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N. 142 - Ottobre 2019 (CLXXIII)

il "grande rifiuto" di una generazione

I GIOVANI, MARCUSE E LE RADICI IDEOLOGICHE DEL '68 IN OCCIDENTE

di Maria Pia L. Crisafulli

 

Cos’è stato il Sessantotto? Questa domanda, a distanza di decenni, continua a trovare risposte sempre diverse e comunque incomplete, spesso contrastanti, soprattutto se ci si interroga sulle conseguenze politiche (In Italia, Germania...) e sulle profonde trasformazioni culturali che questo evento ha apportato nella società del benessere frutto del boom economico di cui ha goduto l’Occidente nei primissimi decenni del Secondo dopoguerra, con tutte le sue insite contraddizioni; contraddizioni che proprio il Sessantotto si propose di risolvere, in maniera radicale e, secondo alcuni, inconcludente. Non c’è da stupirsi, quindi, se il dibattito ancora oggi si rivela aperto.

 

La generazione politica protagonista di questa stagione è quella dei nati negli anni ‘40 e ‘50 del Novecento, quella che più di altre avrebbe beneficiato delle prospettive offerte dal boom, la stessa che, tuttavia, percepisce nella realtà storica in cui vive un clima tutt’altro che prospero e sereno, permeato da uno stato di incertezza e tensione (la Guerra Fredda all’inizio degli anni ‘60 è al suo primo apice) nonché di arretratezza e stagnazione per quel che riguarda il riconoscimento dei diritti civili e politici delle minoranze etniche e sociali.

 

Un altro sentore di “smarrimento” è dato dalla disillusione nei confronti del modello sovietico, il quale, a partire dalla repressione della Rivoluzione ungherese del 1956 fino a quella del “socialismo dal volto umano” a Praga, proprio nel ‘68, si rivelerà al mondo come una realtà tutt’altro che egualitaria e giusta. La seconda metà degli anni Sessanta inaugura, inoltre, l’intervento diretto degli Stati Uniti nella Guerra del Vietnam; questa susciterà profonda indignazione in buona parte dell’opinione pubblica dell’epoca, che vede nell’ingerenza americana una pretesa imperialista, la quale, in breve tempo, avrebbe assunto i caratteri di una “guerra sporca” e portato alla morte di tantissimi giovani.

 

La contestazione contro la Guerra del Vietnam, insieme alla mobilitazione giovanile in chiave antiautoritaria, sarà il leitmotiv delle proteste in pressappoco tutte le nazioni del mondo, dalla Francia al Giappone. È il Sessantotto politico: delle piazze, delle occupazioni e dei movimenti. Accanto a questo – e forse prima di questo – si è sviluppato quello che alcuni storici hanno definito un altro Sessantotto, apolitico e postmaterialista: il Sessantotto delle controculture, il Sessantotto della rivoluzione sessuale e dei costumi, il Sessantotto libertario. Il Sessantotto del “Grande rifiuto” e dell’utopia.

 

Apriremo una parentesi proprio su quest’ultima espressione: ne analizzeremo le radici ideologiche attenzionando alcuni aspetti dell’opera di Herbert Marcuse, un intellettuale che insieme ad altri, e forse più di altri, ha ispirato e auspicato il concretizzarsi di questo particolare movimento fluido, plurale, sfaccettato, che ha portato sull’orizzonte storico della modernità un nuovo protagonista: i giovani. E individuato un nemico ben preciso da combattere: l’autorità, espressa in ogni sua forma; dalla famiglia all’università, passando per il militarismo e il neocapitalismo.

 

La contestazione è giovane

 

Tutti gli storici sono concordi nell’affermare che quello del Sessantotto è stato innanzitutto un movimento giovanile; nella sua fase iniziale, più precisamente, studentesco. È nelle università, infatti, che il fermento rivoluzionario si concretizza, diffondendosi a macchia d’olio nelle fabbriche, nelle scuole, nelle piazze, attraverso la voce e il dissenso di una generazione che inizia, dapprima, a scontrarsi con un modello accademico arretrato nei programmi e nei metodi d’insegnamento che imita la rigidità, il meccanicismo e la gerarchia di un’azienda o, peggio, di un’industria (l’università come industria del sapere) e, più estesamente, con l’intero assetto valoriale, politico, economico e ideologico incarnato dalla totalità delle istituzioni pubbliche e private, considerate autoritarie e repressive.

 

Quella sessantottina, a torto o a ragione, è una generazione contraria (un po’ a tutto l’esistente), che intende battersi per un sistema-mondo capace di innovarsi, di fornire gli strumenti necessari per poter intrepretare e modificare il presente.

 

Come abbiamo visto, quello degli anni ‘60 del secolo scorso è un presente complesso e contraddittorio, che muta velocemente e, per la prima volta nella storia, simultaneamente in ogni angolo della Terra. Ecco che i giovani vogliono conoscere, discutere, viaggiare, capire: meritarsi un ruolo da protagonisti nella propria contemporaneità. Questo empowerment giovanile, mosso dall’istanza di un rinnovamento radicale, si traduce nell’utopia di una società alternativa a quella neocapitalista che, tra le innumerevoli pecche, sembra voler ridurre l’individuo alla pura dimensione economica legata al consumismo sfrenato e alla dipendenza dalla tecnologia (usata sempre più per potenziare gli armamenti impiegati in conflitti considerati amorali, come la Guerra nel Vietnam), reprimendone la sua natura più istintuale e distraendolo dalle ingiustizie del reale.

 

Si inizierà a desiderare una società nuova, come un’opera d’arte: armoniosa, giusta, libera, egualitaria, pacificata. Antiautoritaria. È con questo presupposto che tra i giovani (ma anche tra le minoranze sociali) si fa strada il “Grande rifiuto”, una totale ma attiva e consapevole opposizione all’esistente da portare avanti anche attraverso gli strumenti delle arti e dell’immaginazione. In quale retroterra culturale e ideologico si forma questa generazione?

 

Il cattivo maestro: Marcuse e la Scuola di Francoforte

 

“Una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non libertà prevale nella civiltà industriale avanzata, segno di progresso tecnico” (Marcuse H., L’uomo a una dimensione). È un passo, questo, famoso tra i giovani degli anni Sessanta, che sul comodino, accanto al Libretto Rosso di Mao e ai testi di Marx, Sartre e Camus, tenevano L’uomo a una dimensione, forse il saggio più letto e “messo in pratica” di quel decennio.

 

Il suo autore è Herbert Marcuse, filosofo e sociologo tedesco oggi quasi dimenticato e, negli anni della popolarità, ritenuto da molti un cattivo maestro data la capacità di ispirare e incoraggiare atteggiamenti e modelli di pensiero certamente alternativi rispetto al costume del suo tempo.

 

La sua riflessione filosofica, che trae spunto – ed è sintesi – dal marxismo, l’hegelismo e il freudismo, costituirà il fondamento teorico per la formazione di una nuova coscienza culturale, e a tratti rivoluzionaria, tra i giovani studenti americani ed europei; tuttavia, superati gli entusiasmi sessantottini, non esiterà a proporsi come un’analisi lucida e disincantata delle difficoltà oggettive e degli errori di valutazione a cui andò incontro proprio la generazione contraria, sconfinando nell’attivismo fine a se stesso, nel permissivismo e nell’uso gratuito della violenza.

 

Emigrato negli Stati Uniti in seguito all’avvento del nazionalsocialismo in Germania, ha insegnato in prestigiose università californiane, le stesse in cui, ancora prima dell’escalation del 1968, sarebbe iniziata la contestazione giovanile.

 

La figura di Marcuse è legata alle vicende della Scuola di Francoforte, di cui fu uno dei massimi esponenti. Questa, più che una scuola, potremmo considerarla un “crocevia intellettuale” di indirizzo filosofico e sociologico, ma comunque interdisciplinare, nato tra gli anni ‘20 e ‘30 del Novecento intorno all’Istituto di Ricerche Sociali di Francoforte dal confronto e dai contributi di filosofi, sociologi, economisti, psicanalisti, politologhi di derivazione marxiana (ovvero eterodossi rispetto agli aspetti economicistici del pensiero di Marx) celebri per aver gettato le basi della Teoria critica della società, traducibile in un nuovo modo di osservare e interpretare le dinamiche sociali: in senso critico (non dogmatico) e trasformativo.

 

Lo studioso, in altre parole, non si limita a osservare la realtà sociale, a spiegarla in maniera oggettiva, imparziale e disinteressata; lui deve sviscerarla, coglierne le contraddizioni e ispirarne, laddove necessario, un possibile superamento. I bersagli principali della teoria critica sono i più famosi “contenitori politico-ideologici-economici” che si contendono il dominio sulla realtà geografica del secondo dopoguerra: il capitalismo (militarista) statunitense e il comunismo (totalitario) sovietico.

 

Su questa scia di pensiero, il filosofo propone un’analisi politica radicale della società neocapitalista. Indagandone la struttura sistemica, le origini, le implicazioni – positive e negative – nella realtà storica presente ma anche futura, giunge alla conclusione che ogni società industriale avanzata (opulenta, che produce sempre di più e in maniera sempre più perfetta, specializzata nella divisione gerarchica del lavoro e nell’amministrazione collettiva dell’esistenza privata) si comporta come una sorta di totalitarismo democratico: un sistema capace di irretire le coscienze non per forza attraverso forme di dominio esplicite, bensì inducendo e soddisfacendo falsi bisogni, materiali, politici, culturali, coerenti alla sola contemporaneità nonché all’offerta del mercato, provocando negli individui, appagati e distratti dalle migliori condizioni di vita, una sorta di “paralisi critica” che impedisce loro di comprendere gli aspetti più deleteri di questo apparente benessere: l’omologazione, l’appiattimento del pensiero e il sacrificare l’individuo concreto al sistema stesso; lo sfruttamento economico delle popolazioni del Terzo Mondo; un abuso della tecnologia, considerata dai francofortesi strumento di potere e controllo; il dominio violento dell’uomo sulla natura e, di riflesso, dell’uomo sull’uomo...

 

Quanto appena descritto non è il ritratto di società espressione di regimi totalitari o dichiaratamente belligeranti, tutt’altro: anche (e soprattutto) le società che appaiono liberaldemocratiche, secondo Marcuse, hanno messo in atto dei meccanismi che rendono impossibile persino immaginare come necessari uno stile di vita o di pensiero diversi da quelli proposti e imposti, in maniera subdola grazie al benessere diffuso, dalla società stessa, che diventa, quindi, repressiva.

 

“Le persone si riconoscono nelle loro merci; trovano la loro anima nella loro automobile, nel giradischi ad alta fedeltà, nella casa a due piani, nell’attrezzatura della cucina. Lo stesso meccanismo che lega l’individuo alla sua società è mutato, e il controllo sociale è radicato nei nuovi bisogni che esso ha prodotto”. Da qui il filosofo elabora il concetto di Uomo a una dimensione che, insieme alla liberazione dell’Eros (dello slancio creativo), teorizzata in un altro suo famosissimo saggio, Eros e civiltà, catturò così tanto l’attenzione e l’inventiva della generazione contraria.

 

L’uomo a una sola dimensione è un individuo talmente integrato nella società industriale avanzata, talmente dipendete dai suoi prodotti materiali e immateriali, come le idee, da non sentire più il desiderio di scoprire o riconoscere realtà diverse; incapace di ricercare e soddisfare i bisogni primari – autentici, vitali – che, da soli, potrebbero condurlo a una felicità reale, concreta e non illusoria: renderlo libero da qualsiasi condizionamento esterno a lui, fornendogli sempre un’alternativa a quello status quo di cui, ormai, è anch’egli un prodotto.

 

È uno scenario poco confortevole se non addirittura pessimistico, come diranno in tanti leggendo la sua opera. Marcuse, tuttavia, da buon “teorico critico”, non si limita ad analizzare e a mostrare quella che per lui è la società opulenta; propone, altresì, una via d’uscita: una possibilità di riscatto, riponendo le sue speranze di intellettuale e di uomo negli unici soggetti non ancora integrati – e, quindi, non ancora assoggettati – nella suddetta società: il sottoproletariato delle grandi metropoli occidentali, i popoli oppressi del Terzo Mondo, le minoranze etniche e sociali, gli outsider e, soprattutto, i giovani. Gli studenti.

 

Il filosofo è proprio a questi ultimi che si rivolge direttamente, non perché li consideri soggetti rivoluzionari veri e propri (come la classe operaia che, per quanto inglobata nel sistema, può ancora ritrovare il suo carattere rivoluzionario, partendo, però, da nuove premesse culturali e ideologiche) ma perché, anteponendo la propria immaginazione alla razionalità funzionale del sistema, capaci di essere un’avanguardia; di creare, cioè, modelli di pensiero e di comunicazione volti a ispirare l’avvento di una società autonoma (liberata) da tutte le contraddizioni e degenerazioni della base materiale del dominio capitalista.

 

Per superare l’“unidimensionalità” dell’era tecnocratica, secondo Marcuse, bisogna riscoprire e rivalutare la dimensione estetica (sensoriale, istintuale…) dell’individuo, il quale deve assumere un valore primario insieme alla sua libertà: una società libera si crea partendo da individui liberi. In che modo?

 

L’immaginazione al potere!

 

L’immaginazione al potere è uno dei motti emblema della stagione sessantottina. Il Sessantotto ha dato il via a un processo comunicativo dal carattere altamente simbolico e, per certi versi, erotico (nell’accezione classica del termine): gli slogan, la musica, il teatro, i cortei, le comuni, le occupazioni studentesche che andranno a intensificarsi via via ci si avvicina all’anno mirabilis (o horribilis, in base alle interpretazioni storiografiche di riferimento) hanno apportato un radicale mutamento nei linguaggi e, conseguenzialmente, nella mentalità dell’epoca, la cui eco è arrivata addirittura fino ai giorni nostri.

 

Un contributo marcusiano che ha fortemente ispirato questa rivoluzione culturale ed estetica, alla luce di quanto appena scritto, è la riflessione sul ruolo che avrebbero dovuto ricoprire la cultura in generale e l’arte in particolare – non più semplici sovrastrutture, come voleva Marx – nella società opulenta: queste rappresentavano, o meglio, avrebbero dovuto rappresentare un agente modificatore della realtà esistente, impersonando quel Grande rifiuto di cui i sessantottini volevano farsi promotori.

 

Il veicolo a cui si appella la generazione contraria su impulso del cattivo maestro è proprio l’immaginazione. Ma perché l’immaginazione? Cos’ha di rivoluzionario? Come può essa sovvertire l’ordine costituito?

 

L’immaginazione sessantottina – rimaneggiando Marcuse – è “il regno delle possibilità”: essa, agendo sulla natura istintuale, quasi primitiva, dell’individuo, depurandolo dalla pesantezza e dal condizionamento della società tecnologica, ha il potere di evocare la presenza sensibile di ciò che non c’è, ma che può esserci (libertà, speranza, bellezza, pace, armonia); diventa rivoluzionaria nel momento in cui suggerisce un modello – anche politico – da mettere in atto.

 

Con la volontà di mettere in atto proprio un qualche modello suggerito, ecco che negli ambienti della contestazione si realizzano pratiche di liberazione del linguaggio e di nuove forme d’arte nonché un diverso modo di intendere la sessualità, i rapporti familiari e le dinamiche sociali in una dimensione persino politica: molte “battaglie sessantottine” come la legalizzazione dell’aborto e del divorzio, l’uso degli anticoncezionali, l’emancipazione femminile, le rivendicazioni delle minoranze etniche e sociali per il riconoscimento dei diritti politici, nel breve e medio periodo, diventeranno oggetto di dibattito nell’opinione pubblica e, di riflesso, nelle sedi istituzionali, aprendo la strada a riforme che potremmo considerare rivoluzionare per l’epoca, specialmente in alcuni contesti nazionali (l’Italia ne è un esempio concreto). Tali aperture rappresentano una svolta fondamentale nel processo di modernizzazione delle politiche, dei costumi, della mentalità auspicato, e in parte realizzato, dal Sessantotto in Occidente.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Bocca G., La provocazione dei Provos. Le rivoluzioni del ‘66, Il Giorno, dicembre 1966.

De Luca S., Il Sessantotto. Una mobilitazione planetaria, in “InStoria. Rivista online di storia & informazione”, maggio 2017.

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Marcuse H., La dimensione estetica e altri scritti. Un’educazione politica tra rivolta e trascendenza, Perticare P. (a cura di), Guerini e associati, Milano 2002.

Maurizi M., Ragione e liberazione. La rivolta filosofica e politica di Herbert Marcuse, Accademia. Edu.

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Sacchi M., ‘68: l’anno che rivoluzionò il mondo, Airone, n° 450 – ottobre 2018 (mensile), Cairo Editore.

Squillaci A., Aspetti del Sessantotto, in “La Frusta Letteraria – Rivista di critica culturale online”, aprile 2019.

Vecchio C., Vietato obbedire, Rizzoli, Milano 2005.



 

 

 

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