N. 38 - Febbraio 2011
(LXIX)
Psicologi nel Lager
tra atavismo e ritorno del primitivo - Parte II
di Andrea Scartabellati
Nato
a
Mantova
nell’ottobre
1892,
studente
di
medicina
presso
l’università
patavina,
allo
scoppio
delle
ostilità
Amedeo
Dalla
Volta
è
arruolato
nel
Corpo
di
Sanità
e
Chirurgia
(giugno
1915)
e
inviato
al
fronte
con
l’ospedaletto
da
campo
n.
0052.
Caduto
prigioniero
degli
Austriaci
dopo
la
sconfitta
di
Caporetto,
è
inviato
ai
campi
di
concentramento
ungheresi
di
Dunaszerdahely
(oggi
in
Slovacchia)
e di
Csòt
bei
Papa.
Durante
la
prigionia
raccoglie
il
materiale
della
tesi
di
laurea,
quegli
Studi
pubblicati
nel
1919
a
Firenze
nel
sostanziale
disinteresse
dell’accademia
italiana.
Rimpatriato
il
18
novembre
1918,
prima
del
definitivo
congedo
presta
servizio
presso
il
Presidio
militare
di
Bibbiena
e
l’ospedale
per
tubercolotici
di
Villa
Rusciano
di
Firenze.
Dopo
alcuni
soggiorni
di
perfezionamento
a
Vienna
e a
Berlino
negli
anni
‘20,
avvia
una
brillante
carriera
universitaria
a
Padova
prima,
e
Catania
poi,
dove
ricopre
il
ruolo
di
gerente
del
locale
fascio
universitario.
Ebreo,
è
estromesso
dai
ruoli
docenti
in
seguito
all’approvazione
delle
leggi
razziali
nel
1938.
Scampato
fortunosamente
alla
Seconda
guerra
mondiale,
nascondendosi
nelle
campagne
mantovane
dopo
l’08
settembre
1943,
riprende
dal
1945
la
carriera
interrotta
di
professore
universitario
grazie
al
fattivo
aiuto
di
padre
Agostino
Gemelli.
Come
anticipato
nell’introduzione,
quella
di
Dalla
Volta
è
una
sorta
di
precorritrice
e
frammentaria
fenomenologia
del
Lager
e
dei
suoi
abitanti.
Il
resoconto
inusuale
di
uno
scienziato
indotto,
dai
casi
della
vita
bellica,
a
fare
dell’osservazione
partecipante
coatta
ergendosi,
contemporaneamente,
a
soggetto
ed
oggetto
dell’analisi,
per
trarre
conclusioni
che,
a
smentita
delle
elucubrazioni
neoidealiste
e
neotomiste,
volgono
a
riconfermare
la
straordinaria
vitalità
novecentesca
della
Weltanschauung
scientifica
e
politica
positivista.
Dotata
di
un’accuratezza
analitica
ineguagliata
dalla
pur
più
famosa
ma
posticcia
opera
di
Vischer,
la
fortuna
dello
scritto
dallavoltiano
paga
probabilmente
lo
scotto
di
una
duplice
negativa
precondizione.
Da
un
lato,
la
prigionia
di
guerra,
nonostante
riguardasse
migliaia
di
soldati,
non
assume
in
Italia
la
fisionomia
di
un’esperienza-simbolo
per
l’immaginario
collettivo,
né
interessa
i
gruppi
politici
come
fattore
di
mobilitazione
politico-culturale.
Dall’altro,
il
realismo
descrittivo
del
testo
va
al
di
là
di
quanto
gli
stati
maggiori
militari
e
accademici
sono
disposti
ad
affrontare
pubblicamente.
Per
quanto
ingabbiate
dal
convenzionale
linguaggio
medico,
le
pagine
dedicate
alla
sessualità
degli
internati
in
particolare,
cozzano
sia
contro
la
volontà
diffusa
nel
Paese
di
voltar
pagina,
sia
contro
quel
mito
del
virile
guerriero
italiano,
forgiatosi
sull’Isonzo
e
sul
Piave,
che
muove
allora
i
primi
passi.
In
linea
con
le
matrici
culturali
positiviste
e
con
la
vocazione
sociologistica
della
psichiatria
italiana,
negli
Studi
Dalla
Volta
accosta
i
molteplici
fenomeni
osservati
a
Csòt
bei
Papa
come
manifestazioni
di
una
fenomenologia
naturale
decifrabile
per
mezzo
del
determinismo
bifronte
–
somatico
e
psicologico
–
lombrosiano
(Morselli,
1906).
Fenomeno
naturale
la
guerra,
evento
naturale
la
prigionia,
sottoprodotto
della
prima,
traducibile
secondo
la
sintassi
della
biologia
nei
termini
di
un
trauma
psichico
continuo
per
chi
ne è
vittima.
Attento
fin
dalle
prime
righe
alla
pluralità
degli
effetti
traumatico-depersonalizzanti
dell’internamento,
il
testo
di
Dalla
Volta
non
approda
alla
proposta
di
un
modello
eziologico
e
psicoterapeutico
originale,
come
nelle
più
drammatiche
circostanze
del
caso-Frankl.
Il
giovane
sottotenente
mantovano,
semplice
studente
di
medicina,
non
si
spinge
oltre
i
confini
teorici
tracciati
dalla
manualistica
psichiatrica
(Viveri,
1920;
A.
Morselli,
1921).
Ma
non
per
questo,
il
suo
elenco
delle
modificazioni
indotte
sul
carattere
dei
reclusi
dal
violento
impatto
della
non
vita
nell’artificiale
ambiente-Lager
è
meno
completo
con
la
sua
schiera
di
ossessionati,
ebeti,
neurastenici,
patofobi,
irritabili
psichici,
psicastenici,
coprofagi
e
degenerati.
Grazie
alla
doppia
tenaglia
della
fame
perenne
e
dell’impotenza
di
chi
è
costretto
a
veder
soccombere
decine
e
decine
di
compagni
senza
poter
intervenire,
l’universo-Lager
–
scrive
Dalla
Volta
-
inquina
profondamente
la
psiche
e il
corpo
delle
vittime.
Le
circostanze
giornaliere
sono
tali
che,
“senza
tema
di
esagerare,
a
loro
paragone
i
disagi
della
trincea
quasi
scomparivano”.
Intellettuale
prigioniero,
Dalla
Volta
avverte
come
anche
i
riti
di
passaggio
paralleli
all’incorporamento
militare,
e il
solidale
senso
di
cameratismo
maturato
al
fronte
– la
fratellanza
delle
trincee
–
cedano
il
passo
al
cospetto
dei
rovinosi
meccanismi
del
campo,
solo
in
parte
e
debolmente
mitigando
i
patimenti
dei
reclusi.
“Nessuno
–
ammette
demolendo
con
un
pensiero
la
retorica
del
giornalismo
di
guerra
- si
sarebbe
privato
del
più
modesto
boccone
per
cederlo
al
compagno
(…)
l’egoismo
in
tutta
la
sua
virulenza
trionfava”.
Solo
in
apparente
contraddizione,
Dalla
Volta
reputa
la
prigionia
sia
una
parentesi
nella
vita
del
recluso,
sulla
quale
edificherà
un
silenzio
solo
in
parte
scalfito
dopo
la
liberazione;
sia
una
minacciosa
ombra
destinata
a
gravare
come
un
macigno
nel
futuro.
Parentetica
temporalmente,
per
la
personalità
del
prigioniero
la
reclusione
rappresenta
un
vùlnus
sufficiente
a
tracciare
ferite
mai
pienamente
cicatrizzabili
anche
in
avvenire.
Nel
tempo
esperienziale
del
campo
di
concentramento,
col
suo
vuoto
di
avvenimenti
e di
speranze,
l’ex
combattente
percepisce
un
“gravoso
senso
di
degradazione
morale”,
progressivamente
idoneo
ad
annientarne
l’autostima.
Avvalorando
l’ipotesi
di
Vischer,
Dalla
Volta
mostra
come
il
reticolato
non
escluda
solo
dal
mondo
del
di
fuori,
ma
depauperi,
isterilisca
e
consumi
l’affettività
dei
prigionieri.
L’orizzonte
delimitato
dal
reticolato
ipersensibilizza
la
psiche
dei
reclusi,
la
nutre
quotidianamente
di
pessimismo,
la
addestra
ad
uno
sguardo
introspettivo
tanto
straziante
quanto
più
il
deperimento
fisico
individuale
è
avanzato.
Proprio
la
percezione
di
un
tempo
esperienziale
non
collidente
col
tempo
oggettivo
tramutano
lo
stato
di
sofferenza
nel
timore
di
vivere
una
condizione
immutabile.
Senso
di
vuoto,
smarrimento,
scetticismo,
disillusione,
dubbio
e
dolore
maturano
in
giornate
apparentemente
infinite,
caratterizzate
dalla
fobia
inconfessata
d’essere
vittime
di
una
guerra
senza
fine.
Notti
agitate
e
sonni
brevi.
Fame,
freddo
e
ancora
l’inedia
per
uomini
costretti
a
cibarsi
di
erba
e
immondizie
ammuffite.
Caricature
degli
individui
di
un
tempo
per
i
quali
perfino
la
corrispondenza
bisettimanale
con
i
familiari
perde
di
valore
di
fronte
all’urgenza
di
redigere
lunghe,
quanto
dissennate,
liste
di
desiderata
gastronomici.
Con
questi
inequivocabili
tratti
Amedeo
Dalla
Volta
presenta
la
parodia
della
vita
vissuta
dai
prigionieri
a
Csòt
bei
Papa.
Ma
egli
non
si
limita
a
descrivere.
Tardo
figlio
di
un
positivismo
declinante
ancorché
vivo,
intende
scorgere
la
causa
dei
fatti,
tracciare
una
fenomenologia
obiettiva
dei
meccanismi
responsabili
della
radicale
trasformazione
delle
personalità.
In
questo
sforzo
di
comprensione,
a
volte
concitato
più
spesso
meditato,
lo
psicologo
mantovano
individua
un
processo
di
adattamento
alla
realtà
del
Lager
che
si
sgrana,
per
circa
un
anno,
lungo
due
passaggi
originari.
Uno
stadio
iniziale,
relativo
ai
primi
mesi
di
prigionia,
nel
quale
il
neorecluso
vive
una
costante,
fisiologica
ed
eccitata
disperazione
(eretismo),
non
da
ultimo
favorita
dall’indebolimento
delle
facoltà
intellettive.
E
uno
stadio
successivo
che
sostituisce
all’eretismo
una
condizione
di
abitudinaria
indifferenza
alla
vita.
Uno
stato
di
stazionaria
sofferenza,
colma
di
amara
rassegnazione,
non
di
meno
percepita
come
rasserenante
dal
prigioniero
dopo
i
travagli
iniziali.
È in
questa
seconda
fase
che
gli
incubi
e le
passioni
tipici
del
primo
incontro
col
Lager
svaniscono.
Il
processo
descritto
da
Dalla
Volta
riguarda
tutti
i
prigionieri.
Nelle
reazioni
emotive
al
campo
la
discriminante
ufficiali/soldati
–
con
le
congenite
ineguaglianze
di
classe
e
culturali
–
non
ha
gioco.
Al
contrario,
i
processi
psichici
tendono
a
caratterizzarsi
di
diverse
tonalità
quando
sono
esperiti
da
individui
già
gravati
da
una
labe
neuropatica
prima
della
guerra.
In
queste
evenienze,
a
mutare
è
l’intensità
delle
reazioni.
Il
tasso
di
aggressività
ed
eccitabilità
degli
individui
è
maggiore;
la
sensazione
di
naufragio
del
Sé e
di
perdita
del
proprio
mondo
più
lancinante;
ed
il
passaggio
dal
primo
al
secondo
stadio
si
realizza
senza
quella
gradualità
accertata
da
Dalla
Volta
tra
i
prigionieri
non
predisposti
alla
malattia.
Il
riferimento
al
peso
della
predisposizione
originaria
nel
tracciare
i
percorsi
individuali
dell’adattamento
– in
sintonia,
per
altro,
col
mainstream
della
medicina
delle
alienazioni
mentali
-
ritorna
con
emblematica
regolarità
anche
nel
discorso
che
caratterizza
come
originale
il
testo.
Quello
sulla
sessualità.
Dalla
Volta
dedica
alla
questione
uno
spazio
per
la
stessa
letteratura
scientifica
sorprendente.
Indizio
questo
sia
del
coraggio
e
delle
scelte
anticonformiste
dell’autore;
sia,
a
maggior
ragione,
della
centralità
che
tale
discorso
riveste
ai
suoi
occhi
nell’economia
dell’analisi
del
fenomeno.
L’obiettivo
dichiarato
è
quello
di
abbozzare
i
caratteri
della
vita
sessuale
dei
prigionieri,
comprensiva
dei
suoi
pervertimenti,
prendendo
a
campione
un
noto
esempio.
Come
prima
aveva
ancorato
la
propria
analisi
alla
scolastica
psichiatrica,
ora
sceglie
di
collocare
l’investigazione
all’ombra
della
Psychopathia
sexualis
di
Richard
Krafft-Ebing
(1886),
un
tomo
a
suo
modo
capace
di
segnare
un’epoca
(Agamben,
1980).
Il
lavoro
dell’alienista
di
Mannheim
è
preso
a
modello
nel
presentarsi
quale
antologia
di
biografie
sessuali
raccolte
dal
medico
dalla
viva
voce
del
paziente.
Ma
Dalla
Volta
va
oltre,
non
limitando
l’investigazione
all’ambito
delle
individualità
recluse.
Galvanizzato
dall’utopia
sociologistica
del
positivismo
ottocentesco,
al
prototipo
krafftiano
imitato
acclude
l’intendimento
di
guardare
apertamente
i
fatti
sessuali
dell’universo
maschile
del
Lager
di
Csòt
come
al
preannuncio
di
una
regressione
degenerativa
collettiva.
Tra
le
rarissime
testimonianze
valide
a
vincere
il
silenzio
steso
sul
tema
anche
dalla
memorialistica
più
disincantata,
in
queste
singolari
pagine
che
intrecciano
sguardo
d’insieme
e
curiosità
per
il
singolo
tipo
psicologico,
la
distanza
di
Dalla
Volta
dalla
retorica
combattentistica
si
fa
siderale.
Dopo
aver
ricordato
allo
smemorato
pubblico
accademico
come
la
prigionia
abbia
comportato
stenti
non
minori
della
vita
di
trincea,
nelle
debolezze
e
nei
cedimenti
dello
specchio
deformante
della
vita
sessuale,
Dalla
Volta
ritrae
l’ostaggio
in
tutta
la
sua
fragilità
al
cospetto
dei
dispositivi
disumanizzanti
del
Lager.
I
fatti
sessuali
da
ricordare
sono
essenzialmente
tre,
sintetizza.
Prima
di
tutto,
il
generale
disinteressamento
per
le
“finalità
genetiche
dell’amore”
a
favore
della
“libidine
più
cieca”.
Quindi
la
coazione
alle
pratiche
masturbatorie,
con
una
una
sorta
di
contagio
compulsivo-ossessivo
che
risparmia
pochi.
Da
ultimo,
la
diffusione
dell’omosessualità,
sia
come
pederastia,
sia
come
travestitismo.
Netta
è la
condanna
di
Dalla
Volta
dell’omosessualità
e
dell’omoerotismo.
I
timidi
accenti
psicoanalitici
che
qua
e là
possono
rinvenirsi
nel
testo
–
non
si
può
escludere,
a
priori,
che
il
prigioniero
Dalla
Volta
da
Csòt
non
abbia
avuto
ragguagli
del
V
Congresso
Internazionale
di
Psicoanalisi
di
Budapest
(1918)
(Freud,
1976)
–
sono
lungi
dal
divenire
criteri
sistematici
di
giudizio.
La
condanna
è
sia
morale
sia,
in
accordo
col
più
aggiornato
e
condiviso
sapere
medico,
scientifica.
Masturbazione
e
omosessualità
sono
comportamenti
devianti,
connaturati
ad
individui
degenerati
biopsicologicamente,
figli
di
famiglie
tarate.
Tuttavia,
per
quanto
postosi
al
riparo
dalle
critiche
con
l’adozione
di
tradizionali
cliché,
lo
sguardo
di
Dalla
Volta
è
troppo
vigile
per
non
intuire
come
sia
lo
stesso
universo
concentrazionario,
con
l’impedire
l’estrinsecazione
dell’ordinaria
sessualità,
ad
avviare
i
processi
di
decomposizione
del
ruolo
virile,
incentivando
al
contrario
dinamiche
di
femminilizzazione
delle
quali
omosessualità
e
travestitismo
sono
le
espressioni
esteriori
più
evidenti.
La
vitalità
omoerotica
dei
prigionieri
è
una
delle
«formule
dominanti»
la
psicologia
del
combattente
imprigionato,
svolgendo
una
funzione
compensatoria
del
suo
bisogno
di
controbilanciare,
abreandole,
le
luttuose
angosce
sofferte
quotidianamente.
D’altro
canto,
il
timore
di
divenire
impotenti
per
il
“mancato
esercizio
della
funzione”,
prosegue
Dalla
Volta,
è un
tormento
generalizzato
tra
i
prigionieri
giovani
e
meno
giovani,
al
punto
che
questa
castrazione
insieme
simbolica
e
reale
assume
nei
predisposti
a
soccombere
nella
lotta
per
la
vita
la
forma
di
una
sindrome
nevrotico-ossessiva.
La
“mancanza
della
donna”,
conclude,
risulta
esser
ancora
più
traumatica
poiché
segue
un
periodo
di
aperta
licenziosità.
Quello
coincidente
con
la
chiamata
alle
armi
dei
cittadini,
quando
un
certo
alone
romantico
insito
nella
figura
del
guerriero,
e la
tradizione
goliardica
che
accompagna
l’avvenimento
proiettando
i
coscritti
in
una
sorta
di
zona
franca
legale
e
morale,
hanno
allentato
le
usuali
inibizioni
di
giovani
morigerati
e
austeri
padri
di
famiglia.
Le
originali
pagine
sulla
sessualità
dei
reclusi
–
qui
solo
accennate
-
non
sono
comunque
le
uniche
del
memoriale
Dalla
Volta
a
presentare
osservazioni
degne
di
rilievo
per
gli
studiosi
del
conflitto
e
gli
storici
della
scienza.
Dopo
aver
detto
del
potere
della
segregazione
di
plasmare
la
personalità
della
vittima,
di
guastarla
moralmente,
di
eroderne
le
facoltà
psichiche,
Dalla
Volta
sposta
il
mirino
analitico
prima
sullo
sconcertante
rapporto
instaurato
da
questi
col
persecutore,
quindi
cerca
di
contemplare
tale
peculiare
relazione
alla
luce
delle
modificazioni
occorse
nella
psicologia
dell’internato.
“Uno
dei
lati
più
enigmatici
della
psicologia
di
questi
sventurati
[i
detenuti]
-
scrive
- si
riferisce
ai
rapporti
con
i
loro
persecutori.
Candidati
alla
morte
per
esaurimento
organico
gravissimo
(…)
condotti
in
lunghe
teorie
ai
lavori
più
improbi
da
un
energumeno
vestito
da
caporale,
nel
lavoro
sembravano
talvolta
dare
fino
all’estremo
limite
quanto
potevano,
benché
retribuiti
col
bastone
e
col
digiuno.
Credo
che
qualsiasi
spirito
che
avesse
avuto
la
ventura
di
conservarsi
lucido
fra
lo
sfacelo
della
sua
compagine
affamata,
ascoltando
una
voce
estrema
di
ribellione,
avrebbe
sacrificato
senza
esitare
una
vita
ormai
ipotecata
senza
speranza
di
riscatto,
pure
di
tentare
una
cieca
rivolta.
Al
contrario
i
poveri
nostri
soldati
si
mantenevano
stranamente
adoratori
indefessi
di
una
divinità
sanguinaria
che
aguzzava,
dinanzi
all’omaggio,
i
suoi
strumenti
di
tortura”.
Tre
decenni
prima
che
lo
scrittore
e
politico
franco-martinicano
Aimé
Cesaire
(1913-2008)
riscontri,
semplicisticamente,
la
specificità
dell’orrore
dei
campi
della
morte
della
Seconda
guerra
mondiale
nell’utilizzo
contro
i
cittadini
europei
di
forme
di
violenza
concepibili
esclusivamente
per
i
sudditi
neri
delle
colonie
(Césaire,
1989),
Amedeo
Dalla
Volta
valuta
la
psicologia
dei
carcerieri
evocare
direttamente
«quella
dell’uomo
bianco
d’altri
tempi
verso
gli
uomini
di
colore».
Per
i
sorveglianti
“il
prigioniero
lacero
ed
affamato
finiva
per
essere
considerato
un
essere
da
sfruttarsi
senza
misericordia,
più
prossimo
al
bruto
che
all’uomo.
(…)
Coloro
che
da
lungo
tempo
erano
addetti
ai
Lager
per
soldati
venivano
caricando
in
una
maniera
impressionante
il
tono
crudele
delle
loro
maniera:
ed è
veramente
a
stento
concepibile
ciò
che
fu
da
noi
e da
molti
altri
osservato,
come
da
molti
prima
miti
e
gentili,
a
lungo
andare,
per
un
effetto
tremendo
del
contatto
con
masse
giunte
all’estremo
limite
dell’abiezione,
divenissero
di
una
tempra
bestiale:
né
sembravano
convinti
che
i
segni
progressivi
di
degradazione
che
contrassegnavano
quegli
spettri
cenciosi,
per
una
sorta
di
circolo
vizioso,
si
alimentavano
dai
loro
maltrattamenti”.
Un
circolo
vizioso,
un
processo
speculare
che
avviluppando
persecutore
e
vittima,
si
auto-rigenera
in
un
crescendo
sequenziale
di
violenza
e
nell’estendersi
della
sofferenza.
A
questo
stadio
della
disamina
Dalla
Volta
abbandona
ogni
circospezione,
per
denunciare
il
Lager
come
terra
di
nessuno
della
civiltà,
il
regno
dell’abbrutimento
capace
di
annichilire
qualsiasi
legame
di
patriottica
o
cameratesca
solidarietà.
“Per
amore
della
verità
– è
forzato
ad
appuntare
-
bisogna
aggiungere
che
alcuni
di
quei
soldati
italiani
e
più
spesso
sott’ufficiali,
che
erano
riusciti
a
procurarsi
qualche
posto
di
favore
nella
Kanzlei
del
Lager
e
che
da
custodi
divenivano
ministri
dei
custodi,
pasciuti
più
che
a
sufficienza
(a
scapito
della
massa)
dal
nemico
che
servivano
troppo
fedelmente,
per
nulla
venivano
a
cedere
in
crudeltà
e
nello
spirito
di
sfruttamento
ai
loro
nemici”.
Ma
non
solo
il
cameratismo
o
l’amicizia
deflettono
nel
Lager
sotto
l’urto
dirompente
dei
processi
spersonalizzanti.
Anche
il
più
genuino
sentimento
religioso
ne è
prima
scosso
e
poi
corroso.
Così
come
la
progressiva
atarassia
emozionale
del
recluso
non
risparmia
neppure
i
congiunti
più
intimi.
I
“sentimenti
altruistici
apparivano
presso
che
ammutoliti
anche
nella
cerchia
degli
affetti
familiari”
osserva
Dalla
Volta,
e
“perfino
le
lettere
della
moglie,
dei
figli,
dei
genitori,
della
fidanzata,
erano
talvolta
stracciate
avanti
di
essere
lette”.
Le
malcelate
esplosioni
di
rabbia
che
ciclicamente
scuotono
le
baracche
non
sembrano
in
grado
di
smuovere
lo
stato
psichico
di
stordimento
e
d’impotenza
entro
cui
l’internato
è
precipitato
nella
seconda
fase
dell’adattamento
al
campo.
All’apatia,
dalle
diverse
sfumature,
si
abbina
inoltre
una
sensazione
di
abbandono
che
ha
la
manifestazione
principale
nella
disposizione
a
colpevolizzare
chi
è in
salvo
oltre
il
perimetro
escludente
del
reticolato
per
una
detenzione
percepita
come
ingiustificata,
cagione
di
una
perdita
– i
migliori
anni
della
gioventù
-
che
nulla
potrà
restituire
all’internato.
Di
fronte
all’accelerato
dissolvimento
della
continuità
storica
e
personale
degli
individui,
dissolvimento
che
indaga
ed
esperisce,
ancora
una
volta
il
giovane
scienziato
mantovano
non
si
limita
alla
descrizione.
Spinge
bensì
lo
sguardo
avanti,
inseguendo
una
comprensione
complessiva
del
fenomeno
che,
senza
subire
l’impaccio
delle
varianti
individuali,
formula
nei
termini
della
ratio
antropologico-positivista,
e
attraverso
le
tassonomie
care
a
Lombroso
e Le
Bon.
Nomenclature,
come
vedremo,
tutt’altro
che
anacronistiche.
Per
Dalla
Volta
il
Lager
diviene
intelligibile
come
atavismo
collettivo,
una
parentesi
insieme
spaziale
e
temporale
nel
corso
della
storia
dell’Uomo.
Propriamente,
il
rinascere
nel
presente
di
forme
fluide
di
vita
primitive
col
loro
carico
di
arcaica
violenza
ed
istintualità.
Un
buco
nero
della
civiltà,
dove
un
distruttivo
raziocinio
relazionale
prende
corpo,
alimentandosi
del
sopruso
incoraggiato,
e
plasmando
eticamente
al
ribasso
vittime
e
sentinelle
sullo
sfondo
del
riaffiorare
della
“lotta
primordiale
per
l’esistenza”
nel
limitato
proscenio
marcato
dal
filo
spinato
e
dalle
torrette
di
guardia.
Insensati
abbagli
di
un
giovane
studioso
acculturatosi
al
verbo
di
un
positivismo
perdente
e
frettolosamente
condannato
alla
damnatio
memoriae
dai
suo
detrattori?
Può
essere
utile
contestualizzare
la
deduzione
dallavoltiana
citando
quanto
Sigmund
Freud,
in
quegli
stessi
anni,
benché
in
un
quadro
epistemologico
difforme,
va
elaborando.
La
belligeranza,
annuncia
nelle
Considerazioni
attuali
sulla
guerra
e la
morte
del
1915,
“elimina
le
successive
sedimentazioni
depositate
in
noi
dalla
civiltà
e
lascia
riapparire
l’uomo
primitivo
(…)
L’essenza
della
malattia
mentale
risiede
in
un
ritorno
a
condizioni
interiori
di
vita
affettiva
e di
funzionamento
psichico
(…)
ogni
fase
evolutiva
precedente
continua
a
sussistere
accanto
alla
fase
successiva
a
cui
ha
dato
luogo:
la
successione
comporta
anche
una
coesistenza
(…)
l’uomo
preistorico
continua
a
vivere
inalterato
nel
nostro
inconscio”.
In
ogni
caso,
al
di
là
delle
dimenticate
affinità
elettive
tra
indirizzi
scientifici
concorrenti,
dei
quali
uno
oggi
in
auge
e
l’altro
ridicolizzato,
il
duello
col
primitivo
di
ritorno
non
è
destinato
a
chiudersi
per
forza
con
l’annichilimento
dell’uomo
civile,
sostiene
Dalla
Volta.
Anche
nelle
tenebre
dell’esperimento-Lager,
non
tutto
è
perduto,
ed
il
pessimismo
della
conoscenza
non
si
trasforma
in
una
resa
della
volontà.
Contro
le
leggi
ed i
rituali
che
regolano
il
Lager,
isolando
l’uomo
affettivamente
e
avvilendolo
al
suo
grado
zero
del
bisogno,
la
psicologia
etnica
e la
legge
di
simbiosi
sono
le
chiavi
di
volta
di
una
resistenza
che
soccorre
l’uomo
recluso
(suscitando
l’attenzione
dello
studioso).
L’àncora
di
salvataggio,
scrive
Dalla
Volta,
può
giungere
mediante
due
soluzioni.
O,
come
nel
caso
degli
Ebrei
–
numerosi
negli
eserciti
zarista
e
romeno
–
dalla
fraterna
solidarietà
rinsaldata
“da
una
lunga
scuola
di
persecuzioni”,
valorizzata
come
legame-scudo
per
attraversare
parzialmente
indenni
i
meccanismi
distruttivi
del
campo;
oppure,
per
i
popoli
posti
sui
gradini
inferiori
della
scala
della
civiltà,
rovesciando
l’incompletezza
biopsicologica
in
un
salvacondotto.
“Orbene”,
annota
al
proposito
Dalla
Volta
volgendo
alla
conclusione
con
un
ricercato
paradosso
che
non
tiene
a
bada
le
antiche
ed
insolute
ambiguità
del
positivismo
medico
(Malocchi,
1999),
le
“razze
più
basse
nella
scala
della
evoluzione
umana,
cresciute
dalla
nascita
fra
i
grovigli
di
una
vita
di
stenti,
sapevano
arginare
e
raffrenare
le
correnti
istintive
esuberanti
utilizzandole
a
munire
le
difese,
(…).
La
civiltà
che
attraverso
le
forze
molteplici
e
diverse
di
una
collettività
ha
potuto
produrre
valori
altissimi
in
tutti
i
rami
delle
attività
umane,
ha
reso
fatalmente
incompleto
l’individuo
quando
si
trovi
solo
a
competere
nelle
forme
primordiali
della
concorrenza
vitale”.
Alcune
considerazioni
conclusive
e
suggerimenti
di
ricerca.
“Comprendere
le
finalità
psicologiche
e la
vasta
portata
di
questo
moderno
metodo
di
coercizione
totale,
che
abbraccia
il
corpo
come
la
mente,
e
induce
o
costringe
l’individuo
a
modificare
certi
aspetti
della
sua
personalità”
(Bettelheim):
l’intenzione,
assurta
a
necessità,
espressa
dall’ex
deportato
Bruno
Bettelheim
nel
saggio
I
campi
di
concentramento
nazisti,
anima
indubbiamente
le
riflessioni
di
Viktor
Frankl
e
Alessandro
Dalla
Volta.
Autori
apparentati
dall’esigenza
di
decifrare
il
fenomeno
dell’orrore
concentrazionario
sia
come
oggetto
di
analisi
scientifica
sulla
scorta
della
propria
formazione
culturale;
sia
come
esperienza
empirico-identitaria
che
se
diverrà
fondante
in
Frankl,
sarà
invece
progressivamente
rimossa
da
Dalla
Volta
con
i
primi
anni
’20
(Dalla
Volta,
1920).
Naturalmente,
le
esperienze
dei
due
autori
possono
trovare
una
proficua
comparazione
solo
se
non
si
prescinde
da
una
corretta
valutazione
dei
diversi
contesti
storici
in
cui
si
trovano
a
meditare:
il
mondo
crematorio
per
lo
psichiatra
viennese,
i
campi
per
prigionieri
di
guerra
del
primo
conflitto
mondiale
per
lo
psicologo
mantovano
È
chiaro,
come
i
loro
affreschi
mostrano,
che
siamo
al
cospetto
di
Lager
dove
l’apriori
del
grado
d’intenzionalità
dell’annientamento,
ed
il
tasso
di
violenza
pianificata
non
sono
affatto
comparabili.
Consapevoli
nel
primo
caso,
violenza
e
orrore
programmato
sono
quasi
un
esito
automatico
dell’impreparazione
austriaca,
del
tracollo
improvviso
e
delle
difficoltà
di
gestione
di
un’intera
armata
italiana
caduta
prigioniera
dopo
Caporetto
nel
secondo;
anche
se
le
penetranti
riflessioni
di
Dalla
Volta
sulla
violenza
rivelano
come,
nell’ambiente
artificiale
di
Csòt,
il
perpetuarsi
dell’orrore
a
partire
dall’abbrutimento
simmetrico
di
internati
e
guardiani
si
verifichi
per
un
processo
motivante
apparentemente
autonomo
rispetto
alle
volontà
degli
uomini.
Alla
ricerca
di
forme
esplicative
adeguate,
entrambi
gli
autori
optano
per
un
modello
bifasico
– a
differenza
di
quanto
farà
il
già
citato
Bettelheim
preferendo
un
approccio
a
quattro
stadi.
Oltre
le
differenti
presupposizioni
teoriche,
i
due
modelli
mostrano
sorprendenti
affinità.
La
fase
eretistica
di
Dalla
Volta
corrisponde
allo
stato
traumatico
di
Frankl;
la
sfaccettata
morte
intima
del
prigioniero
narrata
da
quest’ultimo,
si
sovrappone
alla
tappa
della
radicale
apatia
delineata
dal
primo.
Concordanze
vi
sono
su
altri
tre
piani.
Sull’esistenza
di
un
confine
psicologico
di
non
ritorno
oltre
il
quale
la
vittima
è
irrimediabilmente
dannata:
i
musulmänner
di
Frankl,
seppur
non
nominalmente
richiamati,
si
aggirano
come
fantasmi
già
tra
le
pagine
di
Dalla
Volta;
nella
valutazione
complessiva
dell’azione
collassante
delle
funzioni
integrative
dell’Io
del
Lager;
e
nel
rigetto
di
attenzione
per
le
dimensioni
intrapsichiche.
Per
entrambi,
come
già
lo
stato
guerra
(Eibl-Eibesfeldt,
1990)
ma
con
intensità
maggiori,
il
campo
obbliga
la
vittima
ad
introiettare
un
repertorio
di
movimenti
funzionali
alla
pura
sopravvivenza
in
quanto
risposta
alle
tremende
condizioni
ambientali.
Questo
nuovo
corredo
comportamentale
non
si
sedimenta
però,
come
nel
caso
dei
soldati
in
trincea,
sopra
precedenti
moduli
culturali
in
forme
temporanee
e
comunque
reversibili
(Scartabellati,
2001).
Quel
bagaglio
di
esperienze
tradizionali
strutturato
dalle
generazioni
attraverso
la
storia,
sorta
di
scheletro
che
infonde
sicurezza
e
“ci
libera
dall’obbligo
di
cercare
da
soli
soluzione
ad
ogni
problema
e di
chiederci
continuamente
quale
sia
il
comportamento
più
conveniente
in
ogni
circostanza”
(Eibl-Eibesfeldt),
è
semplicemente
quanto
repentinamente
azzerato
dalla
quotidianità
indicibile
del
Lager.
Non
solo
la
precedente
integrazione
raggiunta
dal
soggetto
individualmente
e
collettivamente
è
disintegrata,
ma
nelle
condizioni
del
campo
quanto
fino
a
quel
momento
l’ha
orientato
nella
vita
– si
pensi
all’altruismo
-
minaccia
di
diventare
un
ostacolo
alla
sopravvivenza
(Bettelheim).
Sotto
questa
luce
alcune
conclusioni
di
Frankl
e
Dalla
Volta
perdono
i
loro
contorni
sfumati
per
assumere
il
volto
di
un’inconfondibile
materialità.
Comprensibile
diviene
l’esperienza
del
Lager
come
ritorno
al
primitivo
–
all’individuo
senza
storia
– e
come
Zenith
della
solitudine
umana
contingente
e
cosmica;
come
non
meno
fondato,
alla
lente
della
disposizione
all’apprendimento
delle
vittime
delle
leggi
del
terrore
agonistico
in
funzione
della
sopravvivenza,
diviene
la
valutazione
secondo
la
quale
i
migliori
dal
Lager
non
sono
tornati.
Incapaci
di
far
propria
per
sensibilità
o
scelta
la
grammatica
della
distruzione,
essi
si
sono
smarriti
per
primi
nel
buco
nero
del
campo
(Bettelheim).
Sorprendenti
le
somiglianze,
non
meno
accentuate
le
differenze.
Per
Frankl,
liquidando
il
tema
con
una
riga,
il
Lager
mette
a
tacere
l’istinto
sessuale.
Per
Dalla
Volta,
al
contrario,
i
fatti
sessuali
hanno
una
rilevanza
cruciale
nel
definire
il
comportamento
degli
internati.
Lo
psicologo
mantovano
sembra
intuire
che,
come
già
nelle
trincee,
per
i
prigionieri
di
guerra
non
è
inusuale
doversi
aggrappare
“a
rapporti
affettivi
che
erano
al
tempo
stesso
paterni
(ossia
gerarchici
e in
grado
di
conferire
potere)
e
materni
(che
davano
ispirazione
e
conforto)”
(Bourke,
2003).
Per
l’intellettuale
viennese
l’interesse
politico
e,
soprattutto,
il
sentimento
religioso
sono
l’ultima
corazza
morale
che
permane
al
prigioniero
nutrendone
la
resistenza.
Per
Dalla
Volta
nulla
di
tutto
questo
resta
in
piedi
sotto
la
pressione
dei
meccanismi
spersonalizzanti
del
campo.
Anzi,
se
il
sentimento
di
rivalsa
socio-politico
maturato
dai
prigionieri
è
liquidato
come
sintomo
di
un
disturbo
mentale
che
contagiando
l’intera
Europa
la
sta
per
gettare
nel
baratro
del
comunismo,
da
positivista
ferrato
esclude
che
la
religiosità
possa
giocare
un
ruolo
in
dinamiche
esclusivamente
inerenti
l’ambito
somato-psichico.
Nelle
differenti
valutazioni
un
fattore
decisivo
risulta
essere
la
diversa
formazione
culturale,
ed
in
particolare
la
diversa
percezione
del
progresso
come
avanzamento
continuo
e
unilineare
dell’umanità.
Per
entrambi,
un
avvenimento
storico
come
quello
dei
campi
“portava
fino
all’assurdo
l’assunzione
fondamentale
secondo
cui
le
società
progrediscono
sempre
verso
un
più
alto
grado
di
civilizzazione”
(Welzer).
Ma
mentre
l’addestramento
psicoanalitico
di
Frankl
lo
prepara
ad
affrontare
l’imbarbarimento
dell’uomo,
e lo
sprona,
con
l’ideazione
logoterapeutica
pure,
a
formulare
proposte
correttive
di
tali
involuzioni,
il
confronto
di
Dalla
Volta
con
gli
aspetti
distruttivi
della
civilizzazione
rischia
di
far
letteralmente
naufragare
uno
dei
capisaldi
teorici
di
quel
positivismo
scientifico
a
cui
s’è
votato
e
che
la
sua
analisi
vuole
convalidare.
D’altro
canto,
paradossalmente,
l’incertezza
o la
vetustà
di
cui
sono
ammantate
alcune
posizioni
teoriche
del
giovane
ufficiale
italiano
sono
in
diretto
collegamento
con
la
sua
natura
di
scienziato
pioniere.
Quando
a
Csòt
redige
gli
Studi,
da
semplice
studente
di
medicina,
di
fatto
né
il
pensiero
psichiatrico
né
quello
psicologico
–
quello
psicoanalitico
è
ancora
lungi
dall’influenzare
i
circoli
culturali
nazionali
–
hanno
ancora
elaborato
schemi
concettuali
di
riferimento
per
trattare
questioni
quale
quella
delle
trasformazioni
molecolari
degli
uomini
in
condizioni
estreme.
Resta,
avviandomi
alla
conclusione,
un
ultimo
argomento
da
trattare.
Quello
delle
indicazioni
di
ricerca
che
dai
memoriali
dei
due
intellettuali
possiamo
trarre
per
pervenire
ad
una
più
accurata
comprensione
del
“ruolo
fondamentale
svol[to]
nei
regimi
totalitari
[dal]
campo
di
concentramento
(o
[dal]
carcere)
come
strumento
di
controllo
sociale,
e
come
esso
sia
fondamentale
per
plasmare
la
personalità
individuale
secondo
il
modello
richiesto
da
quel
tipo
di
società”
(Bettelheim).
Indicazioni
euristiche
generali
che
mi
limiterò
a
riassumere
in
tre
proposte.
Punto
primo:
ancora
tutta
da
sviscerare
è
l’effettiva
efficacia
dei
cosiddetti
coping
behavior
nel
conservare
prima
l’equilibrio
psicologico
e,
quindi,
l’integrità
fisica
delle
vittime.
S’è
accennato
in
nota
alla
visione
negativa
di
Bettelheim
al
proposito,
solo
in
parte
rivista
successivamente.
Valutazioni
diverse
lasciano
intendere
gli
studi
di
Terence
Des
Pres,
The
survivor.
An
anatomy
of
life
in
the
death
camps
(1976),
il
pionieristico
lavoro
di
Joel
E.
Dimsdale
del
1974
The
Coping
Behavior
of
Nazi
Concentration
Camp
Survivors
(1974),
e
l’agile
riflessione
di
Andea
Devoto
Il
comportamento
umano
in
condizioni
estreme.
Lo
psicologo
sociale
e il
lager
nazista
(1985).
Lo
stesso
Frankl,
come
sottolinea
l’interpretazione
di
Allport,
sembra
suggerire
la
possibilità
di
una
parte
estremamente
attiva
del
prigioniero
nello
scampare
la
morte,
anche
se
più
correttamente
credo
che
il
segreto
della
sopravvivenza
indicato
da
Frankl
riguardi
non
il
prigioniero
nel
campo,
bensì
il
ritorno
alla
vita
della
vittima
una
volta
ritrovata
la
libertà.
Punto
secondo:
un
percorso
analitico
finora
completamente
trascurato,
fa
riferimento
al
primitivo,
alle
sue
visioni
e al
ruolo
assegnatogli,
pur
nei
diversi
contesti
teorico-concettuali,
dagli
scienziati
del
comportamento
tra
‘800
e
‘900.
Il
richiamo,
per
interposta
persona
in
Frankl
e
fondante
in
Dalla
Volta,
al
primitivo
come
pass-partout
interpretativo,
impone
agli
storici
della
scienza
il
compito
di
fare
i
conti
con
le
segrete
consonanze
di
impostazioni
teoriche
antagoniste.
Come
l’antropologia
culturale
da
anni
ha
già
fatto
(Fabietti,
1977),
l’analisi
dovrebbe
quanto
meno
abbracciare
un
repertorio
di
testi
e
autori
che
da
Morel
si
spinga
fino
all’ultimo
Freud,
passando
per
Le
Bon
e
Lombroso.
Al
riguardo,
l’esemplare
saggio
di
Jarkko
Jalava,
The
Modern
Degenerate.
Nineteenth-century
Degeneration
Theory
and
Modern
Psychopathy
Research
(2006),
potrebbe
essere
un
felice
contributo
da
prendere
a
modello.
Infine
e
brevemente,
una
terza
pista
di
ricerca
invita
a
non
esaurire
l’attenzione
analitica
solo
sulle
complicazioni
distruttive
e
traumatizzanti
del
Lager,
ma
di
riconsiderare
questi
stessi
effetti
tra
alcuni
dei
sopravvissuti,
come
il
combustibile
di
una
crescita
personale,
di
un
arricchimento
nonostante
tutto.
Anche
su
questa
materia
la
storiografia
ha
indugiato,
e i
risultati
apprezzabili
non
si
discostano
sostanzialmente
da
quelli
proposti
dall’intervento
dello
psichiatra
e
sopravvissuto
Leo
Eitinger
nel
1975.
Non
molto
altro
è
stato
scritto
con
sensibilità
storica;
o,
almeno,
non
molto
altro
che
sapesse
uscire
dalle
secche
del
tecnicismo
utile
agli
specialisti
dei
reparti
sanitari
(Aa.Vv.,
2005).
Che
il
campo
di
concentramento
abbia
comportato
per
alcuni
anche
un
post-traumatic
growth
è un
altro
di
quegli
amari
paradossi
di
cui
la
ricerca
storica
deve
prendere
atto.
Del
resto,
le
vicende
umane
e
soprattutto
intellettuali
di
Bruno
Bettelheim
e
Primo
Levi
pur
nel
funesto
comune
epilogo,
quella
di
Viktor
Frankl,
ed
in
forme
differenti
quella
di
Alessandro
Dalla
Volta,
dimostrano
come
anche
dall’inconcepibile
distruzione
fattasi
realtà
quotidiana
nel
Lager
sia
doveroso
trarre
insegnamenti
e
segnali
di
speranza
per
l’avvenire
da
trasmettere
alle
più
giovani
generazioni.
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naturalista
e
filosofo,
fu
uno
dei
principali
esponenti
del
darwinismo
tedesco,
che
rivide
alla
luce
della
filosofia
della
natura
di
Goethe.
Influenzò
in
profondità
il
positivismo
italiano,
in
particolare
con
la
cosiddetta
legge
biologica
fondamentale.
Questa,
integrando
la
legge
dell’evoluzione
di
Darwin,
affermava
che
l’ontogenesi
–
cioè
lo
sviluppo
individuale
degli
embrioni
– è
una
ricapitolazione
abbreviata
e
incompleta
della
filogenesi
-
cioè
dello
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evolutivo
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specie.
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p.126:
“nei
campi
di
concentramento,
non
lo
si
sottolineerà
mai
abbastanza,
la
sopravvivenza
dipendeva
soprattutto
dalla
fortuna:
per
poter
essere
in
grado
di
sopravvivere,
bisognava
innanzi
tutto
scampare
alla
morte,
non
essere
uccisi
dalle
SS.
Niente
che
uno
potesse
fare
garantiva
la
sopravvivenza
(…)”.
Bettelheim
B.,
Autonomia
e
alienazione
[1968],
in
Sopravvivere,
op.
cit.,
pp.
297-314.
Bettelheim
B.,
Comportamento
di
massa
e
individuale
in
situazioni
estreme
[1943],
in
Sopravvivere,
op.
cit.,
p.
67.
Bettelheim
B.,
Comportamento
individuale
e di
massa
in
situazioni
estreme,
in
Sopravvivere,
op.
cit.,
pp.
66-67.
Bettelheim
B.,
Esperienze
traumatiche
e
reintegrazione,
in
Sopravvivere,
op.
cit.,
p.
39.
Bettelheim
B.,
I
campi
di
concentramento
nazisti,
in
Sopravvivere,
op.
cit.,
pp.
56-57.
Bettelheim
B.,
Il
limite
ultimo
[1968],
in
Sopravvivere,
op.
cit.,
p.
25 e
p.
26:
“Ci
troviamo
in
una
situazione
estrema
quando
veniamo
improvvisamente
catapultati
in
un
insieme
di
condizioni
in
cui
i
meccanismi
di
adattamento
e i
valori
di
un
tempo
non
sono
più
validi,
e
anzi
alcuni
di
essi
possono
addirittura
mettere
in
pericolo
la
vita
che
avevano
lo
scopo
di
proteggere.
Siamo
allora,
per
così
dire,
spogliati
di
tutto
il
nostro
sistema
difensivo
e
scaraventati
sul
fondo,
e
per
risalire
dobbiamo
costruirci
un
nuovo
insieme
di
comportamenti,
valori
e
modi
di
vivere
adatti
alla
nuova
situazione”.
Bettelheim
B.,
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Bettelheim
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Amedeo
Dalla
Volta
ottiene
a
guerra
conclusa
(1945)
il
reintegro
nei
ruoli
accademici
dell’Università
di
Genova,
assumendo
la
cattedra
di
Psicologia
presso
l’Istituto
Gianna
Gaslini.
Nel
1953,
finanziato
dal
programma
Fulbright,
soggiorna
per
motivi
di
ricerca
presso
la
Facoltà
di
Antropologia
di
Tucson,
in
Arizona
(USA).
Qui
porta
a
compimento
alcune
indagini
psicologiche,
entrando
in
contatto
con
il
popolo
Hopi
e
sottoponendo
i
fanciulli
a
test
attitudinali
già
sperimentati,
negli
anni
‘30,
con
i
bambini
genovesi.
Oltre
all’attività
di
studio,
raccoglie
tutta
una
serie
di
quadri
ed
oggetti
che,
esposti
per
la
prima
volta
nel
1953,
compongono
oggi
la
collezione
Dalla
Volta-Finzi
conservata
presso
il
Museo
delle
Culture
del
Mondo-Castello
d’Albertis
di
Genova.
Nel
1961
Dalla
Volta
pubblica
la
sua
seconda
fondamentale
opera
dopo
il
Trattato
di
medicina
legale
del
1933-38:
il
Dizionario
di
Psicologia,
che
raggiuge
presto
la
terza
edizione.
Decorato
della
Medaglia
d’Oro
dei
Benemeriti
della
Scuola,
della
Cultura
e
dell’Arte,
e
insignito
con
l’Ordine
di
Grande
Ufficiale
al
Merito
della
Repubblica,
muore
a
Genova
il
25
ottobre
1985.
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Dal
1946
Frankl
è
primario
del
Policlinico
neurologico
di
Vienna,
ruolo
che
conserva
per
25
anni.
Dalla
metà
degli
anni
’50
le
università
di
Londra,
Buenos
Aires
e
dell’Olanda
lo
invitano
a
tenere
delle
conferenze.
Negli
Stati
Uniti
lo
psicologo
Gordon
Allport
si
mobilita
per
lui,
e
favorisce
la
traduzione
dei
suoi
libri.
Docente
invitato
all'Università
di
Harvard
(1961),
è
oramai
un
intellettuale
riconosciuto
e
noto
internazionalmente,
mentre
le
sue
numerose
pubblicazioni
ottengono
successo
ed
attenzione
in
tutto
il
mondo.
Viktor
Frankl
muore
il
02
settembre
1997
nella
sua
città
natale,
dove
riposa
nel
vecchio
settore
ebraico
del
Zentralfriedhof.
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Logoterapia:
“Metodo
psicoterapico
introdotto
da
V.E.
Frankl
che
non
si
rivolge
tanto
ai
conflitti
istintuali,
quanto
alle
dimensioni
psico-noetiche
che
sono
alla
base
dell’apparato
motivante
la
personalità,
affinché
questa
possa
ritrovare
il
senso
della
sua
esistenza
facendo
emergere
le
possibilità
rimaste
fino
allora
inattive”.
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pagine
35 e
36.
Nell’Introduzione,
il
traduttore
ricorda
di
aver
conosciuto
l’opera
di
Vischer
da
un
riassunto
pubblicato
nell’“Arbeiter
Zeitung”
quando
si
trovava,
come
prigioniero
di
guerra
da
oltre
due
anni
e
mezzo,
nel
campo
di
Sigmundsherberg.
Date
le
imprecisioni
che
avvolgono
la
figura
di
Vischer
soprattutto
in
Italia,
aggiungo
una
breve
nota
biografica.
Adolf
Lukas
Vischer
nasce
il
31
dicembre
1884
a
Basilea.
Nell’università
locale
completa
gli
studi
in
medicina,
trascorrendo
un
semestre
di
specializzazione
a
Monaco
di
Baviera
sotto
la
guida
di
Walter
von
Wyss.
Avvia
la
carriera
nella
clinica
di
Basilea
come
chirurgo
assistente
del
prof.
Fritz
de
Quervain,
svolgendo
pure
un
proficuo
tirocinio
presso
l’ospedale
londinese
di
San
Bartolomeo.
Nell’autunno
del
1912,
con
i
colleghi
Christoph
Socin
e
Eduard
Stierlin,
compone
una
delegazione
svizzera
inviata
per
oltre
10
settimane
sul
teatro
di
guerra
serbo-turco.
Presta
la
propria
opera
prima
nel
nosocomio
militare
di
Belgrado,
quindi
sul
campo
di
battaglia
di
Monastir,
infine
a
Durazzo.
Resoconto
dell’esperienza
balcanica
è il
volume
An
der
serbischen
Front
(1913).
Nel
1916,
con
il
dottor
Alfred
Boissier,
in
qualità
di
rappresentante
del
Comitato
Internazionale
della
Croce
Rossa
è
inviato
in
Turchia
per
ispezionare
i
campi
di
prigionia.
Compito
analogo
svolge
nel
1917
dalla
parte
opposta
dello
schieramento
militare.
Incaricato
dal
Dipartimento
politico
federale
elvetico,
raggiunge
l’Inghilterra
(1917)
per
visitarvi
i
campi
d’internamento.
Dall’esperienza
inglese
matura
l’opera
Die
Stacheldrahtkrankheit
(1919),
presto
tradotta
in
italiano
ed
in
inglese.
Rientra
in
patria
nel
1918.
Dopo
una
lunghissima
carriera
professionale,
Adolf
L.
Vischer
muore
a
Basilea
il
13
luglio
1974.
Wehr
G.,
1998,
I
padri
della
psicoanalisi.
Profili,
idee,
destini,
Rusconi,
Milano,
p.
183.
Welzer
Harald,
citato
in
S.
Friedländer,
Aggressore
e
vittima,
op.
cit.,
p.
124.
Ziveri
A.,
1920,
Manuale
di
psichiatria
ad
uso
dei
medici
pratici
e
degli
studenti,
UTET,
Torino.
Zoja
L.,
2009,
Contro
Ismene.
Considerazioni
sulla
violenza,
Bollati
Boringhieri,
Torino,
p.102.