N. 98 - Febbraio 2016
(CXXIX)
RAPPORTO
SANGIORGI,
BOMBA
INESPLOSA
IL
QUESTORE
CHE
MISE
LA
MAFIA
ALLA
SBARRA
di
Gaetano
Cellura
A
Palermo
giunse
nell’agosto
del
1898
con
buone
credenziali
e
con
il
sostegno
del
Capo
del
governo
Luigi
Pelloux,
tra
i
cui
propositi
c’era
di
combattere
la
corruzione.
E la
malavita,
specie
in
Sicilia.
Il
questore
Ermanno
Sangiorgi
aveva
messo
alla
sbarra
la
Fratellanza
di
Favara
e
acquisito,
sul
campo,
meriti
e
conoscenze
riguardo
alla
mafia,
ai
suoi
interessi
economici
(segnatamente
l’estrazione
e il
commercio
dello
zolfo
in
quegli
anni
nel
territorio
agrigentino),
alla
sua
struttura
organizzativa,
al
modo
con
cui
ne
venivano
reclutati
i
membri
e al
rituale
iniziatico,
uguale
a
quello
delle
cosche
palermitane.
Il
sangue
dell’indice
punto
su
un’immagine
sacra
durante
il
giuramento.
L’organizzazione
della
Fratellanza
ricorda
pressappoco
quella
dei
Beati
Paoli,
la
setta
segreta
resa
celebre
dal
romanzo
di
Luigi
Natoli.
Era
divisa
in
decine,
i
cui
membri
conoscevano
solo
il
loro
capo.
Degli
altri
capi-decina
e
del
capo
supremo
nulla
sapevano.
Nei
Beati
Paoli
di
Natoli
solo
don
Girolamo
Ammirata
veniva
avvicinato
da
quei
membri
cui
questo
era
permesso.
E
solo
lui,
creduto
come
il
capo,
ne
conosceva
quello
vero:
il
cavaliere
Coriolano
della
Floresta.
Ai
cinquecento
affiliati
alla
Fratellanza
veniva
imposto
di
mettere
al
primo
posto
l’organizzazione
e le
sue
segrete
e
ferree
regole.
Se
tenevano
alla
loro
famiglia,
questa
doveva
occupare
il
secondo
posto.
Probabilmente
le
sue
origini
risalgono
alla
guerra
tra
cosche
rivali
che
disseminò
il
territorio
di
morti
fatti
sparire
e
poi
ritrovati
in
luoghi
isolati,
nelle
grotte
o
nelle
miniere
abbandonate.
Le
stesse
cosche,
a un
certo
punto,
ritennero
che
era
più
conveniente
mettersi
d’accordo:
formare
un’unica
organizzazione
criminale:
divedersi
le
zone
d’influenza
e
spartirsi
il
controllo
e il
ricavato
delle
miniere
di
zolfo
in
cui
spesso
reclutavano
i
mafiosi.
Dopo
aver
ritrovato
molti
scheletri
di
persone
scomparse,
grazie
a
qualche
isolata
ma
utile
confidenza,
Ermanno
Sangiorgi
fece
arrestare
almeno
duecento
membri
della
Fratellanza,
poi
condannati
nel
processo
di
Agrigento
del
1885.
Un’operazione
di
polizia
e un
processo
che
ebbero
risonanza
nazionale
e
che,
a
cinquantotto
anni,
spalancarono
a
Sangiorgi
le
porte
della
notorietà
(e
della
storia).
A
Palermo
la
guerra
di
mafia
nel
1898
era
da
almeno
due
anni
in
pieno
svolgimento.
Le
cosche
della
fertile
Conca
d’Oro
si
contendevano
le
intermediazioni
nel
commercio
dei
limoni
e il
racket
delle
banconote
false,
delle
estorsioni,
delle
rapine
e
dei
sequestri
di
persona.
Fece
scalpore
il
sequestro
di
Audrey
Whitaker,
una
bambina
di
dieci
anni,
per
la
cui
liberazione
la
famiglia
pagò
un
ingente
riscatto.
Le
famiglie
Florio
e
Whitaker
erano
tra
le
più
facoltose
e
influenti
di
Palermo.
Tra
quelle
cui
le
cosche
imponevano
la
“protezione”.
I
Whitaker,
in
Sicilia
dal
tempo
delle
guerre
napoleoniche,
furono
sicuramente
danneggiati
dalla
mafia.
I
Florio
negavano
ogni
tipo
di
relazione
con
le
varie
cosche,
ma
dall’inchiesta
di
Sangiorgi
emerge
che
avevano
al
proprio
servizio
(rispettivamente
come
giardiniere
e
guardiano)
i
fratelli
Francesco
e
Pietro
Noto,
capi
della
cosca
dell’Olivuzza.
Furono
loro
a
sequestrare
la
piccola
Whitaker,
con
la
complicità
dei
cocchieri
Vincenzo
Lo
Porto
e
Giuseppe
Caruso.
Questi
due
vengono
uccisi
da
Francesco
Noto
il
24
ottobre
del
1897,
con
il
consenso
delle
altre
cosche
della
città,
e
nascosti
in
una
grotta
del
fondo
Laganà
(azienda
agrumaria
a
nord
di
Palermo),
dai
cui
misteri
inizia
l’indagine
palermitana
di
Sangiorgi.
E
con
l’indagine
la
stesura
di
un
circostanziato
e
ricco
rapporto
sulla
composizione
sociale
della
mafia,
la
sua
ramificazione
nel
territorio,
i
rapporti
con
la
classe
politica
e le
famiglie
illustri
del
tempo,
le
complicità
istituzionali
di
cui
si
giovava.
Il
questore
registra
tutto.
Dalle
soffiate,
alle
proprie
impressioni
e
convinzioni
su
fatti
e
persone;
dai
218
profili
di
“uomini
d’onore”
alla
diffidenza
per
quegli
apparati
dello
Stato
che
ostacolano
il
suo
lavoro
fino
a
vanificarlo.
Sarà,
per
la
storia,
il
Rapporto
Sangiorgi.
Primo
vero
dossier
sulla
mafia
(486
pagine)
inviato
sia
alla
Procura
della
Repubblica
di
Palermo,
dove
il
questore
già
sapeva
di
non
avere
amici,
che
al
ministero
dell’Interno
dove
invece
poteva
contare
sull’amicizia
del
presidente
Pelloux
che
reggeva
quest’altra
carica.
Nel
Rapporto
si
legge
che
i
cocchieri
Lo
Porto
e
Caruso,
ritenendo
inadeguata,
rispetto
a
quella
dei
complici,
la
loro
parte
di
riscatto
per
il
sequestro
di
Audrey
Whitaker,
eseguirono
un
furto
nella
villa
dei
Florio
all’Olivuzza.
E lo
fecero
per
recare
sfregio
ai
fratelli
Noto
che
ne
erano
i
“protettori”
e
che
reagirono
come
sappiamo.
Si
legge
anche
di
Giuseppina
Di
Sano,
una
delle
prime
donne
a
rompere
il
sistema
dell’omertà
e a
denunciare
l’assassinio
della
figlia
Emanuela
di
diciotto
anni,
uccisa
per
errore
al
posto
suo
da
Vincenzo
D’Alba
e da
un
proprio
complice.
La
Di
Sano
era
considerata
dalla
cosca
di
Falde
una
spia
dei
carabinieri,
sol
perché
un
giovane
ufficiale
dell’Arma,
innamorato
della
figlia,
ne
frequentava
il
negozio
di
alimentari.
Si
legge
infine
dei
continui
tentativi
del
questore
Sangiorgi
per
trovare
quel
testimone
interno
all’organizzazione,
il
“pentito”
di
oggi,
disposto
a
parlare
e a
rivelarne
la
struttura
gerarchica:
tutti
gli
uomini
che
ne
facevano
parte:
gli
scopi
malavitosi:
la
dislocazione
territoriale:
i
legami
politici.
A
fornire
cioè
le
prove
processuali
di
quel
corposo
quadro
della
mafia
di
Palermo
e
provincia
da
lui
messo
insieme.
Lo
trovò
finalmente.
Ed
era
un
pesce
grosso.
Dirigeva
la
cosca
di
Malaspina
e da
Sangiorgi
era
ritenuto
il
capo
regionale
della
mafia.
Francesco
Siino
era
stato
arrestato
quasi
nel
bel
mezzo
di
una
sparatoria
con
la
cosca
rivale
dell’Uditore
guidata
da
Antonino
Giammona.
Amico
del
barone
Turrisi
Colonna,
il
vecchio
Giammona
era
la
vera
mente
della
mafia
palermitana.
Sfuggito
alla
morte,
ma
resosi
conto
della
brutta
piega
presa
per
lui
dalla
guerra
che
aveva
scatenato,
Siino
raccontò
tutto
al
questore.
Fornendogli
quelle
informazioni
sui
capi
delle
otto
cosche
della
Conca
d’Oro,
sul
sistema
diffuso
del
racket,
sui
metodi
repressivi
o
d’intimidazione
nei
confronti
di
affiliati
e
testimoni
che
gli
permisero
di
completare
il
suo
dossier
e
soprattutto
di
arrestare,
con
una
retata
notturna,
Giammona
e
tanti
altri
mafiosi.
Se
Francesco
Siino
avesse
confermato
al
processo
queste
deposizioni,
la
bomba
innescata
da
Sangiorgi
nei
suoi
anni
palermitani
sarebbe
certamente
esplosa.
Ma
il
processo
si
celebrò
nel
1901,
a
distanza
di
un
anno
dalla
retata,
per
effetto
della
sospetta
lentezza
del
procuratore
generale
di
Palermo,
che
era
il
napoletano
Vincenzo
Cosenza.
Il
cui
primo
atto
fu
quello
di
prosciogliere
Antonio
Giammona.
La
situazione
politica
era
cambiata,
Saracco
aveva
preso
il
posto
di
Pelloux
al
governo,
e
Siino
capì
che
doveva
ritrattare.
Quello
che
fece.
E
non
fu
il
solo.
Anche
John
Whitaker
negò
il
rapimento
di
Audrey.
Confermò
tutto
invece,
e
con
grande
coraggio,
Giuseppina
Di
Sano
che
così
non
lasciò
impunito
l’omicidio
della
figlia
innocente.
Dei
tanti
imputati,
soltanto
trentadue
furono
ritenuti
colpevoli.
Anche
se
un
po’
se
l’aspettava,
per
Ermanno
Sangiorgi
la
delusione
fu
enorme.
Ridimensionato
il
suo
prezioso
e
meticoloso
lavoro.
Il
questore,
originario
della
Romagna,
aveva
provato
a
dimostrare,
novant’anni
prima
di
Falcone
e
Borsellino
e
del
maxiprocesso
di
Palermo,
l’esistenza
della
mafia
come
associazione
organica
con
finalità
criminali.
Il
suo
Rapporto,
benché
utile
per
altre
indagini
e
per
lo
studio
e la
conoscenza
del
fenomeno
mafioso,
venne
presto
archiviato.
E da
allora
nessuno
si è
mai
preso
cura
di
consultarlo.