[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

195 / MARZO 2024 (CCXXVI)


contemporanea

SUI RAPPORTI TRA EUROPA E CINA NELLA GUERRA FREDDA
I PERCORSI DIPLOMATICI DEGLI ANNI SETTANTA

di Gregorio Staglianò

 

Agli inizi degli anni Settanta la Cina popolare muoveva alcuni grandi passi sulla scena internazionale, sia grazie alla sinergia tra il leader cinese Mao Zedong e il suo Primo ministro Zhou Enlai, che avevano cominciato a considerare l’ipotesi di riaprire il dialogo con gli Stati Uniti, attirandosi le ire dei dirigenti più radicali del partito, sia a causa della rottura dei rapporti con l’Unione Sovietica. È in questo quadro che Pechino viene ammessa alle Nazioni Unite (1971), stabilisce i suoi rapporti con lallora Comunità Economica Europea (CEE) nel 1975, e viene riconosciuta diplomaticamente da Washington (1978).

 

Sul piano interno, la Cina era alle prese con la ricostruzione del tessuto politico del partito e della società, dopo gli anni della Rivoluzione Culturale, frutto di una scelta rivoluzionaria anti-sistema, promossa e sostenuta paradossalmente dallo stesso Mao Zedong, che di quel sistema rappresentava il vertice indiscusso. Pechino era impegnata a gestire numerosi fronti interni, più compositi che mai, a causa del mutamento dei rapporti di forza. LEsercito popolare di liberazione (Epl), che aveva contribuito a evitare il collasso del sistema cinese allontanandolo il pericolo di ingerenze esterne, esercitava ora una notevole influenza nella vita politica del paese. Le Guardie Rosse, alfieri del maoismo e protagoniste indiscusse della Rivoluzione Culturale, ora smobilitate, erano state mandate in massa nelle campagne a svolgere lavoro manuale correttivo. In seno allo stesso Partito Comunista Cinese emergeva un profondo fazionismo, in una fase storica nella quale i quadri dirigenti che avevano portato alla vittoria della rivoluzione e che avevano condotto la Cina sulla via del socialismo, stavano concludendo la loro parabola. La situazione sociale rispecchiava il momento concitato: le masse apparivano sfiduciate e ciniche nei confronti del partito, delle istituzioni e riguardo allefficienza del sistema politico nel suo insieme. Della furia della Rivoluzione Culturale beneficiò invece il comparto economico, che nei primi anni Settanta testimoniò una lenta, seppur graduale, ripresa.

 

Quello che oggi si può affermare con relativa certezza è che le relazioni bilaterali tra Pechino e Bruxelles siano nate e si siano strutturate nel solco delle dinamiche tra le superpotenze. A contribuire alla stabilizzazione di rapporti diplomatici tra i due attori è occorso senza dubbio il disgelo tra Pechino e Washington, da una parte, e il gelo tra Pechino e Mosca, dall’altra. Ciò che appare interessante osservare però, è anche un certo grado di autonomia decisionale della volontà della Commissione Europea e della Cina di arrivare a un’intesa sospinta da reciproci interessi commerciali. Alcuni degli otto stati della CEE all’inizio degli anni Settanta avevano già, in vario modo, costruito dei rapporti economici con Pechino su base bilaterale. Non stupirebbe affermare che le turbolenze finanziarie all’inizio del decennio, causate dalla crisi del sistema di Bretton Woods nel 1971, e della crisi petrolifera del 1973, abbiano spinto i paesi dell’Europa occidentale a maturare l’idea a cercare in Estremo Oriente, un nuovo potenziale partner commerciale. Dal canto suo, la Cina si stava aprendo al mondo mentre gli effetti devastanti della Rivoluzione Culturale facevano sentire ancora il loro peso.

 

La relazione della Cina con l’Unione Sovietica aveva subito qualche battuta d’arresto già alla fine degli anni Cinquanta, quando Mosca, alle prese con numerosi problemi economici e sociali interni, aveva palesato la sopravvenuta impossibilità di fornire gli aiuti necessari alla realizzazione del Grande Balzo in Avanti (1958-1961), il piano di trasformazione economica e sociale voluto da Mao Zedong. La leadership sovietica non vedeva di buon occhio l’assetto organizzativo in comuni popolari che la popolazione rurale aveva assunto, su imposizione del PCC per il raggiungimento del piano, giudicandole reazionarie. Mao stava cominciando a rivalutare la dipendenza da attori esterni per l’emancipazione e l’indipendenza economica del popolo cinese, anche nei confronti di Mosca, che aveva rappresentato nell’immediata prima fase della nascita della Repubblica Popolare Cinese (1949), un solido alleato e un esempio ideologico da seguire. Tra Mosca e Pechino esisteva, oltretutto, un Trattato di amicizia, alleanza e mutua assistenza firmato nel febbraio del 1950, in seguito alla visita di Mao a Mosca compiuta nello stesso anno, che legava i due paesi socialisti. Ulteriore elemento di frizione proveniva dalla fermezza con la quale Pechino si diceva pronta a confrontarsi con il capitalismo e l’imperialismo occidentale, anche a costo di un eventuale conflitto.

 

Il Cremlino spingeva verso la cautela, nonostante sostenesse le ragioni “ideologiche” cinesi. I sovietici preferivano volgere i loro sforzi ad allentare la tensione internazionale con gli americani e a impostare una competizione pacifica, più che militare. Questo atteggiamento irritava Mao Zedong che, nella morbidezza delle posizioni di Mosca, intravedeva lo spazio per un potenziale compromesso con Washington. Nel 1958, inoltre, all’indomani dell’annuncio del Presidente americano Dwight Eisenhower di dotare Taiwan di missili balistici per il trasporto di ordigni nucleari, da Pechino partiva l’ordine di bombardare l’arcipelago di Quemoy, nello stretto di Taiwan. La risposta di Washington non si fece attendere: venne rinforzato il dispositivo militare della Settima Flotta e la US Navy cominciò a scortare le navi nazionaliste di Taiwan impegnate a rifornire Quemoy, facendo intendere che gli Stati Uniti non avrebbero mai tollerato l’occupazione dell’isola. In quella che viene ricordata come “seconda crisi dello Stretto di Taiwan”, il supporto di Mosca tu tardivo e tiepido. Dal Cremlino giungeva il giudizio negativo sulle attività militari cinesi, che rischiavano di condurre a un conflitto su larga scala. A minare una relazione che mostrava ormai evidenti segnali di rottura, contribuiva il deterioramento delle relazioni tra Pechino e New Delhi, per storiche questioni di frontiera, e per l’azione militare cinese in Tibet.

 

L’URSS, anche in questo caso, respingeva le rivendicazioni territoriali della Cina, arrivando ad annunciare la concessione di un aiuto finanziario all’India. Con ogni probabilità però, l’elemento più rilevante della rottura delle relazioni tra Mosca e Pechino era quello militare. In un contesto di accuse e velate minacce, i sovietici informarono i cinesi circa l’eventualità di discutere con gli americani l’ipotesi di non fornire alcuna tecnologia militare nucleari a paesi terzi, in modo da porre un freno alla proliferazione nucleare. I cinesi interpretarono la volontà degli alleati come fortemente provocatoria e la loro reazione fu ruvida. Ciò, insieme alla tensione accumulata dalle accuse rivolte verso il Cremlino, per aver violato sistematicamente lo status quo delle frontiere, portò all’interruzione definitiva dell’alleanza sino-sovietica che si consumò tra il 1960 e il 1961 con il ritiro degli specialisti e degli aiuti sovietici. Dal canto suo, Pechino accusava Mosca di revisionismo e si convinse che l’URSS avesse perso le qualità e la capacità di guidare il movimento comunista internazionale, ponendosi al contempo come nuovo centro del socialismo mondiale. L’ostilità tra i due (ormai) ex-alleati caratterizzerà gran parte degli anni Settanta, facendo registrare numerose occasioni di scontro, specialmente riguardo ai negoziati per la definizione delle frontiere, più volte interrotti e poi ripresi. Sia Mosca che Pechino tendevano a un irrigidimento delle rispettive posizioni militari sulla questione, arrivando a scontrarsi apertamente tra il marzo e l’agosto del 1969, al confine. La tensione, seppur non suffragata da una dichiarazione pubblica di aperto scontro, raggiunse il culmine quando alla fine degli anni Sessanta, circa un milione di soldati dell’Armata Rossa vennero schierati sulla frontiera cinese.

 

La Casa Bianca, nel frattempo, non restava impassibile alla crisi dei rapporti sino-sovietici. Washington provava a sfruttare l’acredine esistente tra i due alleati in suo favore, per sviluppare una relazione con Pechino che avrebbe controbilanciato la potenza sovietica, spingendola poi a perseguire migliori relazioni con gli Stati Uniti. Il presidente Nixon disse al primo ministro britannico Edward Heath: “Quanto alla Cina, quando hai due nemici, devi rivolgerti verso il più debole, non verso il più forte.” Mentre il rapporto tra la leadership cinese e quella sovietica toccava i minimi storici, e fervevano i preparativi per Rivoluzione Culturale maoista, si registrava l’intensificazione del coinvolgimento americano in Vietnam, a partire dal 1964.

 

L’impegno della Casa Bianca in quel quadrante creava grandi dilemmi alla strategia cinese in campo internazionale. Per quanto all’interno dell’establishment di Pechino esistessero posizioni come quella del capo di stato maggiore Lui Riquing, secondo la quale bisognava almeno considerare uno scontro con gli americani, e sebbene dal 1965 oltre 300.000 soldati cinesi dell’Elp si insediarono in Vietnam del Nord, Mao si convinse che Washington non si sarebbe spinta fino al confronto militare diretto. Previsione che si rivelò esatta quando solo quattro anni dopo, nel 1969, con l’enunciazione della “dottrina Nixon”, gli Stati Uniti cominciarono ad adottare un progressivo disimpegno diretto nel conflitto, seppur continuando a sostenere il governo filo-americano del Vietnam del Sud. Ciò, insieme alla contestuale formulazione della “dottrina Brežnev” (1968) secondo cui l’URSS si riservava di intervenire negli affari interni di qualsiasi paese socialista che si fosse avvicinato al capitalismo, contribuì a favorire il terreno per la ripresa del dialogo tra Stati Uniti e Cina.

 

Il disgelo divenne evidente quando, il 25 ottobre 1971, dalla Casa Bianca cadde il veto sull’ingresso della Repubblica Popolare Cinese nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite come membro permanente, che prese il posto di Taiwan. Solo qualche mese prima, il 6 aprile, la squadra di ping-pong cinese aveva invitati i colleghi statunitensi in Cina. I giocatori, con al seguito la stampa americana, diventarono così i primi americani autorizzati a entrare in Cina dal 1949. Nell’estate che precedette l’ingresso all’ONU, l’allora Segretario di Stato americano Henry Kissinger compì un viaggio segreto a Pechino per preparare una possibile visita del presidente Nixon. La delegazione presidenziale arriva in Cina nel febbraio del 1972, incontrando Mao Zedong e il Premier cinese Zhou Enlai. In quell’occasione venne firmato lo storico “Comunicato di Shangai”, segno evidente dei progressi compiuti tra i due attori e pietra miliare per la normalizzazione dei rapporti diplomatici bilaterali, lungo tutto il corso degli anni Settanta. Particolarmente di rilievo, in quell’occasione fu la dichiarazione americana sulla questione di Taiwan, che riconoscevano pubblicamente come parte integrante della Cina continentale. Bisognerà tuttavia aspettare la fine del 1978 per la stabilizzazione delle relazioni diplomatiche tra Washington e Pechino, una decisione arrivata al termine di un periodo in cui i primi entusiasmi per il ritrovato dialogo avevano lasciato il passo ad alcune incertezze di carattere internazionale – su tutte, la questione di Taiwan e del sostegno militare statunitense all’isola – e interni – la morte di Mao Zedong, di Zhou Enlai, l’ascesa di Hua Guofeng alla guida del Partito e l’arresto di oppositori politici, come la Banda dei Quattro, nel 1976.

 

Gli anni Settanta però, testimoniano l’apertura delle relazioni diplomatiche di Pechino anche con un terzo attore: l’Europa. Già dalla metà degli anni Sessanta, Pechino aveva cominciato a guardare con crescente interesse alla possibilità di rafforzare le relazioni economiche e commerciali con i paesi dell’Europa occidentale, da cui importava tecnologica e grano – anche per soddisfare il fabbisogno nazionale dopo i tragici anni del Grande Balzo in Avanti.

 

Bisogna ricordare che, dopo la seconda guerra mondiale, solo alcuni paesi dichiaratamente non allineati come la Danimarca stabilirono relazioni con la Cina Popolare, mentre il resto mantenne relazioni con Taiwan, perfettamente in linea con la linea di Washington. L’unica eccezione era rappresentata dalla Gran Bretagna che aprì alla Cina nel 1950, per motivazioni legati allo status della colonia britannica di Hong Kong e sul suo futuro ritorno alla sovranità cinese. Interessante è il caso della Francia, che decise in autonomia lo scambio di diplomatici con la Cina nel 1964, nel solco dell’autonomismo di De Gaulle in politica estera e soprattutto delle frizioni con gli Stati Uniti su numerosi dossier internazionali, che porteranno nel 1966 alla clamorosa decisione di sganciare le forze armate francesi dalla struttura militare integrata della NATO. L’Italia, che già dagli anni Cinquanta stava ponderando il riconoscimento della Cina Popolare, normalizzò i suoi rapporti con Pechino nel 1970, nell’ottica di internazionalizzare le sue imprese ed espandere così il mercato per l’export italiano.

 

A ogni modo, le relazioni con l’Europa occidentale, costruite sulla base di trattati bilaterali con i singoli paesi, subirono una battuta d’arresto negli anni della Rivoluzione Culturale, per poi riprendere agli inizi degli anni Settanta – prima di conoscere una definitiva strutturazione a partire dal 1978 con l’apertura e le riforme di Deng Xiaping. Nei confronti dell’Europa orientale invece, i rapporti dipesero in larga misura dall’oscillazione delle relazioni sino-sovietiche. Dopo la crisi e la rottura del 1960, Pechino cominciò però a guardare alla Bulgaria, alla Cecoslovacchia, alla Repubblica Democratica Tedesca e alla Polonia con un approccio che tendeva a preferire i principi della sovranità nazionale – tanto cari a Mao e ad alcuni paesi satelliti del Cremlino – a quelli del socialismo. Merita una menzione di rilievo il rapporto stabilito con l’Albania di Hoxa, che strinse con la Cina di Mao una “fraterna alleanza”, conseguentemente alla rottura di Tirana con Mosca e con il Patto di Varsavia, in seguito ai fatti cecoslovacchi.

 

Sulla scia della parziale apertura di Pechino verso l’occidente – e viceversa – la CEE e la Cina stabilirono formalmente relazioni diplomatiche il 6 maggio del 1975. L’approccio strategico di Bruxelles si basava sulla possibilità di contribuire all’apertura dell’economia cinese, in un momento di turbolenze e sommovimenti macroeconomici a livello globale. Nel maggio du quell’anno, il Commissario Europeo per gli Affari Esteri Christopher Soames, diventa il primo funzionario europeo di alto rango a mettere piede in Cina. Il 15 settembre successivo, il governo cinese accredita Li Lien Pi, come suo primo ambasciatore presso la CEE. A testimonianza dell’interesse reciproco di strutturare un rapporto politico solido, il primo accordo commerciale sino-europeo, verrà firmato solo tre anni più tardi, nel 1978.

 

È interessante notare come l’avvio di contatti strutturati tra Pechino e Bruxelles sia risultato da molteplici fattori. Da considerare innanzitutto il fattore interno. La Cina aveva appena superato gli anni furiosi della Rivoluzione Culturale, che aveva messo in ginocchio gran parte dell’establishment politico e burocratico del sistema, immobilizzando il paese. Pechino aveva necessità di aprirsi verso l’esterno per rivitalizzare il suo comparto economico e industriale.

 

La CEE stava probando a diversificare i suoi legami esterni e a consolidare la sua posizione nel panorama internazionale, in un momento in cui turbolenze e crisi economiche erano foriere di profondi cambiamenti nelle logiche della guerra fredda. Sul piano esterno, è Impossibile non tener conto dalle conseguenze internazionali delle logiche della guerra fredda: a incidere sull’apertura del dialogo è innegabile abbiano contribuito il disgelo sino-americano da una parte, – inclusa l’ammissione della Cina all’ONU – e il gelo sino-sovietico, dall’altra. Secondariamente, se l’interscambio commerciale fu la leva che spinse i paesi europei e Pechino ad approfondire i loro rapporti, ciò è dovuto anche alla visione che Mao Zedong aveva sviluppato dell’Europa. Nel 1964 infatti la leadership cinese aveva partorito la teoria delle “zone intermedie”, una vasta schiera di paesi all’interno del sistema internazionale, che subivano, in maniera differente, le dinamiche delle due superpotenze. Dette zone erano articolate, a loro volta, in due parti distinte: la prima, composta da paesi indipendenti o che stavano lottando per l’indipendenza – prettamente in Asia, Africa e America latina; la seconda, composta da paesi capitalistici sfruttatori, ma a loro volta – secondo la visione cinese – sfruttati e soggetti all’interferenza americana, che comprendeva invece l’Oceania, il Canada e l’Europa occidentale.

 

Ciò implicava, se non un diretto interesse politico, quantomeno l’inserimento del continente europeo nelle considerazioni strategiche della Cina Popolare. Ponendosi in contrasto con la visione dell’URSS, la leadership cinese aveva compreso che la CEE sarebbe potuta diventare uno dei “poli” internazionali del futuro. Dal canto loro, i paesi dell’Europa occidentale, che osservavano con attenzione l’evolversi del rapporto sino-sovietico, cominciarono a guardare alla Cina come un potenziale interlocutore, anche nell’ottica di rafforzare il dialogo europeo con i paesi in via di sviluppo, come era considerata la Cina a metà degli anni Settanta. La CEE e Washington poi, non erano perfettamente allineati sull’approccio da utilizzare nei confronti di Pechino, come i differenti contatti su base bilaterale dei paesi europei testimoniano. Al contempo, la politica estera di Pechino non era determinata solamente dal suo rapporto con Mosca.

 

Le relazioni sino-europee degli anni Settanta, quindi, sono state sì in larga misura influenzate dai cambiamenti internazionali che hanno caratterizzato quel decennio, ma è anche vero che si siano strutturate in un quadro di crescente interdipendenza e di reciproci interessi commerciali e strategici, anticipando di fatto la crescente importanza che tale rapporto avrebbe acquisito nei decenni successivi. Quest’ultima dinamica conferirebbe all’instaurarsi dei rapporti diplomatici tra Cina ed Europa una rilevanza che va al di là delle scelte effettuate dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica, offrendo un quadro più ampio e sfaccettato, orientato non solo al confronto tra le due superpotenze, ma alla comprensione delle relazioni internazionali tra Cina e Europa, in un’ottica globale.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Guido Samarani, La Cina contemporanea. Dalla fine dell’Impero a oggi, Piccola Biblioteca Einaudi, 2017

John L. Harper, La guerra fredda. Storia di un mondo in bilico, il Mulino, 2013

Enrico Fardella, Christina F. Ostermann, Charles Kraus, Sino-European Relations During the Cold War and The Rise of a Multipolar World, Wilson Center, 2015

Janick Marina Schaufelbuehl, Marco Wyss, Valeria Zanier, Europe and China in the Cold War. Exchanges Beyond the Bloc Logic and the Sino-Soviet Split, Brill Academic Pub, 2018

Roland Vogt, Europe and China: Strategic Partners or Rivals?, Hong Kong University Press, 2012.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]