attualità
Questione meridionale o questione dei
territori?
federalismo e autonomie / I
di Tiziana Coppola
Il Mezzogiorno dei bisogni moderni non
crea alcun ascolto televisivo, occorre
sempre instillare lo shock per catturare
l’attenzione: un tempo quello della
povertà contadina, poi quello dei morti
ammazzati per mano dalle cosche,
dell’omertà, dei santi miracolosi, e
delle processioni. Tale fondo culturale
agisce nella società meridionale come un
basso continuo delle mentalità e dei
costumi. Questa cultura spinge
inizialmente a una chiusura entro il
contesto familiare, coniugata con un
affidamento rassegnato e impotente al
padrone di turno che sia padre, padrino,
burocrate, deputato, senatore e via
dicendo, oggi si assiste invece a un
necessario quanto mai inaspettato
desiderio di sganciarsi da una simile
cultura servile, per pronunciarsi di
slanci verso nuove forme di vita
indipendente.
Provando a ripercorrere il tempo a
ritroso, si sono susseguiti
indubbiamente vari progetti di riforma
delle istituzioni feudali ritenuti
tentativi inutilmente vani dai governi
illuministi; per esempio con la legge
del 2 Agosto 1806 la spartizione delle
terre tra feudatari e comuni e la
suddivisione e distribuzione delle terre
dai comuni ai contadini, rappresenta sì
una rivoluzione demaniale destinata a
segnare i rapporti tra proprietari e
comuni e tra comuni e contadini per
tutto l’Ottocento e buona parte del
nostro Novecento, ma la legge fin da
subito pone in evidenza i suoi limiti e
il suo fallimento. Resteranno per lungo
tempo le irregolarità nella
distribuzione delle proprietà terriere
poiché i contadini senza mezzi
finanziari e senza la possibilità di
poter versare il canone enfiteutico e
l’imposta fondiaria, si vedono costretti
a cedere le terre ai proprietari più
ricchi, finendo per rafforzare la
borghesia terriera. I baroni in questo
modo non vengono spogliati dei loro
privilegi, mortificando di conseguenza i
principi della rivoluzione innestata
dalla legge del 1806, il cui intervento
riformatore genera effetti stagnanti a
completo appannaggio degli stessi.
Si parla di una rivoluzione passiva,
ossia di una rivoluzione subita e non
intrapresa dalle forze sociali del
Mezzogiorno, è un intervento eversivo ma
esterno, espressione di una potenza
straniera, imposta a una società che non
ha autonomamente sviluppato nel suo seno
nuove classi sociali in grado di
contrapporsi al ceto baronale,
costituendo di fatto il ceto dominante e
dirigente del Mezzogiorno. Il baronaggio
apparentemente distrutto in realtà
sopravvive a lungo in qualità di forza
sociale in grado di condizionare i
processi produttivi conservando nelle
campagne modelli di relazione e rapporti
politici improntati alle logiche della
prevaricazione, della prepotenza e dei
particolarismi esattamente come il
vecchio modello feudale.
In questo punto preciso della storia, i
ceti della borghesia mettono in pratica
ciò che ereditano e rinnovano dal ceto
baronale ovvero quello di volersi
nobilitare, di voler conquistare titoli
nobiliari, tipici dell’aristocrazia
terriera. Una caratterizzazione questa
di tutta la borghesia europea ma che in
Italia meridionale si tinge di tinte
conservatrici oltre modo. La borghesia
meridionale eredita senza lotte e
sacrifici l’antico patrimonio baronale,
finendo per convivere in maniera lenta e
prolungata con tutto quello che ha
caratterizzato il vecchio mondo,
esprimendo una vera e propria egemonia
sul resto della realtà sociale. Lo Stato
in questo modo cambia la sua forma, e si
organizza attorno a una nuova
articolazione amministrativa di tipo
moderno, con funzionari che ricevono
direttive direttamente dal governo
centrale, al quale sono tenuti a inviare
tutte le informazioni circa le
condizioni delle province, i conflitti
interni, le caratteristiche della
popolazione e quanto altro attiene alla
vita di provincia. La proprietà terriera
resta la condizione prioritaria per
poter essere eletti o eleggere per le
più importanti cariche amministrative.
Si può osservare come i ceti borghesi
vengano sottratti alla gestione dei
propri beni e chiamati a incarichi
amministrativi per la cura e la gestione
degli affari generali.
Il Mezzogiorno si presenta quindi con
una nuova mappatura sociale: la nascita
della borghesia professionale da un lato
e i contadini dall’altro. Mentre per i
primi le relazioni, i matrimoni, i
contatti e le alleanze si stabiliscono
facilmente e in maniera naturale, per i
secondi è difficilissimo stabilire
relazioni e alleanze con i primi.
L’unificazione d’Italia si inserisce in
questo modo in un processo di
uniformizzazione apparente di tipo
territoriale, sociale, assurgendo a
divenire nazione sovrana insieme agli
altri stati europei e il Mezzogiorno
esce fuori dalla sua connotazione di
piccolo regno. L’intervento esterno di
una potenza straniera sul processo di
unificazione dell’Italia, mai sentito
per davvero dalle forze sociali,
comporterà però esiti non graditi.
La guerra civile o brigantaggio, darà
origine a scorribande in regioni quali
Puglia, Basilicata, Molise e Campania,
sottoponendo a saccheggio vasti
territori, per sottrarre ai signori
locali le terre. Il fallimento del
processo risorgimentale induce a credere
che sia culminato in una mera
rivoluzione politica, non preceduta né
accompagnata da una autentica
rivoluzione sociale. A governare il
Mezzogiorno non è dunque una classe
media, capace di frapporsi e mediare tra
i bisogni dei contadini o degli strati
sociali più umili e lo Stato, ma a
rappresentare la società è la classe dei
proprietari terrieri, arroccata, miope,
e piegata nella difesa dei propri
interessi, ponendosi come un vero
schermo tra essi e le classi popolari.
Lo Stato unitario finisce per rafforzare
il ruolo del ceto borghese dando vita a
un assetto sociale distorto e carico di
tensioni.
La popolazione in questo modo anziché
dirigere la fiducia verso lo Stato, la
dirige verso i proprietari terrieri e i
rapporti di clientelismo da cui ne
discendono. Da qui lo Stato nuovo,
all’indomani dell’unità, non intende
comprendere che occorra invece una
modificazione strutturale dei legami
sociali. La questione meridionale nasce
quindi con la formazione dello Stato del
Mezzogiorno e la presa di coscienza da
parte del governo della problematicità
politica dell’inserimento del
Mezzogiorno nello Stato unitario, e non
c’è stato un solo momento in cui durante
il periodo della storia unita, tra i
problemi del Mezzogiorno e quelli del
resto del paese vi fosse stata una
sostanziale identità.
Con l’abolizione dei diritti feudali e
con il passaggio dalla società agraria
precapitalistica a una società di tipo
capitalistico, il brigantaggio
intensifica la sua presenza sui
territori e il contadino subisce da
parte del grande proprietario e dalle
autorità, le prime vessazioni. La stessa
nascita delle associazioni criminali è
legata a una domanda di protezione che
lo Stato non è più in grado di
assicurare. La presenza dei briganti
crea un senso di insicurezza per cui i
proprietari utilizzano la forza dello
Stato. Senza l’appoggio dei picciotti
della mafia, Garibaldi e i Mille, una
volta sbarcati a Marsala, avrebbero
trovato grandi difficoltà, invece,
grazie ai mafiosi, trovano la strada in
discesa. Il sodale rapporto tra la mafia
e lo Stato nasce con l’unità d’Italia
che sin dai tempi dell’invasione
garibaldina in Sicilia, si serve per le
sue discusse e dubbie vittorie, del
contributo determinante della mafia in
Sicilia. Un apporto dunque determinante
quello degli uomini d’onore senza il cui
aiuto Garibaldi in Sicilia non avrebbe
potuto assolutamente fare molta strada.
Un vergognoso e riprovevole contributo
puntualmente e volutamente ignorato, per
amor di patria, dai libri di scuola e
dalla storiografia ufficiale.
La mafia esce quindi dall’anonimato e
dallo stato embrionale cui è relegata
nella Sicilia dell’Italia pre-unitaria e
si rappresenta come reazione,
conservazione, difesa e quindi
accumulazione di risorse con la sua
tragica, intensificata, crudele
vocazione alla ricchezza. La mafia
stessa è un modo di fare politica
mediante la violenza, è naturale quindi
che cerchi una complicità, un riscontro,
un’alleanza con la politica pura, cioè
praticamente con il potere. Ed è questo
patto tra mafia, potere politico e
istituzioni, tenuto a battesimo prima
dall’impresa garibaldina e poi
dall’unità d’Italia che dura tra
trattative e connivenze. La mafia ha
avuto un grande ruolo nella difesa degli
assetti proprietari e di classe in tutta
la storia italiana sin dal 1861,
condizionando il Parlamento e i partiti
con i voti e con il sangue. Le mafie
hanno fatto parte integrante del blocco
sociale e politico meridionale e ha
determinato gli equilibri politici ed
economici dell’Italia. Alle origini
della questione meridionale esistono
sistemi economici, politici e culturali
largamente feudali e precapitalistici.
Questa condizione di arretratezza
rispetto allo sviluppo capitalistico
degli stati preunitari del Nord Italia è
ritenuta la radice della questione
meridionale nell’Italia divenuta unita.
Un ritardo dovuto a precise scelte di
politica economica da parte dello stato
unitario. Le problematiche si centrano
sulle cause e sul modo in cui avviene
l’unità/annessione e sulle misure
politiche ed economiche per colmare il
gap Nord/Sud che saranno poi
drammaticamente legate alle politiche di
crescita industriale per il meridione e
per le isole. Il perdurante divario
Nord-Sud, l’enfasi posta sulla diversità
dell’Italia meridionale rispetto
all’intero paese, la recriminazione
moralistica ne confronti delle politiche
economiche e dei governi, la conseguente
espressione delle preoccupazioni civili
è sintomatico della disaffezione e del
disinteresse verso i bisogni sociali, i
saperi sociali, assoggettati e asserviti
a ristretti interessi di potere. Il
Mezzogiorno rappresenta ciò che si è
voluto da sempre diventasse. Si finisce
con l’identificare lo Stato italiano con
una entità astratta, variante da paese a
paese e lo Stato a sua volta viene
paragonato a un collant tra classi
dominanti e nuovi centri di potere
costituiti in principal modo dalle
banche, dal potere dell’alta finanza.
Dall’altro lato della barricata ci sono
invece gli artigiani, i contadini
incapaci di reagire, di creare un muro
tra Stato e popolo, facendo cadere le
ribellioni in un nulla di fatto, in una
via senza uscita, gettando il paese in
un totale senso di smarrimento,
disorientamento, poiché il processo di
sviluppo capitalistico si innesta in un
quadro fragile e scarsamente integrato.
Oggi siamo di fronte a una forte quanto
mai pericolosa incongruenza italiana di
uno Stato cresciuto troppo in fretta,
appaltato agli interessi dei più forti
gruppi di potere economico, con una
classe dirigente e una inclinazione di
tipo autoritario, con una opinione
pubblica immatura, vile, codarda,
vigliacca, incapace di reazione, con
istanze nuove e arretrate, con una
fermentazione complessa caratterizzata
da uno stato capace di violare le
libertà individuali, questo a causa del
mancato conflitto frontale tra Stato e
individuo, con una progressiva
restrizione delle libertà personali e un
conseguente ripristino di un nuovo
disciplinare. Si tratta certamente di
una transizione ancora in atto, non
ancora conclusa, che si muove tra spinte
alla centralizzazione di alcune sue
funzioni e spinte alla
decentralizzazione o meglio alla
costituzione di una rete policentrica
dello sviluppo di cui lo Stato si fa
controllore e garante. Forse l’attuale
proposta di regionalismo differenziato
va proprio in questo senso.
Si sta già definendo attualmente una
geografia particolare con la creazione
di tanti Nord e di tanti Sud, una
geografia dello sviluppo e del
sottosviluppo, di aree quindi a elevato
sviluppo e di aree depresse. Qui si
introduce il problema dell’ordinamento
amministrativo dello Stato, specchio e
indice dei rapporti di classe e di
potere affermatasi in Italia con l’unità
d’Italia che si ripropone ogni volta a
ogni crisi decisiva della società
italiana. La ragione del mancato
sviluppo delle autonomie locali consiste
nel fatto che l’unità d’Italia non si è
mai di fatto compiuta, non all’interno
sicuramente della nazione ove permangono
ignoranza crassa, poca educazione civile
e politica. A ogni passo compiuto verso
le autonomie se ne compiono due passi
indietro, in senso opposto, generando
nuove attribuzioni di funzioni e poteri
al governo centrale.
Emerge l’invincibile forza dello Stato
moderno con i suoi interessi un po’
reali e un po’ demagogici della macchina
burocratico – amministrativa, senza mai
poter dire si sia assistito veramente
alla formazione di una democrazia
moderna intesa come pratica di
autogoverno e di sviluppo delle
autonomie locali. Potremmo dunque
evidenziare come le tendenze della
borghesia italiana, l’una liberale e
l’altra autoritaria siano in continuo
conflitto tra di loro, limitando la
libertà di iniziativa e di
trasformazione. Una martoriata
implosione unificatrice italiana
destinata a incidere sulle libertà della
persona, quali la libertà della
circolazione, d’insegnamento,
d’opinione, dell’informazione, degli
istituti di credito. L’autonomismo
all’indomani dell’unificazione ha dato
forma in buona sostanza a tre centri di
irradiazione regionale corrispondenti ad
altrettanti tre punti nevralgici della
vita statuale italiana: Lombardia,
Napoli e Sicilia.
L’unificazione d’Italia è il risultato
della somma di spinte disomogenee,
contrastanti, di un mancato e
programmatico sano, solido, e valido,
processo di unificazione oltre che di
una mancata profonda visione, dando
altresì largo a una errata
corrispondenza tra sviluppo
capitalistico e ordinamento
amministrativo. È necessario per il
capitalista muovere le fila da cui
dipendono la vita dei centri di
produzione, con una tendenza
all’accentramento monopolista per avere
tutto il controllo del paese, per il
gioco incontrastato delle speculazioni
bancarie, agevolando una manovra
conforme ai propri interessi, a danno
dell’intera e generale nazione. In
questo tornante decisivo si intravede in
maniera specchiata, quel filo mai
spezzato di ricongiunzione a un modello
di monarchia accentratrice.
Soltanto la definizione chiara e una
innovazione effettiva delle autonomie
garantirebbe vigore di unità nazionale
poiché la nascita dello Stato
burocratico accentratore costituisce il
risultato della immaturità italiana alla
lotta politica e che l’accentramento
finirebbe solo quando la lotta dei
partiti di maggioranza si unirebbe in
un’azione controbilanciante della
pubblica amministrazione. Soltanto una
riforma radicale dell’autonomismo
potrebbe consentire di impostare su basi
nuove lo Stato italiano. Bisognerebbe
guardare all’indomani del fallimento del
processo risorgimentale, e al crollo
delle libertà democratiche per rivedere
tutto il processo storico risorgimentale
culminato in una mancata unità d’Italia,
una unificazione prima fortemente
voluta, poi successivamente mancata e
porvi nuovamente rimedio. Il
decentramento come l’accentramento non
sono da concepirsi come istituti
giuridici distinti ma come orientamenti
intermedi, con carattere dinamico. |