SUI RAPPORTI TRA EUROPA E CINA
NELLA GUERRA FREDDA
I PERCORSI DIPLOMATICI DEGLI ANNI
SETTANTA
di Gregorio Staglianò
Agli inizi degli anni Settanta la
Cina popolare muoveva alcuni grandi
passi sulla scena internazionale,
sia grazie alla sinergia tra il
leader cinese Mao Zedong e il suo
Primo ministro Zhou Enlai, che
avevano cominciato a considerare
l’ipotesi di riaprire il dialogo con
gli Stati Uniti, attirandosi le ire
dei dirigenti più radicali del
partito, sia a causa della rottura
dei rapporti con l’Unione Sovietica.
È in questo quadro che Pechino viene
ammessa alle Nazioni Unite (1971),
stabilisce i suoi rapporti con l’allora
Comunità Economica Europea (CEE) nel
1975, e viene riconosciuta
diplomaticamente da Washington
(1978).
Sul piano interno, la Cina era alle
prese con la ricostruzione del
tessuto politico del partito e della
società, dopo gli anni della
Rivoluzione Culturale, frutto di una
scelta rivoluzionaria anti-sistema,
promossa e sostenuta paradossalmente
dallo stesso Mao Zedong, che di quel
sistema rappresentava il vertice
indiscusso. Pechino era impegnata a
gestire numerosi fronti interni, più
compositi che mai, a causa del
mutamento dei rapporti di forza. L’Esercito
popolare di liberazione (Epl), che
aveva contribuito a evitare il
collasso del sistema cinese
allontanandolo il pericolo di
ingerenze esterne, esercitava ora
una notevole influenza nella vita
politica del paese. Le Guardie
Rosse, alfieri del maoismo e
protagoniste indiscusse della
Rivoluzione Culturale, ora
smobilitate, erano state mandate in
massa nelle campagne a svolgere
lavoro manuale correttivo. In seno
allo stesso Partito Comunista Cinese
emergeva un profondo fazionismo, in
una fase storica nella quale i
quadri dirigenti che avevano portato
alla vittoria della rivoluzione e
che avevano condotto la Cina sulla
via del socialismo, stavano
concludendo la loro parabola. La
situazione sociale rispecchiava il
momento concitato: le masse
apparivano sfiduciate e ciniche nei
confronti del partito, delle
istituzioni e riguardo all’efficienza
del sistema politico nel suo
insieme. Della furia della
Rivoluzione Culturale beneficiò
invece il comparto economico, che
nei primi anni Settanta testimoniò
una lenta, seppur graduale, ripresa.
Quello che oggi si può affermare con
relativa certezza è che le relazioni
bilaterali tra Pechino e Bruxelles
siano nate e si siano strutturate
nel solco delle dinamiche tra le
superpotenze. A contribuire alla
stabilizzazione di rapporti
diplomatici tra i due attori è
occorso senza dubbio il disgelo tra
Pechino e Washington, da una parte,
e il gelo tra Pechino e Mosca,
dall’altra. Ciò che appare
interessante osservare però, è anche
un certo grado di autonomia
decisionale della volontà della
Commissione Europea e della Cina di
arrivare a un’intesa sospinta da
reciproci interessi commerciali.
Alcuni degli otto stati della CEE
all’inizio degli anni Settanta
avevano già, in vario modo,
costruito dei rapporti economici con
Pechino su base bilaterale. Non
stupirebbe affermare che le
turbolenze finanziarie all’inizio
del decennio, causate dalla crisi
del sistema di Bretton Woods nel
1971, e della crisi petrolifera del
1973, abbiano spinto i paesi
dell’Europa occidentale a maturare
l’idea a cercare in Estremo Oriente,
un nuovo potenziale partner
commerciale. Dal canto suo, la Cina
si stava aprendo al mondo mentre gli
effetti devastanti della Rivoluzione
Culturale facevano sentire ancora il
loro peso.
La relazione della Cina con l’Unione
Sovietica aveva subito qualche
battuta d’arresto già alla fine
degli anni Cinquanta, quando Mosca,
alle prese con numerosi problemi
economici e sociali interni, aveva
palesato la sopravvenuta
impossibilità di fornire gli aiuti
necessari alla realizzazione del
Grande Balzo in Avanti (1958-1961),
il piano di trasformazione economica
e sociale voluto da Mao Zedong. La
leadership sovietica non vedeva di
buon occhio l’assetto organizzativo
in comuni popolari che la
popolazione rurale aveva assunto, su
imposizione del PCC per il
raggiungimento del piano,
giudicandole reazionarie. Mao stava
cominciando a rivalutare la
dipendenza da attori esterni per
l’emancipazione e l’indipendenza
economica del popolo cinese, anche
nei confronti di Mosca, che aveva
rappresentato nell’immediata prima
fase della nascita della Repubblica
Popolare Cinese (1949), un solido
alleato e un esempio ideologico da
seguire. Tra Mosca e Pechino
esisteva, oltretutto, un Trattato di
amicizia, alleanza e mutua
assistenza firmato nel febbraio del
1950, in seguito alla visita di Mao
a Mosca compiuta nello stesso anno,
che legava i due paesi socialisti.
Ulteriore elemento di frizione
proveniva dalla fermezza con la
quale Pechino si diceva pronta a
confrontarsi con il capitalismo e
l’imperialismo occidentale, anche a
costo di un eventuale conflitto.
Il Cremlino spingeva verso la
cautela, nonostante sostenesse le
ragioni “ideologiche” cinesi. I
sovietici preferivano volgere i loro
sforzi ad allentare la tensione
internazionale con gli americani e a
impostare una competizione pacifica,
più che militare. Questo
atteggiamento irritava Mao Zedong
che, nella morbidezza delle
posizioni di Mosca, intravedeva lo
spazio per un potenziale compromesso
con Washington. Nel 1958, inoltre,
all’indomani dell’annuncio del
Presidente americano
Dwight Eisenhower
di dotare Taiwan di missili
balistici per il trasporto di
ordigni nucleari, da Pechino partiva
l’ordine di bombardare l’arcipelago
di Quemoy, nello stretto di Taiwan.
La risposta di Washington non si
fece attendere: venne rinforzato il
dispositivo militare della Settima
Flotta e la US Navy cominciò a
scortare le navi nazionaliste di
Taiwan impegnate a rifornire Quemoy,
facendo intendere che gli Stati
Uniti non avrebbero mai tollerato
l’occupazione dell’isola. In quella
che viene ricordata come “seconda
crisi dello Stretto di Taiwan”,
il supporto di Mosca tu tardivo e
tiepido. Dal Cremlino giungeva il
giudizio negativo sulle attività
militari cinesi, che rischiavano di
condurre a un conflitto su larga
scala. A minare una relazione che
mostrava ormai evidenti segnali di
rottura, contribuiva il
deterioramento delle relazioni tra
Pechino e New Delhi, per storiche
questioni di frontiera, e per
l’azione militare cinese in Tibet.
L’URSS, anche in questo caso,
respingeva le rivendicazioni
territoriali della Cina, arrivando
ad annunciare la concessione di un
aiuto finanziario all’India. Con
ogni probabilità però, l’elemento
più rilevante della rottura delle
relazioni tra Mosca e Pechino era
quello militare. In un contesto di
accuse e velate minacce, i sovietici
informarono i cinesi circa
l’eventualità di discutere con gli
americani l’ipotesi di non fornire
alcuna tecnologia militare nucleari
a paesi terzi, in modo da porre un
freno alla proliferazione nucleare.
I cinesi interpretarono la volontà
degli alleati come fortemente
provocatoria e la loro reazione fu
ruvida. Ciò, insieme alla tensione
accumulata dalle accuse rivolte
verso il Cremlino, per aver violato
sistematicamente lo status quo delle
frontiere, portò all’interruzione
definitiva dell’alleanza
sino-sovietica che si consumò tra il
1960 e il 1961 con il ritiro degli
specialisti e degli aiuti sovietici.
Dal canto suo, Pechino accusava
Mosca di revisionismo e si convinse
che l’URSS avesse perso le qualità e
la capacità di guidare il movimento
comunista internazionale, ponendosi
al contempo come nuovo centro del
socialismo mondiale. L’ostilità tra
i due (ormai) ex-alleati
caratterizzerà gran parte degli anni
Settanta, facendo registrare
numerose occasioni di scontro,
specialmente riguardo ai negoziati
per la definizione delle frontiere,
più volte interrotti e poi ripresi.
Sia Mosca che Pechino tendevano a un
irrigidimento delle rispettive
posizioni militari sulla questione,
arrivando a scontrarsi apertamente
tra il marzo e l’agosto del 1969, al
confine. La tensione, seppur non
suffragata da una dichiarazione
pubblica di aperto scontro,
raggiunse il culmine quando alla
fine degli anni Sessanta, circa un
milione di soldati dell’Armata Rossa
vennero schierati sulla frontiera
cinese.
La Casa Bianca, nel frattempo, non
restava impassibile alla crisi dei
rapporti sino-sovietici. Washington
provava a sfruttare l’acredine
esistente tra i due alleati in suo
favore, per sviluppare una relazione
con Pechino che avrebbe
controbilanciato la potenza
sovietica, spingendola poi a
perseguire migliori relazioni con
gli Stati Uniti. Il presidente Nixon
disse al primo ministro britannico
Edward Heath: “Quanto alla Cina,
quando hai due nemici, devi
rivolgerti verso il più debole, non
verso il più forte.” Mentre il
rapporto tra la leadership cinese e
quella sovietica toccava i minimi
storici, e fervevano i preparativi
per Rivoluzione Culturale maoista,
si registrava l’intensificazione del
coinvolgimento americano in Vietnam,
a partire dal 1964.
L’impegno della Casa Bianca in quel
quadrante creava grandi dilemmi alla
strategia cinese in campo
internazionale. Per quanto
all’interno dell’establishment di
Pechino esistessero posizioni come
quella del capo di stato maggiore
Lui Riquing, secondo la quale
bisognava almeno considerare uno
scontro con gli americani, e sebbene
dal 1965 oltre 300.000 soldati
cinesi dell’Elp si insediarono in
Vietnam del Nord, Mao si convinse
che Washington non si sarebbe spinta
fino al confronto militare diretto.
Previsione che si rivelò esatta
quando solo quattro anni dopo, nel
1969, con l’enunciazione della
“dottrina Nixon”, gli Stati Uniti
cominciarono ad adottare un
progressivo disimpegno diretto nel
conflitto, seppur continuando a
sostenere il governo filo-americano
del Vietnam del Sud. Ciò, insieme
alla contestuale formulazione della
“dottrina Brežnev” (1968) secondo
cui l’URSS si riservava di
intervenire negli affari interni di
qualsiasi paese socialista che si
fosse avvicinato al capitalismo,
contribuì a favorire il terreno per
la ripresa del dialogo tra Stati
Uniti e Cina.
Il disgelo divenne evidente quando,
il 25 ottobre 1971, dalla Casa
Bianca cadde il veto sull’ingresso
della Repubblica Popolare Cinese nel
Consiglio di Sicurezza delle Nazioni
Unite come membro permanente, che
prese il posto di Taiwan. Solo
qualche mese prima, il 6 aprile, la
squadra di ping-pong cinese aveva
invitati i colleghi statunitensi in
Cina. I giocatori, con al seguito la
stampa americana, diventarono così i
primi americani autorizzati a
entrare in Cina dal 1949.
Nell’estate che precedette
l’ingresso all’ONU, l’allora
Segretario di Stato americano Henry
Kissinger compì un viaggio segreto a
Pechino per preparare una possibile
visita del presidente Nixon. La
delegazione presidenziale arriva in
Cina nel febbraio del 1972,
incontrando Mao Zedong e il Premier
cinese Zhou Enlai. In
quell’occasione venne firmato lo
storico “Comunicato di Shangai”,
segno evidente dei progressi
compiuti tra i due attori e pietra
miliare per la normalizzazione dei
rapporti diplomatici bilaterali,
lungo tutto il corso degli anni
Settanta. Particolarmente di
rilievo, in quell’occasione fu la
dichiarazione americana sulla
questione di Taiwan, che
riconoscevano pubblicamente come
parte integrante della Cina
continentale. Bisognerà tuttavia
aspettare la fine del 1978 per la
stabilizzazione delle relazioni
diplomatiche tra Washington e
Pechino, una decisione arrivata al
termine di un periodo in cui i primi
entusiasmi per il ritrovato dialogo
avevano lasciato il passo ad alcune
incertezze di carattere
internazionale – su tutte, la
questione di Taiwan e del sostegno
militare statunitense all’isola – e
interni – la morte di Mao Zedong, di
Zhou Enlai, l’ascesa di Hua Guofeng
alla guida del Partito e l’arresto
di oppositori politici, come la
Banda dei Quattro, nel 1976.
Gli anni Settanta però, testimoniano
l’apertura delle relazioni
diplomatiche di Pechino anche con un
terzo attore: l’Europa. Già dalla
metà degli anni Sessanta, Pechino
aveva cominciato a guardare con
crescente interesse alla possibilità
di rafforzare le relazioni
economiche e commerciali con i paesi
dell’Europa occidentale, da cui
importava tecnologica e grano –
anche per soddisfare il fabbisogno
nazionale dopo i tragici anni del
Grande Balzo in Avanti.
Bisogna ricordare che, dopo la
seconda guerra mondiale, solo alcuni
paesi dichiaratamente non allineati
come la Danimarca stabilirono
relazioni con la Cina Popolare,
mentre il resto mantenne relazioni
con Taiwan, perfettamente in linea
con la linea di Washington. L’unica
eccezione era rappresentata dalla
Gran Bretagna che aprì alla Cina nel
1950, per motivazioni legati allo
status della colonia britannica di
Hong Kong e sul suo futuro ritorno
alla sovranità cinese. Interessante
è il caso della Francia, che decise
in autonomia lo scambio di
diplomatici con la Cina nel 1964,
nel solco dell’autonomismo di De
Gaulle in politica estera e
soprattutto delle frizioni con gli
Stati Uniti su numerosi dossier
internazionali, che porteranno nel
1966 alla clamorosa decisione di
sganciare le forze armate francesi
dalla struttura militare integrata
della NATO. L’Italia, che già dagli
anni Cinquanta stava ponderando il
riconoscimento della Cina Popolare,
normalizzò i suoi rapporti con
Pechino nel 1970, nell’ottica di
internazionalizzare le sue imprese
ed espandere così il mercato per
l’export italiano.
A ogni modo, le relazioni con
l’Europa occidentale, costruite
sulla base di trattati bilaterali
con i singoli paesi, subirono una
battuta d’arresto negli anni della
Rivoluzione Culturale, per poi
riprendere agli inizi degli anni
Settanta – prima di conoscere una
definitiva strutturazione a partire
dal 1978 con l’apertura e le riforme
di Deng Xiaping. Nei confronti
dell’Europa orientale invece, i
rapporti dipesero in larga misura
dall’oscillazione delle relazioni
sino-sovietiche. Dopo la crisi e la
rottura del 1960, Pechino cominciò
però a guardare alla Bulgaria, alla
Cecoslovacchia, alla Repubblica
Democratica Tedesca e alla Polonia
con un approccio che tendeva a
preferire i principi della sovranità
nazionale – tanto cari a Mao e ad
alcuni paesi satelliti del Cremlino
– a quelli del socialismo. Merita
una menzione di rilievo il rapporto
stabilito con l’Albania di Hoxa, che
strinse con la Cina di Mao una
“fraterna alleanza”,
conseguentemente alla rottura di
Tirana con Mosca e con il Patto di
Varsavia, in seguito ai fatti
cecoslovacchi.
Sulla scia della parziale apertura
di Pechino verso l’occidente – e
viceversa – la CEE e la Cina
stabilirono formalmente relazioni
diplomatiche il 6 maggio del 1975.
L’approccio strategico di Bruxelles
si basava sulla possibilità di
contribuire all’apertura
dell’economia cinese, in un momento
di turbolenze e sommovimenti
macroeconomici a livello globale.
Nel maggio du quell’anno, il
Commissario Europeo per gli Affari Esteri
Christopher Soames, diventa
il primo funzionario europeo di alto
rango a mettere piede in Cina. Il 15
settembre successivo, il governo
cinese accredita Li Lien Pi, come
suo primo ambasciatore presso la
CEE. A testimonianza dell’interesse
reciproco di strutturare un rapporto
politico solido, il primo accordo
commerciale sino-europeo, verrà
firmato solo tre anni più tardi, nel
1978.
È interessante notare come l’avvio
di contatti strutturati tra Pechino
e Bruxelles sia risultato da
molteplici fattori. Da considerare
innanzitutto il fattore interno. La
Cina aveva appena superato gli anni
furiosi della Rivoluzione Culturale,
che aveva messo in ginocchio gran
parte dell’establishment politico e
burocratico del sistema,
immobilizzando il paese. Pechino
aveva necessità di aprirsi verso
l’esterno per rivitalizzare il suo
comparto economico e industriale.
La CEE stava probando a
diversificare i suoi legami esterni
e a consolidare la sua posizione nel
panorama internazionale, in un
momento in cui turbolenze e crisi
economiche erano foriere di profondi
cambiamenti nelle logiche della
guerra fredda. Sul piano esterno, è
Impossibile non tener conto dalle
conseguenze internazionali delle
logiche della guerra fredda: a
incidere sull’apertura del dialogo è
innegabile abbiano contribuito il
disgelo sino-americano da una parte,
– inclusa l’ammissione della Cina
all’ONU – e il gelo sino-sovietico,
dall’altra. Secondariamente, se
l’interscambio commerciale fu la
leva che spinse i paesi europei e
Pechino ad approfondire i loro
rapporti, ciò è dovuto anche alla
visione che Mao Zedong aveva
sviluppato dell’Europa. Nel 1964
infatti la leadership cinese aveva
partorito la teoria delle “zone
intermedie”, una vasta schiera di
paesi all’interno del sistema
internazionale, che subivano, in
maniera differente, le dinamiche
delle due superpotenze. Dette zone
erano articolate, a loro volta, in
due parti distinte: la prima,
composta da paesi indipendenti o che
stavano lottando per l’indipendenza
– prettamente in Asia, Africa e
America latina; la seconda, composta
da paesi capitalistici sfruttatori,
ma a loro volta – secondo la visione
cinese – sfruttati e soggetti
all’interferenza americana, che
comprendeva invece l’Oceania, il
Canada e l’Europa occidentale.
Ciò implicava, se non un diretto
interesse politico, quantomeno
l’inserimento del continente europeo
nelle considerazioni strategiche
della Cina Popolare. Ponendosi in
contrasto con la visione dell’URSS,
la leadership cinese aveva compreso
che la CEE sarebbe potuta diventare
uno dei “poli” internazionali del
futuro. Dal canto loro, i paesi
dell’Europa occidentale, che
osservavano con attenzione
l’evolversi del rapporto
sino-sovietico, cominciarono a
guardare alla Cina come un
potenziale interlocutore, anche
nell’ottica di rafforzare il dialogo
europeo con i paesi in via di
sviluppo, come era considerata la
Cina a metà degli anni Settanta. La
CEE e Washington poi, non erano
perfettamente allineati
sull’approccio da utilizzare nei
confronti di Pechino, come i
differenti contatti su base
bilaterale dei paesi europei
testimoniano. Al contempo, la
politica estera di Pechino non era
determinata solamente dal suo
rapporto con Mosca.
Le relazioni sino-europee degli anni
Settanta, quindi, sono state sì in
larga misura influenzate dai
cambiamenti internazionali che hanno
caratterizzato quel decennio, ma è
anche vero che si siano strutturate
in un quadro di crescente
interdipendenza e di reciproci
interessi commerciali e strategici,
anticipando di fatto la crescente
importanza che tale rapporto avrebbe
acquisito nei decenni successivi.
Quest’ultima dinamica conferirebbe
all’instaurarsi dei rapporti
diplomatici tra Cina ed Europa una
rilevanza che va al di là delle
scelte effettuate dagli Stati Uniti
e dall’Unione Sovietica, offrendo un
quadro più ampio e sfaccettato,
orientato non solo al confronto tra
le due superpotenze, ma alla
comprensione delle relazioni
internazionali tra Cina e Europa, in
un’ottica globale.
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