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N. 38 - Febbraio 2011 (LXIX)

Psicologi nel Lager
tra atavismo e ritorno del primitivo - Parte II

di Andrea Scartabellati

 

Nato a Mantova nell’ottobre 1892, studente di medicina presso l’università patavina, allo scoppio delle ostilità Amedeo Dalla Volta è arruolato nel Corpo di Sanità e Chirurgia (giugno 1915) e inviato al fronte con l’ospedaletto da campo n. 0052.

 

Caduto prigioniero degli Austriaci dopo la sconfitta di Caporetto, è inviato ai campi di concentramento ungheresi di Dunaszerdahely (oggi in Slovacchia) e di Csòt bei Papa. Durante la prigionia raccoglie il materiale della tesi di laurea, quegli Studi pubblicati nel 1919 a Firenze nel sostanziale disinteresse dell’accademia italiana.

 

Rimpatriato il 18 novembre 1918, prima del definitivo congedo presta servizio presso il Presidio militare di Bibbiena e l’ospedale per tubercolotici di Villa Rusciano di Firenze. Dopo alcuni soggiorni di perfezionamento a Vienna e a Berlino negli anni ‘20, avvia una brillante carriera universitaria a Padova prima, e Catania poi, dove ricopre il ruolo di gerente del locale fascio universitario. Ebreo, è estromesso dai ruoli docenti in seguito all’approvazione delle leggi razziali nel 1938. Scampato fortunosamente alla Seconda guerra mondiale, nascondendosi nelle campagne mantovane dopo l’08 settembre 1943, riprende dal 1945 la carriera interrotta di professore universitario grazie al fattivo aiuto di padre Agostino Gemelli.

 

Come anticipato nell’introduzione, quella di Dalla Volta è una sorta di precorritrice e frammentaria fenomenologia del Lager e dei suoi abitanti. Il resoconto inusuale di uno scienziato indotto, dai casi della vita bellica, a fare dell’osservazione partecipante coatta ergendosi, contemporaneamente, a soggetto ed oggetto dell’analisi, per trarre conclusioni che, a smentita delle elucubrazioni neoidealiste e neotomiste, volgono a riconfermare la straordinaria vitalità novecentesca della Weltanschauung scientifica e politica positivista.

 

Dotata di un’accuratezza analitica ineguagliata dalla pur più famosa ma posticcia opera di Vischer, la fortuna dello scritto dallavoltiano paga probabilmente lo scotto di una duplice negativa precondizione.

 

Da un lato, la prigionia di guerra, nonostante riguardasse migliaia di soldati, non assume in Italia la fisionomia di un’esperienza-simbolo per l’immaginario collettivo, né interessa i gruppi politici come fattore di mobilitazione politico-culturale. Dall’altro, il realismo descrittivo del testo va al di là di quanto gli stati maggiori militari e accademici sono disposti ad affrontare pubblicamente. Per quanto ingabbiate dal convenzionale linguaggio medico, le pagine dedicate alla sessualità degli internati in particolare, cozzano sia contro la volontà diffusa nel Paese di voltar pagina, sia contro quel mito del virile guerriero italiano, forgiatosi sull’Isonzo e sul Piave, che muove allora i primi passi.

 

In linea con le matrici culturali positiviste e con la vocazione sociologistica della psichiatria italiana, negli Studi Dalla Volta accosta i molteplici fenomeni osservati a Csòt bei Papa come manifestazioni di una fenomenologia naturale decifrabile per mezzo del determinismo bifronte – somatico e psicologico – lombrosiano (Morselli, 1906).

 

Fenomeno naturale la guerra, evento naturale la prigionia, sottoprodotto della prima, traducibile secondo la sintassi della biologia nei termini di un trauma psichico continuo per chi ne è vittima.

 

Attento fin dalle prime righe alla pluralità degli effetti traumatico-depersonalizzanti dell’internamento, il testo di Dalla Volta non approda alla proposta di un modello eziologico e psicoterapeutico originale, come nelle più drammatiche circostanze del caso-Frankl. Il giovane sottotenente mantovano, semplice studente di medicina, non si spinge oltre i confini teorici tracciati dalla manualistica psichiatrica (Viveri, 1920; A. Morselli, 1921). Ma non per questo, il suo elenco delle modificazioni indotte sul carattere dei reclusi dal violento impatto della non vita nell’artificiale ambiente-Lager è meno completo con la sua schiera di ossessionati, ebeti, neurastenici, patofobi, irritabili psichici, psicastenici, coprofagi e degenerati.

 

 Grazie alla doppia tenaglia della fame perenne e dell’impotenza di chi è costretto a veder soccombere decine e decine di compagni senza poter intervenire, l’universo-Lager – scrive Dalla Volta - inquina profondamente la psiche e il corpo delle vittime. Le circostanze giornaliere sono tali che, “senza tema di esagerare, a loro paragone i disagi della trincea quasi scomparivano”.

 

Intellettuale prigioniero, Dalla Volta avverte come anche i riti di passaggio paralleli all’incorporamento militare, e il solidale senso di cameratismo maturato al fronte – la fratellanza delle trincee – cedano il passo al cospetto dei rovinosi meccanismi del campo, solo in parte e debolmente mitigando i patimenti dei reclusi. “Nessuno – ammette demolendo con un pensiero la retorica del giornalismo di guerra - si sarebbe privato del più modesto boccone per cederlo al compagno (…) l’egoismo in tutta la sua virulenza trionfava”.

 

Solo in apparente contraddizione, Dalla Volta reputa la prigionia sia una parentesi nella vita del recluso, sulla quale edificherà un silenzio solo in parte scalfito dopo la liberazione; sia una minacciosa ombra destinata a gravare come un macigno nel futuro. Parentetica temporalmente, per la personalità del prigioniero la reclusione rappresenta un vùlnus sufficiente a tracciare ferite mai pienamente cicatrizzabili anche in avvenire.

Nel tempo esperienziale del campo di concentramento, col suo vuoto di avvenimenti e di speranze, l’ex combattente percepisce un “gravoso senso di degradazione morale”, progressivamente idoneo ad annientarne l’autostima.

 

Avvalorando l’ipotesi di Vischer, Dalla Volta mostra come il reticolato non escluda solo dal mondo del di fuori, ma depauperi, isterilisca e consumi l’affettività dei prigionieri. L’orizzonte delimitato dal reticolato ipersensibilizza la psiche dei reclusi, la nutre quotidianamente di pessimismo, la addestra ad uno sguardo introspettivo tanto straziante quanto più il deperimento fisico individuale è avanzato.

 

Proprio la percezione di un tempo esperienziale non collidente col tempo oggettivo tramutano lo stato di sofferenza nel timore di vivere una condizione immutabile. Senso di vuoto, smarrimento, scetticismo, disillusione, dubbio e dolore maturano in giornate apparentemente infinite, caratterizzate dalla fobia inconfessata d’essere vittime di una guerra senza fine. Notti agitate e sonni brevi. Fame, freddo e ancora l’inedia per uomini costretti a cibarsi di erba e immondizie ammuffite.

Caricature degli individui di un tempo per i quali perfino la corrispondenza bisettimanale con i familiari perde di valore di fronte all’urgenza di redigere lunghe, quanto dissennate, liste di desiderata gastronomici.

 

Con questi inequivocabili tratti Amedeo Dalla Volta presenta la parodia della vita vissuta dai prigionieri a Csòt bei Papa. Ma egli non si limita a descrivere. Tardo figlio di un positivismo declinante ancorché vivo, intende scorgere la causa dei fatti, tracciare una fenomenologia obiettiva dei meccanismi responsabili della radicale trasformazione delle personalità.

 

In questo sforzo di comprensione, a volte concitato più spesso meditato, lo psicologo mantovano individua un processo di adattamento alla realtà del Lager che si sgrana, per circa un anno, lungo due passaggi originari.

Uno stadio iniziale, relativo ai primi mesi di prigionia, nel quale il neorecluso vive una costante, fisiologica ed eccitata disperazione (eretismo), non da ultimo favorita dall’indebolimento delle facoltà intellettive. E uno stadio successivo che sostituisce all’eretismo una condizione di abitudinaria indifferenza alla vita. Uno stato di stazionaria sofferenza, colma di amara rassegnazione, non di meno percepita come rasserenante dal prigioniero dopo i travagli iniziali. È in questa seconda fase che gli incubi e le passioni tipici del primo incontro col Lager svaniscono.

 

Il processo descritto da Dalla Volta riguarda tutti i prigionieri. Nelle reazioni emotive al campo la discriminante ufficiali/soldati – con le congenite ineguaglianze di classe e culturali – non ha gioco. Al contrario, i processi psichici tendono a caratterizzarsi di diverse tonalità quando sono esperiti da individui già gravati da una labe neuropatica prima della guerra. In queste evenienze, a mutare è l’intensità delle reazioni. Il tasso di aggressività ed eccitabilità degli individui è maggiore; la sensazione di naufragio del Sé e di perdita del proprio mondo più lancinante; ed il passaggio dal primo al secondo stadio si realizza senza quella gradualità accertata da Dalla Volta tra i prigionieri non predisposti alla malattia.

 

Il riferimento al peso della predisposizione originaria nel tracciare i percorsi individuali dell’adattamento – in sintonia, per altro, col mainstream della medicina delle alienazioni mentali - ritorna con emblematica regolarità anche nel discorso che caratterizza come originale il testo. Quello sulla sessualità. Dalla Volta dedica alla questione uno spazio per la stessa letteratura scientifica sorprendente. Indizio questo sia del coraggio e delle scelte anticonformiste dell’autore; sia, a maggior ragione, della centralità che tale discorso riveste ai suoi occhi nell’economia dell’analisi del fenomeno.

 

L’obiettivo dichiarato è quello di abbozzare i caratteri della vita sessuale dei prigionieri, comprensiva dei suoi pervertimenti, prendendo a campione un noto esempio. Come prima aveva ancorato la propria analisi alla scolastica psichiatrica, ora sceglie di collocare l’investigazione all’ombra della Psychopathia sexualis di Richard Krafft-Ebing (1886), un tomo a suo modo capace di segnare un’epoca (Agamben, 1980). Il lavoro dell’alienista di Mannheim è preso a modello nel presentarsi quale antologia di biografie sessuali raccolte dal medico dalla viva voce del paziente. Ma Dalla Volta va oltre, non limitando l’investigazione all’ambito delle individualità recluse. Galvanizzato dall’utopia sociologistica del positivismo ottocentesco, al prototipo krafftiano imitato acclude l’intendimento di guardare apertamente i fatti sessuali dell’universo maschile del Lager di Csòt come al preannuncio di una regressione degenerativa collettiva.

 

Tra le rarissime testimonianze valide a vincere il silenzio steso sul tema anche dalla memorialistica più disincantata, in queste singolari pagine che intrecciano sguardo d’insieme e curiosità per il singolo tipo psicologico, la distanza di Dalla Volta dalla retorica combattentistica si fa siderale. Dopo aver ricordato allo smemorato pubblico accademico come la prigionia abbia comportato stenti non minori della vita di trincea, nelle debolezze e nei cedimenti dello specchio deformante della vita sessuale, Dalla Volta ritrae l’ostaggio in tutta la sua fragilità al cospetto dei dispositivi disumanizzanti del Lager.

 

I fatti sessuali da ricordare sono essenzialmente tre, sintetizza. Prima di tutto, il generale disinteressamento per le “finalità genetiche dell’amore” a favore della “libidine più cieca”. Quindi la coazione alle pratiche masturbatorie, con una una sorta di contagio compulsivo-ossessivo che risparmia pochi.

Da ultimo, la diffusione dell’omosessualità, sia come pederastia, sia come travestitismo.

 

Netta è la condanna di Dalla Volta dell’omosessualità e dell’omoerotismo. I timidi accenti psicoanalitici che qua e là possono rinvenirsi nel testo – non si può escludere, a priori, che il prigioniero Dalla Volta da Csòt non abbia avuto ragguagli del V Congresso Internazionale di Psicoanalisi di Budapest (1918) (Freud, 1976) – sono lungi dal divenire criteri sistematici di giudizio. La condanna è sia morale sia, in accordo col più aggiornato e condiviso sapere medico, scientifica. Masturbazione e omosessualità sono comportamenti devianti, connaturati ad individui degenerati biopsicologicamente, figli di famiglie tarate.

 

Tuttavia, per quanto postosi al riparo dalle critiche con l’adozione di tradizionali cliché, lo sguardo di Dalla Volta è troppo vigile per non intuire come sia lo stesso universo concentrazionario, con l’impedire l’estrinsecazione dell’ordinaria sessualità, ad avviare i processi di decomposizione del ruolo virile, incentivando al contrario dinamiche di femminilizzazione delle quali omosessualità e travestitismo sono le espressioni esteriori più evidenti.

 

La vitalità omoerotica dei prigionieri è una delle «formule dominanti» la psicologia del combattente imprigionato, svolgendo una funzione compensatoria del suo bisogno di controbilanciare, abreandole, le luttuose angosce sofferte quotidianamente. D’altro canto, il timore di divenire impotenti per il “mancato esercizio della funzione”, prosegue Dalla Volta, è un tormento generalizzato tra i prigionieri giovani e meno giovani, al punto che questa castrazione insieme simbolica e reale assume nei predisposti a soccombere nella lotta per la vita la forma di una sindrome nevrotico-ossessiva. La “mancanza della donna”, conclude, risulta esser ancora più traumatica poiché segue un periodo di aperta licenziosità. Quello coincidente con la chiamata alle armi dei cittadini, quando un certo alone romantico insito nella figura del guerriero, e la tradizione goliardica che accompagna l’avvenimento proiettando i coscritti in una sorta di zona franca legale e morale, hanno allentato le usuali inibizioni di giovani morigerati e austeri padri di famiglia.

 

Le originali pagine sulla sessualità dei reclusi – qui solo accennate - non sono comunque le uniche del memoriale Dalla Volta a presentare osservazioni degne di rilievo per gli studiosi del conflitto e gli storici della scienza.

 

Dopo aver detto del potere della segregazione di plasmare la personalità della vittima, di guastarla moralmente, di eroderne le facoltà psichiche, Dalla Volta sposta il mirino analitico prima sullo sconcertante rapporto instaurato da questi col persecutore, quindi cerca di contemplare tale peculiare relazione alla luce delle modificazioni occorse nella psicologia dell’internato.

 

“Uno dei lati più enigmatici della psicologia di questi sventurati [i detenuti] - scrive - si riferisce ai rapporti con i loro persecutori. Candidati alla morte per esaurimento organico gravissimo (…) condotti in lunghe teorie ai lavori più improbi da un energumeno vestito da caporale, nel lavoro sembravano talvolta dare fino all’estremo limite quanto potevano, benché retribuiti col bastone e col digiuno. Credo che qualsiasi spirito che avesse avuto la ventura di conservarsi lucido fra lo sfacelo della sua compagine affamata, ascoltando una voce estrema di ribellione, avrebbe sacrificato senza esitare una vita ormai ipotecata senza speranza di riscatto, pure di tentare una cieca rivolta. Al contrario i poveri nostri soldati si mantenevano stranamente adoratori indefessi di una divinità sanguinaria che aguzzava, dinanzi all’omaggio, i suoi strumenti di tortura”.

 

Tre decenni prima che lo scrittore e politico franco-martinicano Aimé Cesaire (1913-2008) riscontri, semplicisticamente, la specificità dell’orrore dei campi della morte della Seconda guerra mondiale nell’utilizzo contro i cittadini europei di forme di violenza concepibili esclusivamente per i sudditi neri delle colonie (Césaire, 1989), Amedeo Dalla Volta valuta la psicologia dei carcerieri evocare direttamente «quella dell’uomo bianco d’altri tempi verso gli uomini di colore». Per i sorveglianti “il prigioniero lacero ed affamato finiva per essere considerato un essere da sfruttarsi senza misericordia, più prossimo al bruto che all’uomo. (…) Coloro che da lungo tempo erano addetti ai Lager per soldati venivano caricando in una maniera impressionante il tono crudele delle loro maniera: ed è veramente a stento concepibile ciò che fu da noi e da molti altri osservato, come da molti prima miti e gentili, a lungo andare, per un effetto tremendo del contatto con masse giunte all’estremo limite dell’abiezione, divenissero di una tempra bestiale: né sembravano convinti che i segni progressivi di degradazione che contrassegnavano quegli spettri cenciosi, per una sorta di circolo vizioso, si alimentavano dai loro maltrattamenti”.

 

Un circolo vizioso, un processo speculare che avviluppando persecutore e vittima, si auto-rigenera in un crescendo sequenziale di violenza e nell’estendersi della sofferenza.

A questo stadio della disamina Dalla Volta abbandona ogni circospezione, per denunciare il Lager come terra di nessuno della civiltà, il regno dell’abbrutimento capace di annichilire qualsiasi legame di patriottica o cameratesca solidarietà. “Per amore della verità – è forzato ad appuntare - bisogna aggiungere che alcuni di quei soldati italiani e più spesso sott’ufficiali, che erano riusciti a procurarsi qualche posto di favore nella Kanzlei del Lager e che da custodi divenivano ministri dei custodi, pasciuti più che a sufficienza (a scapito della massa) dal nemico che servivano troppo fedelmente, per nulla venivano a cedere in crudeltà e nello spirito di sfruttamento ai loro nemici”.

 

Ma non solo il cameratismo o l’amicizia deflettono nel Lager sotto l’urto dirompente dei processi spersonalizzanti. Anche il più genuino sentimento religioso ne è prima scosso e poi corroso. Così come la progressiva atarassia emozionale del recluso non risparmia neppure i congiunti più intimi. I “sentimenti altruistici apparivano presso che ammutoliti anche nella cerchia degli affetti familiari” osserva Dalla Volta, e “perfino le lettere della moglie, dei figli, dei genitori, della fidanzata, erano talvolta stracciate avanti di essere lette”.

 

Le malcelate esplosioni di rabbia che ciclicamente scuotono le baracche non sembrano in grado di smuovere lo stato psichico di stordimento e d’impotenza entro cui l’internato è precipitato nella seconda fase dell’adattamento al campo. All’apatia, dalle diverse sfumature, si abbina inoltre una sensazione di abbandono che ha la manifestazione principale nella disposizione a colpevolizzare chi è in salvo oltre il perimetro escludente del reticolato per una detenzione percepita come ingiustificata, cagione di una perdita – i migliori anni della gioventù - che nulla potrà restituire all’internato.

 

Di fronte all’accelerato dissolvimento della continuità storica e personale degli individui, dissolvimento che indaga ed esperisce, ancora una volta il giovane scienziato mantovano non si limita alla descrizione. Spinge bensì lo sguardo avanti, inseguendo una comprensione complessiva del fenomeno che, senza subire l’impaccio delle varianti individuali, formula nei termini della ratio antropologico-positivista, e attraverso le tassonomie care a Lombroso e Le Bon. Nomenclature, come vedremo, tutt’altro che anacronistiche.

 

Per Dalla Volta il Lager diviene intelligibile come atavismo collettivo, una parentesi insieme spaziale e temporale nel corso della storia dell’Uomo. Propriamente, il rinascere nel presente di forme fluide di vita primitive col loro carico di arcaica violenza ed istintualità. Un buco nero della civiltà, dove un distruttivo raziocinio relazionale prende corpo, alimentandosi del sopruso incoraggiato, e plasmando eticamente al ribasso vittime e sentinelle sullo sfondo del riaffiorare della “lotta primordiale per l’esistenza” nel limitato proscenio marcato dal filo spinato e dalle torrette di guardia.

Insensati abbagli di un giovane studioso acculturatosi al verbo di un positivismo perdente e frettolosamente condannato alla damnatio memoriae dai suo detrattori?

 

Può essere utile contestualizzare la deduzione dallavoltiana citando quanto Sigmund Freud, in quegli stessi anni, benché in un quadro epistemologico difforme, va elaborando. La belligeranza, annuncia nelle Considerazioni attuali sulla guerra e la morte del 1915, “elimina le successive sedimentazioni depositate in noi dalla civiltà e lascia riapparire l’uomo primitivo (…) L’essenza della malattia mentale risiede in un ritorno a condizioni interiori di vita affettiva e di funzionamento psichico (…) ogni fase evolutiva precedente continua a sussistere accanto alla fase successiva a cui ha dato luogo: la successione comporta anche una coesistenza (…) l’uomo preistorico continua a vivere inalterato nel nostro inconscio”. In ogni caso, al di là delle dimenticate affinità elettive tra indirizzi scientifici concorrenti, dei quali uno oggi in auge e l’altro ridicolizzato, il duello col primitivo di ritorno non è destinato a chiudersi per forza con l’annichilimento dell’uomo civile, sostiene Dalla Volta. Anche nelle tenebre dell’esperimento-Lager, non tutto è perduto, ed il pessimismo della conoscenza non si trasforma in una resa della volontà.

 

Contro le leggi ed i rituali che regolano il Lager, isolando l’uomo affettivamente e avvilendolo al suo grado zero del bisogno, la psicologia etnica e la legge di simbiosi sono le chiavi di volta di una resistenza che soccorre l’uomo recluso (suscitando l’attenzione dello studioso).

 

L’àncora di salvataggio, scrive Dalla Volta, può giungere mediante due soluzioni. O, come nel caso degli Ebrei – numerosi negli eserciti zarista e romeno – dalla fraterna solidarietà rinsaldata “da una lunga scuola di persecuzioni”, valorizzata come legame-scudo per attraversare parzialmente indenni i meccanismi distruttivi del campo; oppure, per i popoli posti sui gradini inferiori della scala della civiltà, rovesciando l’incompletezza biopsicologica in un salvacondotto. “Orbene”, annota al proposito Dalla Volta volgendo alla conclusione con un ricercato paradosso che non tiene a bada le antiche ed insolute ambiguità del positivismo medico (Malocchi, 1999), le “razze più basse nella scala della evoluzione umana, cresciute dalla nascita fra i grovigli di una vita di stenti, sapevano arginare e raffrenare le correnti istintive esuberanti utilizzandole a munire le difese, (…). La civiltà che attraverso le forze molteplici e diverse di una collettività ha potuto produrre valori altissimi in tutti i rami delle attività umane, ha reso fatalmente incompleto l’individuo quando si trovi solo a competere nelle forme primordiali della concorrenza vitale”.

 

Alcune considerazioni conclusive e suggerimenti di ricerca.

 

“Comprendere le finalità psicologiche e la vasta portata di questo moderno metodo di coercizione totale, che abbraccia il corpo come la mente, e induce o costringe l’individuo a modificare certi aspetti della sua personalità” (Bettelheim): l’intenzione, assurta a necessità, espressa dall’ex deportato Bruno Bettelheim nel saggio I campi di concentramento nazisti, anima indubbiamente le riflessioni di Viktor Frankl e Alessandro Dalla Volta. Autori apparentati dall’esigenza di decifrare il fenomeno dell’orrore concentrazionario sia come oggetto di analisi scientifica sulla scorta della propria formazione culturale; sia come esperienza empirico-identitaria che se diverrà fondante in Frankl, sarà invece progressivamente rimossa da Dalla Volta con i primi anni ’20 (Dalla Volta, 1920).

 

Naturalmente, le esperienze dei due autori possono trovare una proficua comparazione solo se non si prescinde da una corretta valutazione dei diversi contesti storici in cui si trovano a meditare: il mondo crematorio per lo psichiatra viennese, i campi per prigionieri di guerra del primo conflitto mondiale per lo psicologo mantovano

 È chiaro, come i loro affreschi mostrano, che siamo al cospetto di Lager dove l’apriori del grado d’intenzionalità dell’annientamento, ed il tasso di violenza pianificata non sono affatto comparabili. Consapevoli nel primo caso, violenza e orrore programmato sono quasi un esito automatico dell’impreparazione austriaca, del tracollo improvviso e delle difficoltà di gestione di un’intera armata italiana caduta prigioniera dopo Caporetto nel secondo; anche se le penetranti riflessioni di Dalla Volta sulla violenza rivelano come, nell’ambiente artificiale di Csòt, il perpetuarsi dell’orrore a partire dall’abbrutimento simmetrico di internati e guardiani si verifichi per un processo motivante apparentemente autonomo rispetto alle volontà degli uomini.

 

Alla ricerca di forme esplicative adeguate, entrambi gli autori optano per un modello bifasico – a differenza di quanto farà il già citato Bettelheim preferendo un approccio a quattro stadi.

 

Oltre le differenti presupposizioni teoriche, i due modelli mostrano sorprendenti affinità. La fase eretistica di Dalla Volta corrisponde allo stato traumatico di Frankl; la sfaccettata morte intima del prigioniero narrata da quest’ultimo, si sovrappone alla tappa della radicale apatia delineata dal primo. Concordanze vi sono su altri tre piani. Sull’esistenza di un confine psicologico di non ritorno oltre il quale la vittima è irrimediabilmente dannata: i musulmänner di Frankl, seppur non nominalmente richiamati, si aggirano come fantasmi già tra le pagine di Dalla Volta; nella valutazione complessiva dell’azione collassante delle funzioni integrative dell’Io del Lager; e nel rigetto di attenzione per le dimensioni intrapsichiche. Per entrambi, come già lo stato guerra (Eibl-Eibesfeldt, 1990) ma con intensità maggiori, il campo obbliga la vittima ad introiettare un repertorio di movimenti funzionali alla pura sopravvivenza in quanto risposta alle tremende condizioni ambientali.

 

Questo nuovo corredo comportamentale non si sedimenta però, come nel caso dei soldati in trincea, sopra precedenti moduli culturali in forme temporanee e comunque reversibili (Scartabellati, 2001). Quel bagaglio di esperienze tradizionali strutturato dalle generazioni attraverso la storia, sorta di scheletro che infonde sicurezza e “ci libera dall’obbligo di cercare da soli soluzione ad ogni problema e di chiederci continuamente quale sia il comportamento più conveniente in ogni circostanza” (Eibl-Eibesfeldt), è semplicemente quanto repentinamente azzerato dalla quotidianità indicibile del Lager.

 

Non solo la precedente integrazione raggiunta dal soggetto individualmente e collettivamente è disintegrata, ma nelle condizioni del campo quanto fino a quel momento l’ha orientato nella vita – si pensi all’altruismo - minaccia di diventare un ostacolo alla sopravvivenza (Bettelheim).

 

Sotto questa luce alcune conclusioni di Frankl e Dalla Volta perdono i loro contorni sfumati per assumere il volto di un’inconfondibile materialità. Comprensibile diviene l’esperienza del Lager come ritorno al primitivo – all’individuo senza storia – e come Zenith della solitudine umana contingente e cosmica; come non meno fondato, alla lente della disposizione all’apprendimento delle vittime delle leggi del terrore agonistico in funzione della sopravvivenza, diviene la valutazione secondo la quale i migliori dal Lager non sono tornati. Incapaci di far propria per sensibilità o scelta la grammatica della distruzione, essi si sono smarriti per primi nel buco nero del campo (Bettelheim).

Sorprendenti le somiglianze, non meno accentuate le differenze.

 

Per Frankl, liquidando il tema con una riga, il Lager mette a tacere l’istinto sessuale. Per Dalla Volta, al contrario, i fatti sessuali hanno una rilevanza cruciale nel definire il comportamento degli internati. Lo psicologo mantovano sembra intuire che, come già nelle trincee, per i prigionieri di guerra non è inusuale doversi aggrappare “a rapporti affettivi che erano al tempo stesso paterni (ossia gerarchici e in grado di conferire potere) e materni (che davano ispirazione e conforto)” (Bourke, 2003).

 

Per l’intellettuale viennese l’interesse politico e, soprattutto, il sentimento religioso sono l’ultima corazza morale che permane al prigioniero nutrendone la resistenza. Per Dalla Volta nulla di tutto questo resta in piedi sotto la pressione dei meccanismi spersonalizzanti del campo. Anzi, se il sentimento di rivalsa socio-politico maturato dai prigionieri è liquidato come sintomo di un disturbo mentale che contagiando l’intera Europa la sta per gettare nel baratro del comunismo, da positivista ferrato esclude che la religiosità possa giocare un ruolo in dinamiche esclusivamente inerenti l’ambito somato-psichico.

 

Nelle differenti valutazioni un fattore decisivo risulta essere la diversa formazione culturale, ed in particolare la diversa percezione del progresso come avanzamento continuo e unilineare dell’umanità. Per entrambi, un avvenimento storico come quello dei campi “portava fino all’assurdo l’assunzione fondamentale secondo cui le società progrediscono sempre verso un più alto grado di civilizzazione”  (Welzer). Ma mentre l’addestramento psicoanalitico di Frankl lo prepara ad affrontare l’imbarbarimento dell’uomo, e lo sprona, con l’ideazione logoterapeutica pure, a formulare proposte correttive di tali involuzioni, il confronto di Dalla Volta con gli aspetti distruttivi della civilizzazione rischia di far letteralmente naufragare uno dei capisaldi teorici di quel positivismo scientifico a cui s’è votato e che la sua analisi vuole convalidare. D’altro canto, paradossalmente, l’incertezza o la vetustà di cui sono ammantate alcune posizioni teoriche del giovane ufficiale italiano sono in diretto collegamento con la sua natura di scienziato pioniere. Quando a Csòt redige gli Studi, da semplice studente di medicina, di fatto né il pensiero psichiatrico né quello psicologico – quello psicoanalitico è ancora lungi dall’influenzare i circoli culturali nazionali – hanno ancora elaborato schemi concettuali di riferimento per trattare questioni quale quella delle trasformazioni molecolari degli uomini in condizioni estreme.

 

Resta, avviandomi alla conclusione, un ultimo argomento da trattare. Quello delle indicazioni di ricerca che dai memoriali dei due intellettuali possiamo trarre per pervenire ad una più accurata comprensione del “ruolo fondamentale svol[to] nei regimi totalitari [dal] campo di concentramento (o [dal] carcere) come strumento di controllo sociale, e come esso sia fondamentale per plasmare la personalità individuale secondo il modello richiesto da quel tipo di società” (Bettelheim).

Indicazioni euristiche generali che mi limiterò a riassumere in tre proposte.

 

Punto primo: ancora tutta da sviscerare è l’effettiva efficacia dei cosiddetti coping behavior nel conservare prima l’equilibrio psicologico e, quindi, l’integrità fisica delle vittime.

S’è accennato in nota alla visione negativa di Bettelheim al proposito, solo in parte rivista successivamente. Valutazioni diverse lasciano intendere gli studi di Terence Des Pres, The survivor. An anatomy of life in the death camps (1976), il pionieristico lavoro di Joel E. Dimsdale del 1974 The Coping Behavior of Nazi Concentration Camp Survivors (1974), e l’agile riflessione di Andea Devoto Il comportamento umano in condizioni estreme. Lo psicologo sociale e il lager nazista (1985). Lo stesso Frankl, come sottolinea l’interpretazione di Allport, sembra suggerire la possibilità di una parte estremamente attiva del prigioniero nello scampare la morte, anche se più correttamente credo che il segreto della sopravvivenza indicato da Frankl riguardi non il prigioniero nel campo, bensì il ritorno alla vita della vittima una volta ritrovata la libertà.

 

Punto secondo: un percorso analitico finora completamente trascurato, fa riferimento al primitivo, alle sue visioni e al ruolo assegnatogli, pur nei diversi contesti teorico-concettuali, dagli scienziati del comportamento tra ‘800 e ‘900. Il richiamo, per interposta persona in Frankl e fondante in Dalla Volta, al primitivo come pass-partout interpretativo, impone agli storici della scienza il compito di fare i conti con le segrete consonanze di impostazioni teoriche antagoniste. Come l’antropologia culturale da anni ha già fatto (Fabietti, 1977), l’analisi dovrebbe quanto meno abbracciare un repertorio di testi e autori che da Morel si spinga fino all’ultimo Freud, passando per Le Bon e Lombroso. Al riguardo, l’esemplare saggio di Jarkko Jalava, The Modern Degenerate. Nineteenth-century Degeneration Theory and Modern Psychopathy Research (2006), potrebbe essere un felice contributo da prendere a modello.

 

Infine e brevemente, una terza pista di ricerca invita a non esaurire l’attenzione analitica solo sulle complicazioni distruttive e traumatizzanti del Lager, ma di riconsiderare questi stessi effetti tra alcuni dei sopravvissuti, come il combustibile di una crescita personale, di un arricchimento nonostante tutto.

 

Anche su questa materia la storiografia ha indugiato, e i risultati apprezzabili non si discostano sostanzialmente da quelli proposti dall’intervento dello psichiatra e sopravvissuto Leo Eitinger nel 1975. Non molto altro è stato scritto con sensibilità storica; o, almeno, non molto altro che sapesse uscire dalle secche del tecnicismo utile agli specialisti dei reparti sanitari (Aa.Vv., 2005).

 

Che il campo di concentramento abbia comportato per alcuni anche un post-traumatic growth è un altro di quegli amari paradossi di cui la ricerca storica deve prendere atto. Del resto, le vicende umane e soprattutto intellettuali di Bruno Bettelheim e Primo Levi pur nel funesto comune epilogo, quella di Viktor Frankl, ed in forme differenti quella di Alessandro Dalla Volta, dimostrano come anche dall’inconcepibile distruzione fattasi realtà quotidiana nel Lager sia doveroso trarre insegnamenti e segnali di speranza per l’avvenire da trasmettere alle più giovani generazioni.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

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Bettelheim B., Autonomia e alienazione [1968], in Sopravvivere, op. cit., pp. 297-314.

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Bettelheim B., Il limite ultimo [1968], in Sopravvivere, op. cit., p. 25 e p. 26: “Ci troviamo in una situazione estrema quando veniamo improvvisamente catapultati in un insieme di condizioni in cui i meccanismi di adattamento e i valori di un tempo non sono più validi, e anzi alcuni di essi possono addirittura mettere in pericolo la vita che avevano lo scopo di proteggere. Siamo allora, per così dire, spogliati di tutto il nostro sistema difensivo e scaraventati sul fondo, e per risalire dobbiamo costruirci un nuovo insieme di comportamenti, valori e modi di vivere adatti alla nuova situazione”.

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