
affermato,
ha
dato
al
cinema
opere
come
La
casa
dei
giochi
(1987),
Le
cose
cambiano
(1988)
e
Homicide
(1991);
film
profondo,
per
quanto
misconosciuto,
sull’identità
razziale
negatrice
della
dignità
individuale).
Eppure,
il
loro
Hoffa
-
santo
o
mafioso?
-
regia
di
De
Vito,
sceneggiatura
di
Mamet
- è
piaciuto
a
pochi.
Gli
si
rimprovera
di
aver
fatto
un
ritratto
agiografico
di
Jimmy
Hoffa,
fino
agli
anni
Settanta
potente
e
ambiguo
capo
dell’International
Brotherhood
of
Teamsters,
ossia
del
sindacato
dei
camionisti
negli
USA.
Un
rimprovero,
questo,
che
suona
di
per
se
stesso
come
una
condanna
inappellabile,
nella
nostra
cultura
cinematografica
attentissima
ai
“contenuti”
e
sprezzante
delle
ragioni
del
cinema.
Jack
Nicholson
è
bravissimo
nel
ruolo
del
leader
megalomane?
De
Vito,
racconta
con
stile
asciutto
e
vigoroso?
Mamet
ricostruisce
e
interpreta
in
poco
più
di
due
ore
le
atmosfere
e i
fatti
di
un
trentennio
di
storia
americana?
Tutto
questo
poco
conta.
Il
film
non
ha
fatto
quel
che
il
senso
comune
gli
imponeva
di
fare:
non
ha
demonizzato
Hoffa,
anzi
- si
dice
- lo
ha
santificato.
Che
cosa
si
può
opporre
al
senso
comune?
Inutile
invocare
i
meriti
cinematografici:
la
testardaggine
critica
dei
senso
comune
è
sorda,
e
soprattutto
è
cieca.
Conviene
allora
scendere
al
livello
dei
contenuti.
Lì,
a
quel
livello,
si
scopre
che
i
rimproveri
non
hanno
fondamento,
dentro
il
racconto.
Supponiamo
di
non
conoscere
nulla
di
Jimmy
Hoffa,
dei
suoi
rapporti
con
la
mafia,
delle
frequentazioni
ambigue
dei
Kennedy
(John
Mackenzie
se
n’è
occupato
in
Ruby,
1992),
della
compravendita
elettorale
tra
Richard
Nixon
e l’International
Brotherhood
of
Teamsters...
Cosa
emerge,
comunque,
dal
film,
da
dentro
il
suo
racconto?
Emerge
il
ritratto
inquietante
(ed
esemplare)
di
un
leader.
De
Vito,
Mamet
e
Nicholson
-
tutti
e
tre,
a
diverso
titolo,
autori
- ne
seguono
la
carriera,
ne
smascherano
gli
strumenti
di
potere.
Hoffa
-
qui
il
merito
è in
primo
luogo
di
Mamet
-
somiglia
a un
piccolo
saggio
di
filosofia
politica
realistica.
Già
in
Le
cose
cambiano
aveva
fatto
qualcosa
del
genere.
A
parte
la
storia
di
un
vecchio
lustrascarpe
e di
un
piccolo
delinquente
che
si
trovano
a
combattere
contro
la
mafia
per
aver
salva
la
vita
e la
dignità,
quel
film
“raccontava”
le
logiche
di
un
potere
piramidale,
delle
sue
stratificazioni
di
dominio,
della
sua
capacità
di
corrompere
l’anima
degli
individui.
Ora,
in
Hoffa,
Mamet
“racconta”
il
potere
più
tipico
del
nostro
tempo,
quello
dei
capi
carismatici
di
massa,
dei
pifferai
di
Hàmmelin
che
trascinano
milioni
di
uomini
entusiasti
nell’abisso
della
loro
paranoia.
Questo
è il
Jimmy
Hoffa
che
sta
dentro
il
film:
un
pifferaio
tra
i
tanti,
un
manipolatore
di
passioni,
un
conoscitore
istintivo
dei
meccanismi
collettivi
di
comportamento,
un
cinico
che
recita
il
ruolo
dell’idealista,
un
avido
capace
di
spacciarsi
per
altruista.
Regia
e
sceneggiatura
ne
colgono
i
particolari
nascosti,
occultati:
il
disprezzo
per
la
massa
dei
seguaci
ma
anche
per
i
compagni
più
stretti,
il
ricorso
sistematico
alla
menzogna,
l’abitudine
a
misurare
il
mondo
con
il
metro
di
un’autostima
sfrenata.
Ognuno
di
questi
“difetti”
dà
forza
alla
“qualità”
politicamente
complementare.
Il
disprezzo
per
i
seguaci
consente
di
governarli.
Quello
per
i
compagni
consente
di
neutralizzarne
il
pericolo
(quale
pericolo?
quello
di
esserne
scalzati,
ovviamente).
Il
ricorso
alla
menzogna
consente
di
dare
alla
massa
quel
che
la
massa
chiede:
illusioni,
soprattutto
l’illusione
che
il
capo
ami
tutti
e
ognuno.
L’autostima
sfrenata
produce
e
conferma
negli
altri
la
convinzione
che,
davvero,
in
lui
si
trovi
incarnato
il
Valore.
Dov’è,
qui,
l’agiografia?
L’Hoffa
di
De
Vito,
Mamet
e
Nicholson
è
insieme
santo
e
mafioso,
dio
e
demonio:
questa
ambiguità
è
l’ambiguità
dei
moderni
Pifferai,
quella
che
spiega
il
loro
potere.
Questo
Hoffa
-
che
sta
dentro
il
film
-
più
che
un’eccezione
incresciosa
ha
l’aria
d’essere
una
normalità
terribile.
Che
il
film
sia
stato
rifiutato
dalla
testardaggine
critica
del
senso
comune
dice
qualcosa
sulla
cattiva
qualità
dei
suoi
orecchi
e
dei
suoi
occhi,
ma
forse
dice
ancor
di
più
sul
bisogno
diffuso
di
illusioni.
Detto
altrimenti:
per
caso,
la
colpa
implicita
del
film
non
consiste
nel
fatto
che
in
Jimmy
Hoffa
gli
autori
condannano
tutta
la
categoria
dei
Pifferai,
senza
curarsi
di
distinguere
tra
Pifferai
Malvagi
e
Pifferai
Buoni?