N. 75 - Marzo 2014
(CVI)
12 ANNI SCHIAVO
LA SchiaVITù DI ieri e DI oggi
di Giovanna D’Arbitrio
Dopo
film
di
successo
come
“Hunger”
(su
Bobby
Sands)
e “Shame”,
il
regista
Steve
McQueen
si
dedica
al
complicato
periodo
storico
in
cui
la
schiavitù
in
America
non
era
ancora
stata
abolita
negli
stati
del
Sud.
Il
suo
recente
film
“12
Anni
Schiavo”
(12
Years
a
Slave),
tratto
dall’omonimo
libro
di
memorie
di
Solomon
Northup
(interpretato
da
Chiwetel
Ejifor),
narra
la
storia
di
un
bravo
violinista
nero
che
nel
1841
viveva
con
la
sua
famiglia
nella
contea
di
Saratoga
a
New
York.
Un
giorno,
tratto
in
inganno
da
falsi
agenti
di
spettacolo,
venne
deportato
in
Louisiana,
venduto
come
schiavo
e
costretto
a
subire
inaudite
violenze
nelle
piantagioni
di
cotone.
L’incubo
durò
dodici
anni,
tra
colpi
di
frusta,
torture
fisiche
e
psichiche
inflitte
da
padroni
sadici
e
degeneri,
come Edwin
Epps
(Michael
Fassbender),
finché
non
arriverò
Bass
(Brad
Pitt),
un
abolizionista
canadese
che
lo
aiutò
a
tornare
a
casa.
Da
qualche
tempo
sembra
che
il
cinema
si
concentri
in
modo
particolare
sullo
schiavismo,
come
si
può
notare
da
film
quali
“Lincoln”
(S.
Spielberg),
“Djanco
Unchained”
(Q.
Tarantino),
“The
Butler”
(L.
Daniel)
e il
suddetto
“12
anni
Schiavo”
che,
benché
abbia
avuto
già
diverse
nomination
agli
Oscar,
da
alcuni
critici
non
viene
giudicato
come
il
film
migliore
di
S.
MacQueen.
Il
regista
ha
spiegato,
pertanto,
in
un’intervista
che
“
una
storia
vera
impone
rispetto,
non
permette
eccessi
d’invenzioni
visuali”
e
che
nello
scegliere
un’autobiografia
intendeva
far
rivivere
agli
spettatori
le
esperienze
di
un
uomo
libero
che
all’improvviso
si
ritrova
schiavo
e
viene
proiettato
in
una
realtà
completamente
diversa.
Ha
aggiunto
che
sotto
tale
aspetto
il
libro
di
Salomon
Northup
è in
qualche
modo
paragonabile
al
diario
di
Anna
Frank.
“12
Anni
Schiavo”
è
senz’altro
un
buon
film
che
si
avvale
di
bravi
attori
e
della
sceneggiatura
di
J.
Ridley,
(fotografia
di
S.
Bobbit,
musiche
di
H.
Zimmer),
ma
in
effetti
non
sempre
riesce
a
coinvolgere
gli
spettatori
per
una
narrazione
a
volte
troppo
lenta
e
ripetitiva,
pur
se
si
resta
colpiti
dalla
durezza
di
certe
scene
di
violenza.
Pare
che
il
regista
abbia
dichiarato
anche
che
un
regista
di
colore
possa
raccontare
con
maggior
realismo
lo
schiavismo
vissuto
dai
neri
sulla
propria
pelle:
in
verità
non
siamo
d’accordo
su
tale
affermazione.
Basti
ricordare
due
film
di
Spielberg,
come
“Il
Colore
Viola”
del
1985
e
soprattutto
“Amistad”
del
1995,
una
coinvolgente
lezione
su
schiavismo,
colonialismo
e
valori
della
democrazia
americana
(spesso
dimenticati)
con
riferimento
ai
Padri
Fondatori
degli
USA
e
“all’esempio
positivo
degli
antenati”,
presente
anche
nelle
culture
tribali
nere.
Così
“Amistad”,
il
nome
del
vascello
dei
negrieri
spagnoli,
gradualmente
diventa
nel
film
un
simbolo
di
amicizia
e di
dialogo
tra
due
popoli
di
razze
diverse.
Ci
colpisce,
infine,
il
fatto
che
il
cinema
in
genere
si
soffermi
sullo
schiavismo
più
come
fenomeno
del
passato
che
del
presente,
mentre
sappiamo
purtroppo
che
oggi
il
problema
non
è
stato
ancora
risolto
in
tanti
paesi,
come
si
rileva
dai
racconti
degli
immigrati
africani
(soprattutto
quelli
delle
donne)
che
approdano
stremati
sulle
nostre
coste.
In
particolare
ci
sembrano
davvero
impressionanti
i
dati
UNICEF
sui
“bambini
schiavi”
coinvolti
in
lavoro
minorile,
guerre
(bambini
soldato),
sfruttamento
sessuale,
traffico
di
organi
e
quant’altro.