N. 148 - Aprile 2020
(CLXXIX)
Il
ritorno
di
Raffaello
Roma
Amor
di
Dydimo
Stern
Avvenne
o
forse
sognai
–
reduce
da
una
festa
in
cui
il
perlage
dello
champagne
fu
più
che
mai
esuberante
– in
una
di
quelle
magiche
notti
di
una
Roma
di
mezza
estate
quando,
per
magia
del
disco
madreperlaceo
di
una
luna
piena
già
indirizzata
verso
l’alto,
fui
testimone
di
una
vicenda,
fuori
dal
tempo,
che
ebbe
l’inizio
nei
pressi
di
Ponte
Sisto.
Avvenne
che
vidi
un
giovane,
dal
volto
imberbe
incorniciato
da
lunghi
e
morbidi
capelli,
abbigliato
di
vesti
di
una
foggia
e
colori
inconsueti,
procedere
nel
suo
cammino
roteando
con
grazia
il
capo
come
a
ricercare
alcunché.
Ci
trovammo
faccia
a
faccia
e
mentre
io
fissai
su
di
lui
lo
sguardo
egli
sembrò
ignorarmi,
anzi
“sentii”
che
il
suo
scrutare
mi
attraversò.
Un
sussulto,
lo
riconobbi:
egli
era
colui
che
approdò
a
Roma
cinquecento
anni
or
sono
e
per
oltre
dodici
anni
rappresentò
il
perno
della
cultura
e
della
“mondanità”
di
Roma.
Di
lui
si
tramandò
che
dalla
natura
fu “dotato
di
tutta
quella
modestia
e
bontà
che
suole
alcuna
volta
vedersi
in
coloro
che
più
gli
altri
hanno
a
una
certa
umanità
di
natura
gentile,
aggiunto
un
ornamento
bellissimo
di
una
graziata
affabilità,
che
sempre
suol
mostrarsi
dolce
e
piacevole
con
ogni
sorte
di
persone
e in
qualunque
maniera
di
cose”.
Mentre,
rigirato,
seguivo
con
lo
sguardo
il
giovane
che
lentamente
si
allontanava,
con
incedere
elegante,
vidi
un’altra
figura
che
procedeva
da
opposta
direzione,
con
andamento
pesante
e
incerto.
La
Luna
lo
presentò
qual
vecchio
uomo,
curvo
per
gli
anni
e
per
il
peso
di
pesanti
paludamenti
lumeggiati
d’oro;
il
giovane,
che
era
la
gentilezza
stessa,
si
scostò
da
lui,
cedendogli
il
passo.
Il
vecchio
fece
alcuni
passi,
si
fermò,
si
girò
verso
di
lui
e
fissandolo
con
severo
sguardo
l’approcciò
così:
– «O
giovine
gentile!
Io
ti
agnosco.
Da
lassù
vidi
la
tua
arrivata
nella
città
eterna,
il
tuo
accoglimento
effettuato
dal
sagace
mio
nipote,
il
bellicoso
Giulio
e
l’accrescimento
della
tua
gloria
sotto
il
generoso
Leone.
Dimmi,
or
dunque,
perché
di
nuovo
calchi
questi
antichi
luoghi?»
Al
che
il
giovane,
con
quella
grazia
di
cui
era
ricolmo
gli
rispose:
– «Anch’io
ora
ti
riconosco.
Il
grande
Melozzo
non
ti
falsò
un
tratto,
né
un
carattere.
Tu
sei
il
gran
pontefice
Sisto
IV
che
i
dotti
celebrarono
qual
restaurator
Urbis,
che
come
l’imperatore
Ottaviano
Augusto,
trasformò
la
città
di
mattoni
in
città
di
marmo!
Perché,
o
Santità,
questo
suo
solitario
vagare?»
– «Io
cerco
le
mie
iscrizioni!
Io
che
realizzai
dopo
oltre
mille
anni
un
ponte
in
Roma,
io,
Pontifex
Maximus,
vorrei
emettere
un
solenne
grido
d’indignazione
di
fronte
a
quella
meschina
iscrizione,
dai
caratteri
ripassati
in
nero,
non
più
grande
di
quella
che
si
vede
infissa
in
una
modesta
casa
d’affitto
di
una
nostra
confraternita,
che
surroga,
posta,
poco
avanti
della
discesa
a
Tevere,
la
mia
già
grandissima
e
bellissima
iscrizione,
in
perfetti
caratteri
neo
romani,
composta
–
more
antiquorum
–
dal
grande
umanista.
Le
iscrizioni
celebravano
l’opera
che
costituì
il
collegamento
tra
l’Urbe
e il
Mons
Aureus,
poi
chiamato
colle
Gianicolo,
ove
un’antica
tradizione
riconosceva
il
luogo
della
crocefissione
dell’apostolo
Pietro.
Ora
queste
iscrizioni
non
sono
più
là!
Ora
dove
sono?»
Pronunciate
queste
parole
il
vegliardo
riprese
il
suo
cammino,
lasciando
a
me,
uomo
di
oggi,
immaginare
che
la
grande
iscrizione,
avulsa
dall’originario
luogo,
giaccia
nell’oscurità
di
qualche
magazzino,
forse
anche
frantumata
a
seguito
di
recenti
lavori
di
“restauro”
del
ponte.
E si
resta
sconsolati
al
pensiero
che
una
sì
bella
iscrizione,
fino
a
pochi
anni
or
sono
così
evidente
alla
vista,
così
a
portata
di
mano,
che
aveva
resistito
ai
lanzichenecchi,
alla
esaltazione
rivoluzionaria,
a
Roma
Capitale
e
alle
esigenze
di
viabilità,
non
parla
più
al
viandante!
“Quantum
non
fecerunt
barbari,
fecit…”,
ai
puntini
la
responsabilità?
Poi,
conclusa
la
mia
riflessione
sull’attualità,
e
più
che
incuriosito
affascinato,
abbandonai
la
mia
direzione
per
seguire
il
giovane
“viaggiatore”
e
non
potei
frenarmi
a
fare
riemergere
alla
memoria,
per
tale
mio
inizio
di
“pedinamento”,
un
fatto
accaduto
ai
suoi
tempi,
quando
un
noto
e
bizzarro
personaggio
seguì
il
tragitto
di
una
grande
testa
di
storione
– e
sì
che
allora
il
Tevere
era
frequentato
da
tali
pesci
–
che
per
diritto
spettava
ai
Conservatori
della
città.
I
Conservatori
ne
vollero
fare
omaggio
al
cardinale
Camerlengo,
l’omnipotente
cardinale
Raffaele
Riario.
Questi
a
sua
volta
inviò
la
testa
al
grande
banchiere
che,
a
sua
volta,
la
inviò
al
possente
cardinale
Sanseverino
che
finalmente
la
inviò
in
dono
a
una
cortigiana
che
si
trovò
così
a
condividere
la
tavola
con
il
“pedinatore”
della
testa
del
pesce.
Seguii
il
giovane
nel
suo
incedere
e il
suo
frequente
fermarsi
lungo
il
rettifilo
di
via
Giulia,
che
il
pontefice
che
l’accolse
– e
volle
confrontarlo
con
Michelangelo
–
realizzò.
Più
che
attratto
da
quanto
gli
si
presentava
agli
occhi,
il
viaggiatore,
mi
apparve
come
se
ricercasse
riferimenti.
Tentava
di
individuare
un
luogo
e,
alla
fine,
superata
quell’area,
ora
indistinta,
tra
la
chiesa
di
San
Giovanni
dei
Fiorentini
e
via
del
Banco
di
Santo
Spirito,
una
volta
chiamato
“canale
di
Ponte”,
in
una
accelerazione
di
andatura,
mi
ritrovai
a
seguire
con
la
testa
i
movimenti
della
sua,
mentre
faceva
scorrere
lo
sguardo
su
una
facciata,
la
raffinata
composizione
e
geometria
delle
parti
di
un
suo
pensiero
architettonico:
Palazzo
Alberini,
biancheggiante
alla
luce
lunare,
da
lui
lasciato
incompiuto.
Terminato
questo
attento
scrutare,
improvvisamente,
di
scatto,
il
giovane
ruotò
su
se
stesso
e
infilò
lo
sguardo
entro
un
basso
e
oscuro
arco
e
rapidamente
vi
si
infilò,
mentre
dalla
parte
opposta
avanzò
una
figura,
anche
questa
vestita
alla
foggia
antica,
alla
“francese”
come
allora
veniva
chiamata,
su
cui
risaltava
una
gonfia
berretta
ornata
di
una
grande
medaglia
aurea.
Non
corse
tempo
neanche
che
fossero
l’uno
avanti
l’altro
che
un’unica,
festosa
sonorità
avvolse
le
reciproche
esclamazioni:
– «Magnifico!»
–
disse
l’uno.
– «Divino!»
–
rispose
l’altro.
– «Mio
carissimo
Agostino»
– «Mio
dolcissimo
Raffaello»
E
l’abbraccio
fu
così
serrato
che
mi
sembrò
che
si
soffiassero
la
vita
nella
bocca.
Agostino
fu
il
primo
a
parlare
e lo
fece
con
un
tono
pieno
di
mestizia:
– «Vedi
tu,
o
Raffaello,
come
è
ridotto
il
mio
Banco.
Il
mio
Banco
dalle
volte
cariche
di
affreschi
dorati.
Solo
gli
spazi
terreni
sono
scheletro
di
quella
eleganza
che
accoglieva
procuratori
di
re,
di
principi,
grandi
cardinali,
tesorieri
pontificî
e
gran
mecenati
ed
era
detto
“la
Corte
dei
Chigi”.
Per
lungo
tempo
quegli
ambienti
sono
stati
magazzini
e
depositi,
ora
non
so
cosa
accoglieranno
quegli
spazi,
ma
di
certo
attività
ancor
più
meschine,
se
ben
comprendo
da
quanto
è
scritto
in
quella
tabella
infissa,
lassù
in
alto
tra
quei
ferrei
ponteggi.
Dico
ciò
non
tanto
per
il
cruccio
di
non
ritrovare
più
i
segni
del
fasto
di
un
tempo,
sic
transit
gloria
mundi,
quanto
constatare
come
Roma
– la
Urbs
che
con
te e
me
era
assunta
a
Orbis
–
abbia
dimenticato
le
mie
azioni,
non
tanto
quelle
commerciali
e
bancarie
per
cui
il
sultano
di
Costantinopoli
mi
indirizzava
le
sue
lettere,
“Al
gran
mercante
della
Cristianità”,
quanto
per
la
mia
munificenza
e
per
il
mio
mecenatismo
che
da
questo
luogo
si
concretizzavano.
La
città
di
Roma
non
ha
voluto
più
questo
sito
nel
suo
patrimonio,
sicuramente
svenduto
ignorando
quanta
storia,
non
solo
di
Roma
ma
del
mondo,
è
passata
tra
queste
mura.
Peregrinando
nella
Roma
di
oggi
ho
visto
tante
iscrizioni:
“qui
nacque,
qui
morì,
qui
prese
albergo…”.
Una
lapide
per
il
Banco
Chigi,
in
ricordo
del
Magnifico
Agostino
Chigi
e
della
sua
famiglia,
certo
sarebbe
doverosa!».
Al
che
Raffaello,
mascherando
con
il
bel
volto
la
partecipazione
alla
mestizia
dell’amico
nonché
sua,
così
disse:
– «Suvvia
Agostino,
non
ti
crucciare
più
di
tanto,
avviamoci
verso
la
nostra
chiesa
ove
ancora
i
buoni
frati
Agostiniani
albergano,
a
Santa
Maria
del
Popolo,
a
cui
giungeremo
percorrendo
la
strada
che
io,
nominato
“maestro
di
Strada”
realizzai.
Lì
troveremo
la
splendida
cappella
dove
volesti
che
vi
concentrassi
tutte
le
espressioni
artistiche»
E
prima
di
avviarsi,
si
soffermarono
ancora
un
poco
e
pronunciarono
delle
parole:
– «Ricordi,
o
Raffaello,
che
bell’arco
qui
realizzai
per
la
cavalcata
del
possesso
di
papa
Leone?»
– «Sì
lo
ricordo,
era
posto
su
otto
colonne
in
quadro
e vi
erano
tante
decorazioni
e
statue
vive…
Guarda,
o
Agostino,
in
che
strane
forme
è
stata
compiuta
la
eccelsa
fabbrica
di
San
Celso
che
il
terribile
ingegno
di
Bramante
iniziò…!»
– «Che
ne
pensi,
o
Raffaello,
del
palazzotto
dei
miei
concorrenti,
i
Gaddi…?
Possente
la
facciata
del
Banco
di
Santo
Spirito
del
giovane
Sangallo…!
Su
via
andiamo,
non
guardiamo
là
verso
il
Tevere,
là
più
non
c’è
il
bel
palazzo
del
nostro
amico
Bindo
Altoviti»
E
mentre
si
allontanavano,
parlando
tra
di
loro,
raccolsi
queste
parole:
– «Ce
ne
andammo
dalla
vita
nel
1520»
– «Sì,
a
pochi
giorni,
l’uno
dall’altro…»
– «Perché
siamo
ritornati?»