N. 9 - Febbraio 2006
LA
QUESTIONE CECENA
Le
ragioni storiche dell'odio
di Leila
Tavi
Le elezioni politiche
del 27 novembre scorso in Cecenia sono state
l’ulteriore conferma che il potere decisionale è nelle
mani della milizia russa e dei kadyrovtsy,
gli uomini di Ramzan Kadyrov, figlio del presidente
filo-russo ucciso lo scorso anno durante un attentato
dai ribelli. Le liste candidate, tutte fedeli al
Cremlino, non sono certo il migliore esempio di
rappresentatività democratica.
Dopo l’11 settembre 2001
la questione cecena diviene motivo d’accordo tra la
diplomazia russa e quella statunitense, che si vedono
alleate in quella che viene soprannominata la
guerra al terrorismo islamico. Prima dell’attacco
alle Twin Tower di New York gli interessi
americani e russi in Caucaso sono stati, durante
tutti gli anni Novanta del XX secolo, nettamente
contrapposti: Mosca sosteneva le guerriglie in
Giorgia dove, dal 1995, il governo si è trovato a
dover fronteggiare la crisi causata dalle
rivendicazioni degli indipendenti dell’Ossezia
meridionale e dei separatisti musulmani dell’Abhasia
e, in Azerbaigian dove, invece, il governo
russo ha sostenuto i separatisti delle minoranze russa
e armena nei confronti degli azeri di lingua turca e
dei musulmani sciiti nella regione autonoma del
Nagorno-Karabakh.
Lo scopo del governo
russo era alla fine del XX secolo di contrastare in
Caucaso la costituzione di governi forti negli stati
indipendenti come la Georgia e l’Azerbaigian che
potessero servire alle compagnie petrolifere
occidentali come via alternativa al petrolio del mar
Caspio rispetto a quella cecena; allo stesso tempo gli
Stati Uniti appoggiavano i ribelli ceceni.
Dopo gli esiti negativi
per la Russia della prima guerra del 1994 la
strategia del Cremlino ha sortito effetti opposti a
quelli desiderati: la situazione in Transcaucasia si è
andata, ad eccezione della regione del
Nagorno-Karabakh, via via stabilizzando, mentre non
solo in Cecenia, ma in tutto il Caucaso
settentrionale, i focolai della guerriglia si sono
moltiplicati e non accennano a spegnersi.
La Cecenia non è ostile
alla Russia solo per una questione di interessi
geopolitica legati allo sfruttamento del petrolio, i
Ceceni, popolo di sunniti, si è opposto alla
colonizzazione dei Russi fin dal XVII secolo d.C.
Nel XIII secolo il
Caucaso settentrionale fu conquistato dall’Orda d’Oro;
con la disgregazione del regno dell’Orda d’Oro si
costituirono due canati indipendenti: quello di
Crimea nel 1427 e quello di Astrachan nel
1466, conquistati da Ivan il Terribile nel
Cinquecento. Il Caucaso, “la cerniera” tra l’Europa e
l’Asia, divenne da quel momento il teatro di scontro
tra l’impero russo e quello ottomano. L’etimologia
della parola Caucaso, in arabo al-Kabk,
in turco Kavkaz, la fa derivare dal
persiano Kâfkoh, dalla catena montuosa
che circonda la regione.
Mateï Cazacu fa risalire
il periodo dell’islamizzazione in Caucaso al VII-VIII
sec. d.C.; le regioni convertite furono l’Azerbaigian,
il Daghestan meridionale, nel Caucaso centrale i
popoli dei cabardini, dei balcari e dei caraciai. La
conversione fu lenta e a varie riprese. Il
Cristianesimo veniva invece praticato tra gli armeni,
i georgiani, i circassi e, in parte anche tra i ceceni.
Possiamo far risalire la
prima fase della colonizzazione russa del Caucaso
settentrionale al periodo tra il 1556 e il 1604; dal
1604 al 1722 la politica espansionistica russa nel
Caucaso venne abbandonata perché l’esercito russo non
era ancora in grado di affrontare il potente impero
osmanico, così le mire espansionistiche russe si
spostarono verso la Siberia, l’Ucraina e il mar
Baltico. Fu proprio in questo periodo che in Caucaso
ci fu una massiccia conversione alla religione
islamica.
Dal XVIII secolo la
spinta espansionistica russa in Asia diviene
prorompente e tra il 1722 e il 1783 Pietro il Grande
inaugurò la conquista del Caucaso per aggiudicarsi
l’accesso al mar Nero, allo scopo di aprirsi una
rotta commerciale con l’India.
Nella loro corsa verso
l’Oriente i Russi trovarono però un ostacolo: nel 1733
l’esercito russo con a capo il principe Volkonskij
si scontrò con un piccolo popolo di montanari
schierato dalla parte dei musulmani nelle vicinanze di
una cittadina chiamata Bolscoj Cecen. Si trattò
della prima battaglia tra i Russi e i Ceceni, che
avrà, in seguito, molti episodio simili fino ad
arrivare alla storia dei nostri giorni.
Con il regno di Caterina
la Grande dal 1762 al 1796 i conflitti in Caucaso si
inasprirono. Nel 1763 fu fondata dai Russi la città
di Mozdok, nell’attuale Ossezia del nord, come
roccaforte degli ortodossi per tentare di
cristianizzare i popoli autoctoni, sulla via di quella
che venne definita “conquista pacifica”, ma che
in realtà si rivelò ancora più sanguinaria e
aggressiva della conquista di Pietro I.
Nonostante i tentativi
di assoggettare i popoli del Caucaso del nord
attraverso l’assimilazione della classe aristocratica
alla corte imperiale fosse una strategia vincente da
parte di Caterina II per conquistare gli altri popoli
del Caucaso, con i Ceceni non fu possibile agire in
questo modo e la zarina fu costretta a utilizzare la
forza per piegare i ribelli locali. La struttura della
società cecena tra il XVIII e il XIX secolo era
infatti ancora basata sul diritto consuetudinario e
sul teip, il gruppo. Il mantenimento
delle tradizioni culturali era considerato tra i
Ceceni un valore da tramandare di generazione in
generazione e qualcosa per cui sacrificare anche la
vita nella lotta contro l’usurpatore.
L’islamizzazione dei
Ceceni avvenne proprio nel Settecento ed ebbe da
subito legami con la resistenza; furono proprio i
predicatori della confraternita naqšhbandiya
a organizzare la resistenza contro i Russi, che in
qualche modo erano riusciti a penetrare nelle comunità
cecene corrompendo i capi tribù con i piaceri
dell’alcool e del gioco d’azzardo.
Mansur fu il
primo a teorizzare uno stato della sharia
contro la corruzione e l’immoralità dilaganti, ma il
capo spirituale non riuscì a costituire un movimento
coeso a causa della frammentazione sul territorio
delle varie tribù tra loro eterogenee e isolate.
La risposta russa al
tentativo di Mansur fu il “sistema Ermolov”,
dal nome del generale russo che avviò questa politica
della linea dura con le popolazioni del Caucaso e che
consisteva in ripetuti saccheggi, assedi e distruzioni
di raccolti e villaggi, finanche a giungere alle prime
deportazioni nel 1816.
La reazione degli
autoctoni alla violenza russa strabiliò lo stesso
Ermolov che non aveva fatto i conti con una resistenza
del genere in popolazioni senza un esercito regolare e
una strategia militare. La vera forza dei locali era
oltre alla religione, che aveva negli imām del
Daghestan i suoi capi spirituali, la volontà di non
veder distrutte dai Russi le proprie tradizioni
culturali.
Nel 1830 iniziò una
nuova campagna di conquista che durerà trent’anni
soprannominata guerra Murid, per via del
Muridismo, la dottrina insegnata dalle
confraternite islamiche; l’imām Šamil, anche
detto “il leone del Daghestan”, tentò per la
prima volta di coalizzare i clan nella lotta contro i
Russi, in quella che potremmo chiamare la guerra dei
Trent’anni orientale, anche detta Ghazawat,
guerra santa. Le truppe imperiali impegnate nella
lotta era formate da 200.000 soldati, un terzo
dell’intero esercito zarista.
Nonostante la pesante
sconfitta subita dagli uomini di Šamil, possiamo
considerare l’imām del Daghestan il primo l’eroe
nazionale ceceno, colui che attuò la riforma
dell’esercito e delle finanze, il primo che riuscì nel
tentativo di creare una coscienza nazionale tra i
Ceceni.
Il processo di identità
nazionale proseguì nonostante il dissenso interno tra
i clan (non tutti i Ceceni erano pronti ad abbandonare
i privilegi delle consuetudini tribali per uno Stato
teocratico), la dura legge di Ermolov e l’annessione
forzata all’impero.
Le aspirazioni
indipendentiste continuarono fino alla rivoluzione
bolscevica, ricordiamo il tentativo non riuscito di
indipendenza nel 1918 del Caucaso settentrionale e la
strenua resistenza alla collettivizzazione forzata
delle campagne negli anni Trenta ad opera di Stalin.
Alla fine della 2.
guerra mondiale, nel quadro di un più ampio progetto
che vedeva la deportazione di interi popoli in tutto
il territorio asiatico dell’URSS, dal 23 febbraio 1944
mezzo milione di Ceceni furono trasferiti forzatamente
in Kazakhstan e in Siberia dove, privati dei diritti
civili e politici, furono imprigionati nei gulag.
Diecimila Ceceni morirono durante il trasporto per
fame, malattie e assideramento; altre migliaia nelle
steppe kazane.
Con la destalinizzazione
i Ceceni poterono rimpatriare nel 1957, ma per
arginare il fenomeno della ribellione cecena il
Cremlino decise di non concentrare l’intera
popolazione in un solo stato; territori della
repubblica di Cecenia-Inguscezia con maggioranza di
residenti caucasici furono annessi al territorio russo
e vice versa, con i risultati che possiamo immaginare
e che meglio ci fanno comprendere i conflitti attuali.
Molti degli anziani in
Cecenia ricordano ancora l’orrore delle deportazioni
del 1944, è uno degli aspetti centrali dell’identità
cecena oggi.
Riferimenti bibliografici:
Carlo
Boecklin, I ceceni fino al controllo russo, in
www.relint.org
Marco
Butino, Cecenia. Da Ivan a Putin, cinque secoli di
persecuzione, “Global Foreign Policy”, n.1,
marzo-aprile 2004
Mateϊ Cazacu, Au Caucase. Russe et
Tchétchènes, récits d’une guerre sans fin, Georg,
Ginevra, 1998
Russisch-tschetschenische
Feindschaft hat Tradition,
in „tagesschau.de“, 7 settembre
2005
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