[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 160 / APRILE 2021 (CXCI)


attualità

Questione meridionale o questione dei territori?
federalismo e autonomie / I

di Tiziana Coppola

 

Il Mezzogiorno dei bisogni moderni non crea alcun ascolto televisivo, occorre sempre instillare lo shock per catturare l’attenzione: un tempo quello della povertà contadina, poi quello dei morti ammazzati per mano dalle cosche, dell’omertà, dei santi miracolosi, e delle processioni. Tale fondo culturale agisce nella società meridionale come un basso continuo delle mentalità e dei costumi. Questa cultura spinge inizialmente a una chiusura entro il contesto familiare, coniugata con un affidamento rassegnato e impotente al padrone di turno che sia padre, padrino, burocrate, deputato, senatore e via dicendo, oggi si assiste invece a un necessario quanto mai inaspettato desiderio di sganciarsi da una simile cultura servile, per pronunciarsi di slanci verso nuove forme di vita indipendente.

 

Provando a ripercorrere il tempo a ritroso, si sono susseguiti indubbiamente vari progetti di riforma delle istituzioni feudali ritenuti tentativi inutilmente vani dai governi illuministi; per esempio con la legge del 2 Agosto 1806 la spartizione delle terre tra feudatari e comuni e la suddivisione e distribuzione delle terre dai comuni ai contadini, rappresenta sì una rivoluzione demaniale destinata a segnare i rapporti tra proprietari e comuni e tra comuni e contadini per tutto l’Ottocento e buona parte del nostro Novecento, ma la legge fin da subito pone in evidenza i suoi limiti e il suo fallimento. Resteranno per lungo tempo le irregolarità nella distribuzione delle proprietà terriere poiché i contadini senza mezzi finanziari e senza la possibilità di poter versare il canone enfiteutico e l’imposta fondiaria, si vedono costretti a cedere le terre ai proprietari più ricchi, finendo per rafforzare la borghesia terriera. I baroni in questo modo non vengono spogliati dei loro privilegi, mortificando di conseguenza i principi della rivoluzione innestata dalla legge del 1806, il cui intervento riformatore genera effetti stagnanti a completo appannaggio degli stessi.

 

Si parla di una rivoluzione passiva, ossia di una rivoluzione subita e non intrapresa dalle forze sociali del Mezzogiorno, è un intervento eversivo ma esterno, espressione di una potenza straniera, imposta a una società che non ha autonomamente sviluppato nel suo seno nuove classi sociali in grado di contrapporsi al ceto baronale, costituendo di fatto il ceto dominante e dirigente del Mezzogiorno. Il baronaggio apparentemente distrutto in realtà sopravvive a lungo in qualità di forza sociale in grado di condizionare i processi produttivi conservando nelle campagne modelli di relazione e rapporti politici improntati alle logiche della prevaricazione, della prepotenza e dei particolarismi esattamente come il vecchio modello feudale.

 

In questo punto preciso della storia, i ceti della borghesia mettono in pratica ciò che ereditano e rinnovano dal ceto baronale ovvero quello di volersi nobilitare, di voler conquistare titoli nobiliari, tipici dell’aristocrazia terriera. Una caratterizzazione questa di tutta la borghesia europea ma che in Italia meridionale si tinge di tinte conservatrici oltre modo. La borghesia meridionale eredita senza lotte e sacrifici l’antico patrimonio baronale, finendo per convivere in maniera lenta e prolungata con tutto quello che ha caratterizzato il vecchio mondo, esprimendo una vera e propria egemonia sul resto della realtà sociale. Lo Stato in questo modo cambia la sua forma, e si organizza attorno a una nuova articolazione amministrativa di tipo moderno, con funzionari che ricevono direttive direttamente dal governo centrale, al quale sono tenuti a inviare tutte le informazioni circa le condizioni delle province, i conflitti interni, le caratteristiche della popolazione e quanto altro attiene alla vita di provincia. La proprietà terriera resta la condizione prioritaria per poter essere eletti o eleggere per le più importanti cariche amministrative. Si può osservare come i ceti borghesi vengano sottratti alla gestione dei propri beni e chiamati a incarichi amministrativi per la cura e la gestione degli affari generali.

 

Il Mezzogiorno si presenta quindi con una nuova mappatura sociale: la nascita della borghesia professionale da un lato e i contadini dall’altro. Mentre per i primi le relazioni, i matrimoni, i contatti e le alleanze si stabiliscono facilmente e in maniera naturale, per i secondi è difficilissimo stabilire relazioni e alleanze con i primi. L’unificazione d’Italia si inserisce in questo modo in un processo di uniformizzazione apparente di tipo territoriale, sociale, assurgendo a divenire nazione sovrana insieme agli altri stati europei e il Mezzogiorno esce fuori dalla sua connotazione di piccolo regno. L’intervento esterno di una potenza straniera sul processo di unificazione dell’Italia, mai sentito per davvero dalle forze sociali, comporterà però esiti non graditi.

 

La guerra civile o brigantaggio, darà origine a scorribande in regioni quali Puglia, Basilicata, Molise e Campania, sottoponendo a saccheggio vasti territori, per sottrarre ai signori locali le terre. Il fallimento del processo risorgimentale induce a credere che sia culminato in una mera rivoluzione politica, non preceduta né accompagnata da una autentica rivoluzione sociale. A governare il Mezzogiorno non è dunque una classe media, capace di frapporsi e mediare tra i bisogni dei contadini o degli strati sociali più umili e lo Stato, ma a rappresentare la società è la classe dei proprietari terrieri, arroccata, miope, e piegata nella difesa dei propri interessi, ponendosi come un vero schermo tra essi e le classi popolari. Lo Stato unitario finisce per rafforzare il ruolo del ceto borghese dando vita a un assetto sociale distorto e carico di tensioni.

 

La popolazione in questo modo anziché dirigere la fiducia verso lo Stato, la dirige verso i proprietari terrieri e i rapporti di clientelismo da cui ne discendono. Da qui lo Stato nuovo, all’indomani dell’unità, non intende comprendere che occorra invece una modificazione strutturale dei legami sociali. La questione meridionale nasce quindi con la formazione dello Stato del Mezzogiorno e la presa di coscienza da parte del governo della problematicità politica dell’inserimento del Mezzogiorno nello Stato unitario, e non c’è stato un solo momento in cui durante il periodo della storia unita, tra i problemi del Mezzogiorno e quelli del resto del paese vi fosse stata una sostanziale identità.

 

Con l’abolizione dei diritti feudali e con il passaggio dalla società agraria precapitalistica a una società di tipo capitalistico, il brigantaggio intensifica la sua presenza sui territori e il contadino subisce da parte del grande proprietario e dalle autorità, le prime vessazioni. La stessa nascita delle associazioni criminali è legata a una domanda di protezione che lo Stato non è più in grado di assicurare. La presenza dei briganti crea un senso di insicurezza per cui i proprietari utilizzano la forza dello Stato. Senza l’appoggio dei picciotti della mafia, Garibaldi e i Mille, una volta sbarcati a Marsala, avrebbero trovato grandi difficoltà, invece, grazie ai mafiosi, trovano la strada in discesa. Il sodale rapporto tra la mafia e lo Stato nasce con l’unità d’Italia che sin dai tempi dell’invasione garibaldina in Sicilia, si serve per le sue discusse e dubbie vittorie, del contributo determinante della mafia in Sicilia. Un apporto dunque determinante quello degli uomini d’onore senza il cui aiuto Garibaldi in Sicilia non avrebbe potuto assolutamente fare molta strada. Un vergognoso e riprovevole contributo puntualmente e volutamente ignorato, per amor di patria, dai libri di scuola e dalla storiografia ufficiale.

 

La mafia esce quindi dall’anonimato e dallo stato embrionale cui è relegata nella Sicilia dell’Italia pre-unitaria e si rappresenta come reazione, conservazione, difesa e quindi accumulazione di risorse con la sua tragica, intensificata, crudele vocazione alla ricchezza. La mafia stessa è un modo di fare politica mediante la violenza, è naturale quindi che cerchi una complicità, un riscontro, un’alleanza con la politica pura, cioè praticamente con il potere. Ed è questo patto tra mafia, potere politico e istituzioni, tenuto a battesimo prima dall’impresa garibaldina e poi dall’unità d’Italia che dura tra trattative e connivenze. La mafia ha avuto un grande ruolo nella difesa degli assetti proprietari e di classe in tutta la storia italiana sin dal 1861, condizionando il Parlamento e i partiti con i voti e con il sangue. Le mafie hanno fatto parte integrante del blocco sociale e politico meridionale e ha determinato gli equilibri politici ed economici dell’Italia. Alle origini della questione meridionale esistono sistemi economici, politici e culturali largamente feudali e precapitalistici.

 

Questa condizione di arretratezza rispetto allo sviluppo capitalistico degli stati preunitari del Nord Italia è ritenuta la radice della questione meridionale nell’Italia divenuta unita. Un ritardo dovuto a precise scelte di politica economica da parte dello stato unitario. Le problematiche si centrano sulle cause e sul modo in cui avviene l’unità/annessione e sulle misure politiche ed economiche per colmare il gap Nord/Sud che saranno poi drammaticamente legate alle politiche di crescita industriale per il meridione e per le isole. Il perdurante divario Nord-Sud, l’enfasi posta sulla diversità dell’Italia meridionale rispetto all’intero paese, la recriminazione moralistica ne confronti delle politiche economiche e dei governi, la conseguente espressione delle preoccupazioni civili è sintomatico della disaffezione e del disinteresse verso i bisogni sociali, i saperi sociali, assoggettati e asserviti a ristretti interessi di potere. Il Mezzogiorno rappresenta ciò che si è voluto da sempre diventasse. Si finisce con l’identificare lo Stato italiano con una entità astratta, variante da paese a paese e lo Stato a sua volta viene paragonato a un collant tra classi dominanti e nuovi centri di potere costituiti in principal modo dalle banche, dal potere dell’alta finanza. Dall’altro lato della barricata ci sono invece gli artigiani, i contadini incapaci di reagire, di creare un muro tra Stato e popolo, facendo cadere le ribellioni in un nulla di fatto, in una via senza uscita, gettando il paese in un totale senso di smarrimento, disorientamento, poiché il processo di sviluppo capitalistico si innesta in un quadro fragile e scarsamente integrato.

 

Oggi siamo di fronte a una forte quanto mai pericolosa incongruenza italiana di uno Stato cresciuto troppo in fretta, appaltato agli interessi dei più forti gruppi di potere economico, con una classe dirigente e una inclinazione di tipo autoritario, con una opinione pubblica immatura, vile, codarda, vigliacca, incapace di reazione, con istanze nuove e arretrate, con una fermentazione complessa caratterizzata da uno stato capace di violare le libertà individuali, questo a causa del mancato conflitto frontale tra Stato e individuo, con una progressiva restrizione delle libertà personali e un conseguente ripristino di un nuovo disciplinare. Si tratta certamente di una transizione ancora in atto, non ancora conclusa, che si muove tra spinte alla centralizzazione di alcune sue funzioni e spinte alla decentralizzazione o meglio alla costituzione di una rete policentrica dello sviluppo di cui lo Stato si fa controllore e garante. Forse l’attuale proposta di regionalismo differenziato va proprio in questo senso.

 

Si sta già definendo attualmente una geografia particolare con la creazione di tanti Nord e di tanti Sud, una geografia dello sviluppo e del sottosviluppo, di aree quindi a elevato sviluppo e di aree depresse. Qui si introduce il problema dell’ordinamento amministrativo dello Stato, specchio e indice dei rapporti di classe e di potere affermatasi in Italia con l’unità d’Italia che si ripropone ogni volta a ogni crisi decisiva della società italiana. La ragione del mancato sviluppo delle autonomie locali consiste nel fatto che l’unità d’Italia non si è mai di fatto compiuta, non all’interno sicuramente della nazione ove permangono ignoranza crassa, poca educazione civile e politica. A ogni passo compiuto verso le autonomie se ne compiono due passi indietro, in senso opposto, generando nuove attribuzioni di funzioni e poteri al governo centrale.

 

Emerge l’invincibile forza dello Stato moderno con i suoi interessi un po’ reali e un po’ demagogici della macchina burocratico – amministrativa, senza mai poter dire si sia assistito veramente alla formazione di una democrazia moderna intesa come pratica di autogoverno e di sviluppo delle autonomie locali. Potremmo dunque evidenziare come le tendenze della borghesia italiana, l’una liberale e l’altra autoritaria siano in continuo conflitto tra di loro, limitando la libertà di iniziativa e di trasformazione. Una martoriata implosione unificatrice italiana destinata a incidere sulle libertà della persona, quali la libertà della circolazione, d’insegnamento, d’opinione, dell’informazione, degli istituti di credito. L’autonomismo all’indomani dell’unificazione ha dato forma in buona sostanza a tre centri di irradiazione regionale corrispondenti ad altrettanti tre punti nevralgici della vita statuale italiana: Lombardia, Napoli e Sicilia.

L’unificazione d’Italia è il risultato della somma di spinte disomogenee, contrastanti, di un mancato e programmatico sano, solido, e valido, processo di unificazione oltre che di una mancata profonda visione, dando altresì largo a una errata corrispondenza tra sviluppo capitalistico e ordinamento amministrativo. È necessario per il capitalista muovere le fila da cui dipendono la vita dei centri di produzione, con una tendenza all’accentramento monopolista per avere tutto il controllo del paese, per il gioco incontrastato delle speculazioni bancarie, agevolando una manovra conforme ai propri interessi, a danno dell’intera e generale nazione. In questo tornante decisivo si intravede in maniera specchiata, quel filo mai spezzato di ricongiunzione a un modello di monarchia accentratrice.

 

Soltanto la definizione chiara e una innovazione effettiva delle autonomie garantirebbe vigore di unità nazionale poiché la nascita dello Stato burocratico accentratore costituisce il risultato della immaturità italiana alla lotta politica e che l’accentramento finirebbe solo quando la lotta dei partiti di maggioranza si unirebbe in un’azione controbilanciante della pubblica amministrazione. Soltanto una riforma radicale dell’autonomismo potrebbe consentire di impostare su basi nuove lo Stato italiano. Bisognerebbe guardare all’indomani del fallimento del processo risorgimentale, e al crollo delle libertà democratiche per rivedere tutto il processo storico risorgimentale culminato in una mancata unità d’Italia, una unificazione prima fortemente voluta, poi successivamente mancata e porvi nuovamente rimedio. Il decentramento come l’accentramento non sono da concepirsi come istituti giuridici distinti ma come orientamenti intermedi, con carattere dinamico.

RUBRICHE


attualità

ambiente

arte

filosofia & religione

storia & sport

turismo storico

 

PERIODI


contemporanea

moderna

medievale

antica

 

ARCHIVIO

 

COLLABORA


scrivi per instoria

 

 

 

 

PUBBLICA CON GBE


Archeologia e Storia

Architettura

Edizioni d’Arte

Libri fotografici

Poesia

Ristampe Anastatiche

Saggi inediti

.

catalogo

pubblica con noi

 

 

 

CERCA NEL SITO


cerca e premi tasto "invio"

 


by FreeFind

 

 

 

 

 


 

 

 

[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]