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N. 133 - Gennaio 2018 (CLXIV)

Putin's Witnesses
Un'inedita testimonianza dell'ascesa del presidente russo

di Leila Tavi

 

Il documentario Putin's Witnesses – titolo originale Svideteli Putina  del regista di origine ucraina Vitalij Manskij, ha vinto il Gran Premio del Festival International Documentaire che si svolge ogni anno nella città di Biarrizt, sulla costa atlantica della Francia. Si tratta di una coproduzione tra Studio Vertov, Lettonia, Golden Egg, Svizzera, e Hypermarket Film, Repubblica Ceca.



Il regista si è autoesiliato in Lettonia per le sue posizioni critiche nei confronti del governo russo ed è conosciuto all’estero per il suo documentario del 2015 Under the Sun – titolo originale V lučach solnca – in cui la sua macchina da presa segue per un anno intero la vita di una famiglia di Pyongyang, la capitale della Corea del Nord.

Il suo ultimo lavoro su Putin è importante, perché fornisce materiale raro e inedito per gli storici, tratto dall’archivio personale del documentarista russo, che in veste di cameraman ufficiale della televisione di Stato russa ha potuto seguire la vita dei principali attori politici del suo Paese all’inizio del nuovo secolo. Oltre a Vladimir Putin, nel documentario sono intervistati uno scettico Michail Gorbačëv e un Boris El'cin che ripone tutta la fiducia nel candidato Putin, quale rappresentante del processo di democratizzazione della Russia, ma che diventa già subito dopo l’elezione del suo candidato critico dei metodi “rossi” del giovane premier, che ha assunto l’incarico di presidente ad interim dopo le dimissioni di El’cin.

Il modello di sviluppo della Russia “all’americana” auspicato da El’cin non sarebbe attecchito mai in un Paese abituato all’autoritarismo e alla repressione dell’individualismo. Sembrano naif a uno spettatore contemporaneo le dichiarazioni di El’cin riprese da Manskij su Putin come il riformatore della Russia, colui che avrebbe permesso la libertà di stampa. Libertà, una parola che in casa El’cin si ripete spesso mentre tutti i membri della famiglia sono raccolti davanti al televisore a seguire le elezioni del 26 marzo 2000. Tutti fanno il tifo per Putin, anche il nipotino di El’cin è stato ben indottrinato, con il suo ditino nel naso. Lo champagne è stappato al momento della lettura dei dati ufficiali che sanciscono la vittoria del candidato dell’Operazione Successore.

A una lettura attenta del documentario di Manskij si comprende subito che, se l’elezione del 2000 è un’elezione senza brogli, con un Gennadij Zjuganov che ottiene un significativo 29,21%, presenta ancora una caratteristica che è rimasta costante nella storia russa, interrotta soltanto dalle due presidenze precedenti a quella di Putin: è l’elezione di un monarca. Fuori gioco i due candidati più temibili per Putin, Evgenij Primakov e l’allora sindaco di Mosca Jurij Lužkov, a causa di una “"dirty tricks campaign” da parte della squadra di Putin, come sottolineato dal commento all’elezione del politologo Ariel Cohen, il consenso dei russi va al giovane candidato che dovrà prendere l’eredità dell’impetuoso e autoritario El’cin, dimissionario all’inizio della seconda guerra cecena.

La Cecenia è una macchia nera che Putin eredita da El’cin, che ha lanciato una campagna militare senza successo nel 1994, sperando di aumentare la sua popolarità, invece si è trovato con un esercito allo stremo, con la ferita ancora aperta dell’Afghanistan. Una guerra in cui la propensione alla democrazia di El’cin è venuta a mancare, così la prima guerra cecena, incostituzionale e mal concepita, è stata motivo di grande umiliazione per l’'esercito russo e ha permesso alla Cecenia di effettuare una secessione de facto. El’cin, che pur avendo operato bene durante la crisi dei primi anni Novanta, traghetta la Russia verso un periodo drammatico, fatto di privatizzazioni selvagge, prostituzione, illegalità, corruzione, dipendenza da alcol e droghe.

Putin sa di dover fare uno sporco lavoro. All’inizio del documentario lo vediamo commuoversi durante l’incontro con la sua ex maestra di scuola di Pietroburgo, mentre alla fine, con un solo deciso gesto della mano, fa obbedire il suo cane. Uno stratega della ragion di Stato, che deve far ritornare la Russia una potenza internazionale, cancellando in poco tempo i devastanti effetti di una secolare "catchup modernization". Agli inizi della sua carriera politica lo vediamo in una veste completamente diversa rispetto al prodotto mediatico che è divenuto in seguito, dal mito di macho che gli è stato cucito addosso nel corso degli anni della consolidamento del suo potere, è un “hands-on leader”, un politico il cui compito è mettere toppe per evitare il crollo. Il potere, racconta a Marskij durante un viaggio in auto nella notte di Mosca, è solo uno strumento che occorre allo Stato come forma di controllo. Lo osserviamo attraverso l’occhio della telecamera di Manskij con un maxi pullover mentre segue, certo della vittoria, lo scrutinio dei voti dal suo quartier generale, attorniato dal suo team, uomini e donne tra i quali l’attenzione si focalizza su Dmitrij Medvedev, l’unico della sua squadra che non lo ha abbandonato fino a oggi, vediamo poi Tat’ijana Jumaševa, figlia di El’cin, che, come suo padre, si distanzia da Putin subito dopo le elezioni. Putin занима́ется sottolinea uno El’cin ancora entusiasta davanti alla telecamera, in attesa dei risultati elettorali, dove è il problema va e lo risolve, ha girato il suo Paese in lungo e il largo durante il periodo ad interim, ma tutto sembra una una messa in scena alla Potëmkin, dove i cittadini russi sono solo comparse, silenziose figure sullo sfondo.



 

 

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