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[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 156 / DICEMBRE 2020 (CLXXXVII)


attualità

IL LIBERO SCAMBIO SECONDO PECHINO

A PROPOSITO DI RCEP

di Gian Marco Boellisi

 

Passato in sordina nei confronti della maggior parte dell’opinione pubblica, lo scorso novembre 2020 è stato firmato uno dei trattati commerciali più importanti degli ultimi decenni. Si tratta del Regional Comprehensive Economic Partnership o RCEP (Partenariato regionale economico comprensivo) e raggruppa alcune delle più grandi ed emergenti economie asiatiche.

 

Oltre ad avere una valenza economica enorme, anche se ancora non perfettamente quantificabile, ha dei risvolti geopolitici di entità mastodontiche. In primis perché è un trattato sponsorizzato e creato dalla Cina di Xi Jinping, la quale continua la sua avanzata imperterrita verso il primato globale a discapito del podio attualmente occupato dagli Stati Uniti, e in secundis perché proprio gli Stati Uniti non sono inclusi nel trattato, tagliando fuori di fatto Washington dalla nuova più grande zona di libero scambio al mondo. Risulta quindi interessante analizzare le dinamiche che hanno portato al trattato, ma soprattutto capire le implicazioni che esso avrà sulla comunità internazionale.

 

Partiamo dalla struttura del trattato. Il RCEP è stato firmato da quindici paesi asiatici e del Pacifico, ovvero i 10 membri dell’Asean (Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico), cioè Vietnam, Cambogia, Indonesia, Malesia, Filippine, Singapore, Thailandia, Brunei, Birmania, Laos, insieme a Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda.

 

I numeri di questo partenariato commerciale sono spaventosi. Infatti esso simboleggia da solo il più grande accordo di libero scambio del mondo, rappresentando il 30% del PIL mondiale e il 27,4% del commercio globale. Il trattato andrà a coprire i fabbisogni di oltre 2,2 miliardi di consumatori, ovvero poco meno di un terzo dell’intera popolazione mondiale. Tutti i paesi membri del RCEP rappresentano il 50% della produzione manifatturiera globale, il 50% di quella automobilistica e ben il 70% di quella elettronica. Mai si era visto nella storia più recente un progetto tanto ambizioso realizzarsi.

 

L’accordo è stato firmato il 15 novembre 2020 dopo ben 8 anni di negoziati intensi, portati avanti per lo più da Pechino con i vari interlocutori. In merito al testo ufficiale del partenariato si sa ancora poco, tuttavia sicuramente esso mirerà a estendere e ampliare accordi commerciali già in vigore tra gli stati membri. Inoltre è molto probabile che verranno anche previsti piani di sviluppo onnicomprensivi che interesseranno la macro regione del trattato.

 

Da quel poco che è trapelato si ritiene che una delle prima misure che verranno implementate sarà l’abbattimento dei dazi tra i paesi firmatari tra l’85% e il 90%. Questo ambizioso piano sarà attivato in parte subito e in parte entro una decina d’anni. Inoltre all’interno del partenariato sono presenti svariati direttive inerenti a tematiche commerciali molto specifiche, quali quelle riguardanti gli investimenti e la loro regolazione, il commercio dei beni, le nuove tecnologie e anche gli appalti pubblici.

 

Nonostante questi ottimi passi avanti, è importante sottolineare come siano anche svariati i punti lasciati da parte. Infatti un grande assente dagli accordi è il settore agricolo, così come è stato trattato superficialmente il settore dei servizi. Inoltre è stato accantonato anche il tema della creazione di uno standard comune per i prodotti e le merci che avranno origine dalla nuova zona di libero scambio, così come il tema della tutela del lavoro, dell’ambiente e dulcis in fundo della proprietà intellettuale.

 

Sicuramente ciò è stato fatto in parte per l’enorme differenzazione delle economie degli stati appartenenti al RCEP, motivo per il quale è estremamente difficile unire paesi tanto diversi su tematiche tanto importanti per il mondo d’oggi. Tuttavia è anche probabile che tali argomenti non siano stati inclusi nel trattato perché in parte costituiscono il punto di forza della produzione manifatturiera del Sud-Est asiatico e tutelarle e/o regolamentarle porterebbe a una riduzione dei benefici piuttosto che a un loro aumento. Al netto di tutto, le stime iniziali parlano di un incremento del PIL mondiale grazie all’accordo di 209 miliardi di dollari nel 2030 e di un incremento del commercio internazionale di 500 miliardi entro lo stesso anno.

 

Il RCEP capita ad hoc, vista la dilagante pandemia globale attualmente in corso di Covid-19. Infatti l’accordo, oltre a essere un trampolino di lancio per le economie della regione, vuole anche essere un’opportunità per risollevare tutte le economie colpite duramente dalla pandemia. A seguito degli accordi previsti dal trattato, entro il 2030 la Cina sarà lo stato che avrà ricevuto un maggior credito dal partenariato, ovvero circa 100 miliardi di dollari, seguita dal Giappone con 46 miliardi e dalla Corea del Sud con 23 miliardi.

 

Oltre ai dati meramente macroeconomici, il RCEP risulta essere anche un grande traguardo dal punto di vista geopolitico. Infatti oltre al successo dell’aver unito economie tanto diverse tra loro, Pechino ha anche avuto l’insolito successo di unire sotto un obiettivo comune nazioni che normalmente sono avversarie, per non dire nemiche. Si parla ovviamente di Cina, Giappone, Corea del Sud e Australia.

 

Essendo questo un accordo che coinvolge gli stati del Sud-Est asiatico, e in più generale del Pacifico, salta subito all’occhio un assente importante, ovvero gli Stati Uniti d’America. Non includendo Washington, o non volendo essere Washington inclusa in un accordo capeggiato da Pechino (l’interpretazione qui è sicuramente ambivalente), la Cina ha praticamente escluso il grande rivale americano dal più grande accordo commerciale del pianeta e quindi anche dai mercati asiatici, che per inciso hanno il più grande tasso di crescita al mondo.

 

Essendo Pechino l’economia più importante all’interno del RCEP, essa avrà probabilmente il maggior peso nelle decisioni del partenariato e anche il maggior spazio di manovra. Inoltre potrà sfruttare la situazione per un proprio tornaconto politico. Se da un lato potrà sia migliorare le relazioni con i propri alleati sia mediare con le nazioni con le quali sono in atto dispute territoriali nel Mar Cinese Meridionale, dall’altro potrà avvicinarsi ai rivali storici della regione quali Giappone e Corea del Sud erodendo lentamente, ma in maniera costante, quell’influenza statunitense presente ormai nei due paesi dal secondo dopoguerra in poi.

 

Sono di particolare interesse le adesioni di Giappone e Australia, le quali sono state forzate sicuramente in prima istanza dalla situazione delle rispettive economie nazionali, ormai sempre più colpite dalla pandemia. Tuttavia la ragione profonda risiede probabilmente nel vuoto lasciato dalla politica degli Stati Uniti a livello regionale. Non è un segreto infatti che l’amministrazione Trump abbia allentato i rapporti con molti storici alleati statunitensi. Questo tipo di dinamiche ha favorito un ripensamento generale delle relazioni con la Casa Bianca, ma per quanto riguarda l’Asia ha portato molto spesso a un avvicinamento sostanziale con la Cina.

 

 

A livello regionale con il RCEP viene sicuramente confermata l’importanza dell’Asean, organizzazione sovrastatale sempre più presente nelle dinamiche asiatiche. L’assente per eccellenza negli accordi è l’India, la quale ha temuto la concorrenza spietata all’interno del gruppo e ha preferito momentaneamente accantonare la proposta d’ingresso. I timori di Nuova Delhi infatti riguardano prevalentemente i propri prodotti agricoli e prodotti caseari, nonché quelli manifatturieri, i quali verrebbero esposti all’interno del RCEP a una concorrenza spietata che difficilmente potrebbe essere sostenuta dall’India. Nonostante queste considerazioni, la porta non è completamente chiusa per Nuova Delhi ed essa potrà avvalersi di una clausola per entrare più avanti allì’interno della zona di libero scambio.

 

Per Pechino la firma di questo accordo rappresenta una vittoria praticamente su tutti i fronti. Infatti esso le permetterà di aumentare la propria influenza e di sviluppare sempre più infrastrutture legate alla BRI, la Bealt and Roaad Initiative, conosciuta anche come Nuova Via della Seta. A dimostrazione di ciò, in molti dei paesi facenti parte dell’accordo sono già in via di sviluppo numerose opere legate alla BRI e ovviamente l’obiettivo è quello di aumentare considerevolmente l’entità di questi investimenti, soprattutto dopo la parziale interruzione dei lavori in molte nazioni dovuta alla pandemia.

 

Il successo della conclusione del RCEP viaggia su binari paralleli rispetto alla situazione economica attuale cinese. Infatti, mentre tutto il mondo è ormai certo registrare segni negativi per il PIL 2020, la Cina sarà l’unica economia al globo a segnare un PIL positivo. L’accordo quindi simbolicamente rappresenta anche una sorta di traino economico dell’intera regione di cui la Cina vuole tenere le redini.

 

Altro obiettivo ambizioso di Pechino è sicuramente ridurre al più possibile la propria dipendenza dai mercati esteri, specialmente quelli occidentali, così da poter essere autosufficiente con i propri partner asiatici. Ciò rientrerebbe a pieno anche nella prospettiva dell’ultimo piano economico quinquennale. Con il RCEP la Cina punta inoltre a una diffusione sempre maggiore dei propri standard di qualità, sia commerciali che tecnologici, in maniera da poter essere il metro di riferimento delle dinamiche economiche della regione e un giorno magari anche del globo intero, o quanto meno a una buona parte di esso.

 

Di particolare interesse risulta essere l’assenza statunitense all’interno del trattato, frutto sia di una scelta precisa di Pechino sia dalla politica dettata dall’ultima amministrazione americana. La prima conclusione che si può trarre da questo avvenimento è la perdita di peso che hanno avuto gli Stati Uniti da alcuni anni a questa parte, fenomeno particolarmente accentuato durante il mandato Trump. La rinnovata politica protezionistica dell’“America First” portata avanti dal Tycoon ha allontanato l’America sia commercialmente che diplomaticamente in svariati contesti, portandola così a una tangibile diminuzione di influenza in alcuni scenari.

 

Ironia della sorte, o della storia per meglio dire, ha voluto che il RCEP sia stato concepito originalmente come alternativa a un altro trattato di libero scambio, questa volta di matrice americana, chiamato Trans Pacific Partnership (Tpp). Questi è stato maggiore oggetto dei media negli anni passati e costituiva un ambizioso progetto da parte dell’amministrazione Obama di creare una zona di libero scambio tra i paesi del Pacifico così da favorirne lo sviluppo e il commercio. Obiettivo non troppo velato dell’accordo era di isolare commercialmente la Cina, motivo per il quale non era stata inclusa nelle trattative preliminari.

 

Tuttavia nel 2016, non appena Trump fu eletto alla Casa Bianca, il neo presidente procedette senza troppe remore a strappare il trattato e a porre l’attenzione dei propri lavori su altre questioni. Per quanto le proteste in merito furono molte, in particolare sul fatto che un trattato del genere avrebbe solo potuto giovare agli interessi americani e in particolare nel contenere la Cina (tematica sempre cara a Trump sin dalla campagna elettorale), la decisione fu definitiva, soprattutto in virtù della volontà del presidente di allontanarsi dal multilateralismo che aveva caratterizzato le politiche americane negli ultimi decenni.

 

Gli Stati Uniti, oltre ad essere stati esclusi dal nuovo trattato, hanno visto anche alcuni dei propri storici alleati nella regione avvallare e sottoscrivere la proposta di Pechino senza troppe remore. È curioso vedere come anche Washington e la sua rete delle alleanze venga colpita egualmente dal vecchio quanto immutabile principio del “pecunia non olet”. Dopo questa mossa la Casa Bianca sa di doversi muovere con i piedi di piombo nel Sud Est asiatico e, sebbene conservi ancora gran parte della propria influenza, sa perfettamente che nulla deve essere dare per scontato, specialmente se il proprio avversario è la Cina.

 

Il ministro del Commercio della Malesia Mohamed Azmin Ali ha affermato all’annuncio dell’accordo: «I nostri Paesi hanno scelto di aprire i rispettivi mercati invece di ristabilire misure protezioniste in questi tempi difficili». Queste parole risultano di grande importanza, specie se lette alla luce dei rapporti tra Cina e Stati Uniti negli ultimi anni e di ciò che stanno vivendo singolarmente le singole nazioni.

 

Infatti da un lato abbiamo Washington che sta percorrendo una fase storica e politica molto particolare. La potenza americana sta lottando da anni ormai contro il logoramento da impero noto anche come overstretching, ovvero quel fenomeno per il quale l’egemone non ha abbastanza risorse per mantenere la politica di potenza che lo ha portato negli anni ad essere al vertice del sistema internazionale e quindi tende a ritirarsi dai vari scenari in cui coinvolto, mettendo così a rischio la propria influenza verso i partner esteri.

 

Dall’altro lato invece Pechino è esattamente nella fase opposta. La Cina sta vivendo una fase di espansione molto rapida e aggressiva che la sta portando a erodere l’influenza globale statunitense creatasi all’indomani del secondo conflitto mondiale. Per arrivare a quest’obiettivo essa si avvale dei più disparati mezzi, tra i quali il multilateralismo e la condivisione con i partner esteri nelle proprie dinamiche di sviluppo economico. Proprio questa via era stata una delle chiavi del successo americano agli inizi mentre ora, almeno con l’ultima amministrazione, tutto ciò sembra non essere più una priorità nelle politiche americane.

 

È interessante notare come l’annuncio della firma dell’accordo sia stato fatto in concomitanza con un momento di estrema debolezza politica americana, ovvero poco dopo le elezioni dello scorso 3 novembre 2020 che alla fine hanno decretato come vincitore Joe Biden. Vista l’idea di politica profondamente diversa di Biden dal suo predecessore Trump, sarà estremamente interessante vedere dove si posizionerà la nuova amministrazione democratica per quanto riguarda il RCEP. Tuttavia è già indicativo un intervento del presidente eletto, il quale, alla notizia della firma del trattato, ha affermato che “saranno gli Stati Uniti e i loro alleati a dover scrivere le regole del libero commercio, non la Cina”, annunciando un piano riguardante il commercio internazionale che verrà presentato appena concluso l’insediamento.

 

In conclusione, quello appena firmato dalla Cina e dagli altri stati della regione è uno dei più importanti trattati internazionali degli ultimi anni. Per quanto sia difficile quantificarne gli effetti, il RCEP risulta avere almeno teoricamente tutte le carte in regola per sviluppare l’economia di tutta l’area Asia-Pacifico per alcuni  decenni.

 

Il successo ovviamente è largamente imputabile alla Cina, la quale è riuscita dopo innumerevoli anni di sforzi diplomatici a riunire sotto la causa di uno sviluppo economico comune paesi estremamente diversi dal punto di vista commerciale e portatori di culture e valori altrettanto particolari. Il successo può essere visto anche come doppio se si considera che alcuni dei paesi firmatari sono dei rivali strategici cinesi di lungo corso, a testimonianza di come il soft power cinese sia oggi molto forte anche verso quelle nazioni che rientrano ormai nel concetto allargato di Occidente.

 

Questo è un risultato molto importante per Pechino, specialmente perché ha dimostrato alla comunità internazionale quanto la Cina sia una promotrice del multilateralismo e quanto possa divenire in futuro, almeno teoricamente, un’alternativa in tutto e per tutto agli Stati Uniti.  

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]