N. 36 - Dicembre 2010
(LXVII)
Psicologi nel Lager
tra Grande guerra e Shoah - Parte I
di Andrea Scartabellati
Prigioniero
del
regime
fascista
da
oltre
sette
anni,
il
06
marzo
1933
Antonio
Gramsci
scrive
alla
cognata
Tania
con
analitico
disincanto:
Carissima
Tania,
ho
ancora
vivo
il
ricordo
(…)
di
un
paragone
che
ti
ho
fatto
nel
colloquio
di
domenica
per
spiegarti
ciò
che
avviene
in
me.
Voglio
riprenderlo
per
trarne
alcune
conclusioni
pratiche
che
mi
interessano.
Ti
ho
detto
su
per
giù
così:
immagina
un
naufragio
e
che
un
certo
numero
di
persone
si
rifugino
in
una
scialuppa
per
salvarsi
(…).
Prima
del
naufragio,
come
è
naturale,
nessuno
dei
futuri
naufraghi
pensava
di
diventare…
naufrago
e
quindi
tanto
meno
pensava
di
essere
condotto
a
commettere
gli
atti
che
dei
naufraghi,
in
certe
condizioni,
possono
commettere,
per
esempio,
l’atto
di
diventare…
antropofaghi.
Ognuno
di
costoro,
se
interrogato
a
freddo
su
cosa
avrebbe
fatto
nell’alternativa
di
morire
o di
diventare
cannibale,
avrebbe
risposto,
con
la
massima
buona
fede,
che,
data
l’alternativa,
avrebbe
scelto
certamente
di
morire.
Avviene
il
naufragio,
il
rifugio
nella
scialuppa
ecc.
Dopo
qualche
giorno,
essendo
mancati
i
viveri,
l’idea
del
cannibalismo
si
presenta
in
una
luce
diversa,
finché
a un
certo
punto,
di
quelle
persone
date,
un
certo
numero
diviene
davvero
cannibale.
Ma
in
realtà
si
tratta
delle
stesse
persone?
Tra
i
due
momenti,
quello
in
cui
l’alternativa
si
presentava
come
una
pura
ipotesi
teorica
e
quello
in
cui
l’alternativa
si
presenta
in
tutta
la
forza
dell’immediata
necessità,
è
avvenuto
un
processo
di
trasformazione
molecolare
per
quanto
rapido,
nel
quale
le
persone
di
prima
non
sono
più
le
persone
di
poi
(…)
Ebbene,
come
ti
ho
detto,
un
simile
mutamento
sta
avvenendo
in
me
(cannibalismo
a
parte).
Il
più
grave
è
che
in
questi
casi
la
personalità
si
sdoppia:
una
parte
osserva
il
processo,
l’altra
parte
lo
subisce,
ma
la
parte
osservatrice
(finché
questa
parte
esiste
significa
che
c’è
un
autocontrollo
e la
possibilità
di
riprendersi)
sente
la
precarietà
della
propria
posizione,
cioè
prevede
che
giungerà
un
punto
in
cui
la
sua
funzione
sparirà,
cioè
non
ci
sarà
più
autocontrollo,
ma
l’intera
personalità
sarà
inghiottita
da
un
nuovo
individuo
con
impulsi,
iniziative,
modi
di
pensare
diversi
da
quelli
precedenti
[Gramsci,
1994].
Una
citazione
lunga
quella
gramsciana,
con
un
pregio
tra
i
tanti.
Oltre
la
pluri-significanza
di
un
termine
come
biopolitica,
circoscrivere
tema
ed
obiettivi
della
presente
comunicazione.
Attraverso
il
prisma
delle
esperienze
vissute
e
narrate
da
due
psicologi
dalla
formazione
medica,
Amedeo
Dalla
Volta
e
Viktor
Frankl,
in
contesti
storici
comparabili
con
cautela,
si
perseguiranno
sinteticamente
due
diversi
scopi.
Da
un
lato,
aggiungere
un
contributo
indiziario
allo
studio
delle
trasformazioni
molecolari
indotte
dalla
prigionia
rispettivamente
nei
campi
d’internamento
dell’Austria-Ungheria
per
i
soldati
italiani,
e
nei
Lager
nazionalsocialisti
per
i
nemici
dell’Herrenrasse
[Krell
e
Sherman,
1997].
Dall’altro,
affiancando
due
diverse
letture
dell’universo
concentrazionario
in
un
confronto
prospettico,
cogliere
nessi
e
dissomiglianze
per
suggerire
nuovi
histoire-problème
e
stimolare
una
rinnovata
riflessione
critica
su
questioni
solo
in
parte
approfondite.
Prima
di
addentrami
nel
case-study,
tuttavia,
una
precisazione.
Data
la
natura
del
testo,
l’indagine
si
concentrerà
sull’analisi
interna
degli
scritti
dei
due
autori,
lasciando
a
margine
dell’esame
altri
versanti
della
loro
riflessione
e
del
loro
vissuto.
In
questo
senso,
essa
è da
intendersi
come
lettura
preliminare
all’auspicabile
sviluppo
di
più
meditati
itinerari
euristici.
Tra
gli
aspetti
non
vagliati,
sono
da
ricordare
quelli
biografici;
o,
ancora,
quelli
concernenti
la
diversa
formazione
culturale
dei
due
scienziati,
appartenenti
a
generazioni
scientifiche
non
omologabili.
Aspetti,
com’è
intuibile,
tutt’altro
che
ininfluenti
nella
redazione
dei
memoriali.
Per
non
fare
che
brevi
esempi:
di
Dalla
Volta
la
convinta
adesione
al
fascismo,
maturata
dal
febbraio
1921
sulla
scorta
dell’esperienza
bellica,
e
nel
contesto
di
un
risentimento
politico
nutrito
dal
timore
di
una
rivoluzione
rossa
come
sintomo
evidente
di
regressione
biologica
collettiva,
sarà
solo
accennata.
Di
Frankl
non
saranno
oggetto
d’interesse
le
sorprendenti
ambiguità
elencate
dal
dirompente
saggio
di
Timoty
Pytell
The
Missing
Pieces
of
the
Puzzle.
A
Reflections
on
the
Odd
Career
of
Viktor
Frankl
[Pytell,
2000],
a
principiare
da
una
permanenza
in
Auschwitz
di
non
più
di
quattro
giorni
dell’intellettuale
viennese
che
lascerà
intendere
altro
al
lettore
del
celeberrimo
Uno
psicologo
nel
Lager.
Di
entrambi
gli
autori,
infine,
la
riflessione
relativa
alle
cicatrici
tracciate
nella
psiche
e
nel
corpo
dei
detenuti
dall’esperienza
della
violenza
estrema
non
troverà
che
fugaci
accenni.
Per
questi
temi,
non
meno
utili
di
quelli
affrontati
per
inquadrare
le
figure
dei
due
psicologi,
rimando
alle
segnalazioni
in
bibliografia
[Scartabellati,
2010].
Introduzione
Che
la
prigionia,
con
le
connaturate
dinamiche
di
disciplinamento,
controllo
pervasivo,
costrizione
fisica,
abuso
psicologico
e,
spesso,
tortura,
rappresenti
una
fase
di
passaggio
per
il
temperamento
[Lingiardi,
2001]
dei
detenuti
non
è un
tema
sconosciuto
alle
scienze
d’inizio
‘900.
Con
i
lemmi
storicamente
propri,
psicologi,
antropologi
e
psichiatri,
hanno
occasione
di
confrontarsi
e
polemizzare
sull’argomento,
concordi
nell’affrontarlo
come
una
sorta
di
sistematico
esperimento
di
privazione,
pur
nella
varietà
delle
forme.
Sia
nei
paesi
di
lingua
tedesca
-
l’area
di
elezione
di
Frankl
-,
sia,
e
forse
più,
nell’ambito
culturale
italiano,
culla
di
Dalla
Volta
e
patria
dell’antropologia
criminale
[Gibson,
2004;
Lindesmith
e
Levin,
1937],
alcune
opere
destano
l’interesse
di
quegli
studiosi
che,
solerti
nel
riconoscere
con
anticipo
gli
effetti
plasmativi
della
reclusione
sulla
personalità
dei
singoli
condannati,
si
mostreranno
riluttanti
ad
accreditare
un
medesimo
effetto
alle
modalità
della
guerra
totale
del
1914-18
[Scartabellati,
2008;
Brunner,
2000].
In
Italia,
la
polemica
sorta
a
proposito
dei
risultati
dell’inchiesta
svolta
nelle
carceri
britanniche
da
Charles
B.
Goring,
The
English
Convict.
A
Statistical
Study
(1913)
[Goring,
1913],
con
la
messa
in
stato
di
accusa
del
positivismo
di
marca
lombrosiana,
permette,
a
latere,
di
dibattere
della
reclusione
come
agente
artificiale
di
mutazione
fisio-psichica
del
reo.
Haeckelianamente
[AA.VV.,
1993],
un’involuzione
a
ritroso
nella
scala
della
civiltà
rispetto
al
lineare
progresso
della
specie,
la
quale,
seppur
mascherata
dalla
grammatica
lamarckiana,
ammette
implicitamente
la
disponibilità
del
sapere
medico
a
farsi
dominus
di
tali
forze
trasformative
con
l’accettazione
della
subordinazione
dell’ambito
biopsicologico
individuale
all’orizzonte
politico
per
mezzo
di
una
prassi
medica
autoritaria
[Scartabellati,
2005].
A
dibattere
delle
conclusioni
di
Goring
rilanciando
il
lombrosismo
è un
plotone
composto
dai
nomi
più
noti
della
scienza
italiana:
Giuseppe
Sergi,
Enrico
Morselli,
Giuseppe
Antonini,
Sante
De
Sanctis,
Cesare
Agostini.
Parentesi
curiosa:
nello
stesso
1913,
analogo
compito
compete
a
Filippo
Saporito,
direttore
del
manicomio
di
Aversa
e,
ironia
del
destino,
due
decenni
dopo,
consulente
ministeriale
periziatore
della
salute
del
condannato
Gramsci,
giudicata,
ça
va
sans
dire,
abile
alle
fatiche
della
galera
[Scartabellati,
2009;
Saporito,
1913].
L’ambito
tedesco,
apparentemente
meno
attento
all’inizio
del
secolo
al
tema
assumendo
il
rozzo
criterio
della
produzione
saggistica,
mostra
invece
una
straordinaria
vigoria
dopo
lo
scoppio
delle
ostilità
nell’agosto
del
’14.
Se
l’idea
della
guerra-laboratorio
circola
comunemente
nei
testi
di
molti
autori
pur
estranei
agli
ambienti
psichiatrici
– si
pensi
al
Musil
della
“Soldaten-Zeitung”
[Fontanari
e
Libardi,
1992]
- il
confronto
con
i
militari
dell’esercito
zarista
catturati
in
Galizia
avvia
un
filone
di
Prisoner
of
War
Studies.
Dedicato
ad
indagare
gli
aspetti
fisici
(preponderanti)
e
psichici,
tale
indirizzo
di
studi
considera
i
prigionieri
come
materiale
di
primario
interesse
analitico,
e ha
alla
propria
testa,
finanziata
dai
fondi
del
Ministero
della
Guerra,
niente
meno
che
la
Anthropologische
Gesellschaft
di
Vienna
[Berner,
2007].
Dalla
silloge
di
testi
ampia
ed
eterogenea
frutto
della
penna
di
autori
di
madrelingua
tedesca,
vorrei
ricordarne
due.
Conosciuto
all’epoca
in
circoli
ristretti,
il
memoriale
inedito
Alexandra
Palace
Internment
Camp
in
the
First
World
War
(1914-1918)
di
Rudolf
Rocker
[2006],
un
anarchico
e
pacifista
internato
a
Londra,
ha
il
pregio
di
cogliere
in
presa
diretta
la
forza
dei
processi
degenerativi
innescati
dalla
reclusione.
Veicolando
la
consapevolezza
di
tali
distorsioni
psicologiche
anche
negli
ambienti
intellettuali
non
medici,
Rocker
constata
come,
con
la
perdita
della
libertà,
«lo
stato
mentale
degli
uomini
va
incontro
a
una
serie
di
cambiamenti
rapidi
e
dannosi»,
esito
di
risposte
adattive
patologiche
ad
una
gamma
di
situazioni
personali
e
sociali
conflittuali,
le
cui
spie
morbose
sono
l’apatia
estrema,
la
mancanza
di
memoria,
la
volubilità
del
comportamento,
il
pessimismo,
la
sfiducia
nel
futuro,
il
fatalismo
e
l’irritabilità
pronta
a
esplodere
per
la
più
futile
delle
ragioni
[Scartabellati,
2006].
Il
secondo
testo
da
menzionare
- a
differenza
del
memoriale
Rocker
coronato
dai
crismi
della
metodologia
scientifica
- ci
riporta
al
genuino
discorso
clinico,
ed è
firmato
nel
1918
dal
chirurgo
elvetico
Adolf
Lukas
Vischer,
ideatore
di
una
vera
e
propria
sindrome
da
filo
spinato.
Tradotto
in
inglese
ed
in
italiano
già
nel
‘19,
La
malattia
del
reticolato.
Contributo
alla
psicologia
del
prigioniero
di
guerra
[Vischer,
1919],
ricorre
ad
una
serie
di
comparazioni,
tanto
interessanti
quanto
caleidoscopiche,
per
incanalare
l’attenzione
degli
specialisti
verso
lo
stato
di
progressivo
prosciugamento
affettivo
[Zoja,
2009]
cui
soggiace
l’internato.
«A
poco
a
poco»,
registra
l’ex
delegato
del
Comitato
Internazionale
della
Croce
Rossa
nell’impero
ottomano,
il
mondo
esterno
sembra
scomparire
dalla
loro
coscienza.
Tutta
la
vita
del
campo
ha
qualche
cosa
di
così
irreale,
che
i
prigionieri
oggi
non
sanno
addirittura
più
contare
sui
valori
reali.
Essi
vivono
in
un
certo
senso
un’esistenza
ombra,
una
esistenza
in
cui
tutto
è in
tono
minore.
(…)
Ciò
che
avviene
nel
mondo
esterno
diventa
a
poco
a
poco
estraneo
e di
difficile
comprensione:
il
mondo
spirituale
dei
prigionieri
è
completamente
riempito
dagli
oggetti
del
loro
piccolo
mondo
[Vischer,
1919,
pp.
36-36].
L’opera
di
Vischer,
terreno
d’incontro
per
un
mondo
intellettuale
cosmopolita
intento
a
riannodare
i
fili
spezzati
della
polis
scientifica
di
ieri
annichilita
dalla
guerra,
farà
capolino
nelle
pagine
sia
di
Dalla
Volta,
sia
di
Frankl.
Bersaglio
polemico
per
le
acute
e
poco
note
pagine
dello
psicologo
mantovano,
precursore
di
un’autentica
fenomenologia
minima
del
campo
di
concentramento,
le
conclusioni
del
medico
svizzero
sono
invece
considerate
una
redditizia
acquisizione
iniziale,
da
ampliare
e
precisare,
dallo
studioso
viennese.
E
proprio
all’esperienza
umana
e
scientifica
di
Frankl,
muovendoci
cronologicamente
a
ritroso,
dedichiamo
le
prime
pagine.
Alla
ricerca
della
«esatta
natura
di
tale
esperienza»:
Uno
psicologo
nel
Lager
[2008b]
di
Viktor
Frankl.
Psicologo,
psichiatra
e
neurologo,
Viktor
E.
Frankl
(1905-1997)
è
universalmente
noto
quale
padre
della
logoterapia,
altrimenti
detta
Terza
scuola
di
Vienna
[Galimberti,
2006].
Giovanissimo
corrispondente
di
Freud,
gli
interessi
per
il
socialismo
lo
avvicinano
al
movimento
adleriano,
dal
quale
si
dissocia
in
seguito
per
esplorare
quella
zona
di
confine
tra
filosofia
e
psicoterapia
che
ne
distingue
la
ricerca
intellettuale
[Wehr,
1998].
Medico
nel
cosiddetto
padiglione
delle
suicide
dell’ospedale
di
Stato
Am
Steinhof
dal
1933
al
’37,
in
quanto
ebreo
è
dopo
l’Anschluss
obbligato
a
prestare
servizio
presso
l’ospedale
Rothschild,
il
lazzaretto
riservato
agli
israeliti
viennesi.
Qui,
scrivendo
una
delle
pagine
più
controverse
della
propria
biografia,
conduce
senza
specifica
preparazione
interventi
di
psicochirurgia
su
pazienti
che
hanno
tentato
il
suicidio
per
sfuggire
la
deportazione
nazista
[Pytell,
2005].
Deportazione
che
lo
colpisce
il
25
settembre
1942.
Rinchiuso
prima
a
Theresienstadt,
dove
muore
di
stenti
il
padre,
quindi
ad
Auschwitz,
dove
è
gasata
l’anziana
madre,
infine,
nelle
due
filiali
di
Dachau:
Kaufering
III
e
Türkheim,
riguadagna
la
libertà
il
27
aprile
1945,
dopo
oltre
20
mesi
di
prigionia
[Fizzotti,
Note
biografiche
(…)].
Viktor
Frankl
affida
ai
capitoli
del
pluristampato
Ein
Psychologe
erlebt
das
Konzentrationslager
la
propria
riflessione
sull’esperienza
vissuta.
Una
meditazione
non
pregiudicata
nella
capacità
di
comprensione
dall’urgenza,
dalla
fretta
quasi
del
dover
rendere
testimonianza
dopo
alcune
iniziali
titubanze.
Comprendere:
come
prima
di
lui
Dalla
Volta,
e
come
dopo
Adorno,
Mitscherlich,
Levi
e
Amery,
Frankl
è
immediatamente
conscio
che
la
realtà
dei
campi
spalanca,
rivelandolo,
un
abisso
di
sofferenza
e di
abiezione
prima
sconosciuto
all’uomo.
C’è
un
significato
da
assegnare
a
questo
crollo
di
civiltà,
nel
deragliamento
collettivo
[Friedlaender,
2009]
dai
cui
gironi
infernali
appunta,
anticipando
più
note
riflessioni,
«i
migliori
non
sono
tornati».
Ma
spiegare
senza
lasciarsi
influenzare
o,
peggio,
trascinare
dall’emotività.
Anzi
ponendola
a
margine
di
un
discorso
rischiarato
dalla
luce
della
scienza,
il
codice
più
efficace
per
decrittare
quell’abisso
di
inumanità
capace,
attimo
dopo
attimo,
di
spingere
intenzionalmente
le
proprie
vittime
sulla
soglia
del
grande
orrore.
Richiamando
la
malattia
del
reticolato,
Frankl
elabora
la
propria
esperienza
collocandola
nel
continuum
concettuale
della
psicopatologia
della
folla.
Al
classico
patrimonio
di
conoscenze
caro
a
Sighele
[1891]
e Le
Bon
[1895],
e
alle
integrazioni
apportate
nel
1921
da
Freud
[1921],
aggiunge,
tuttavia,
due
peculiari
acquisizioni
merito
infausto
della
Seconda
guerra
mondiale
aver
messo
in
luce.
Il
materiale
di
esperienze
psicologiche
maturato
nelle
irripetibili
condizioni
dei
campi
di
concentramento;
e la
scoperta
della
«guerra
dei
nervi»,
quella
coazione
incontrollata
alla
diffusione
di
false
notizie
dal
tono
esageratamente
ottimistico
la
cui
puntuale
smentita,
da
parte
della
quotidianità
concentrazionaria,
logora
il
già
scosso
spirito
dei
prigionieri.
Alla
ricerca
di
una
chiave
esemplificativa
capace
di
documentare
e
riordinare
taluni
aspetti
degli
stili
adattivi
dei
prigionieri
alle
prese
con
le
soverchianti
intimidazioni
dell’asservimento,
Frankl
opta
per
un
modello
binario,
distinguendo
due
fasi
di
massima:
«la
fase
dell’accettazione
nel
campo
(…);
la
fase
della
vita
vera
e
propria
nel
Lager
(…)».
Nella
prima
fase,
il
neoprigioniero
è
avviluppato
da
uno
choc
paralizzante,
coronamento
terminale
di
eventi
non
meno
traumatici
dell’ingresso
nel
campo.
L’arresto
da
parte
delle
forze
di
sicurezza
naziste,
il
pressante
affollamento
nel
quale
è
immerso,
oppure
le
massacranti
condizioni
del
trasporto
verso
la
detenzione,
si
sono
già
incaricate
di
indebolire
le
forze
morali
delle
vittime.
La
perdita
di
controllo
sugli
eventi,
repentina
quanto
radicale;
l’eccesso
di
non
senso
di
situazioni
inconciliabili
anche
con
le
più
pessimistiche
previsioni;
il
graduale
carico
di
ansia
che
si
accumula
nella
psiche:
tutto
ciò
traccia
le
prime
indelebili
cicatrici.
Eppure
lo
choc
non
s’impone
senza
incontrare
resistenze.
Quello
che
la
psichiatria
ha
etichettato
come
delirio
di
grazia,
compila
Frankl,
è
uno
dei
tratti
più
caratteristici
del
nuovo
arrivato.
Costretto
a
fare
i
conti
con
una
dinamica
distruttiva
che
non
gli
lascia
nient’altro
che
«questo
corpo
nudo
(…)
questa
nostra
esistenza
letteralmente
nuda»,
l’ostaggio
cerca
rifugio
o
nelle
fantasie,
le
quali
possono
presupporre
diverse
tonalità,
o
nella
negazione
delle
mortificanti
realtà
che
lo
abbracciano.
Naturalmente,
questo
generale
restringimento
delle
capacità
di
giudizio,
è
una
co-occorrenza
della
mancanza
di
sonno,
della
fame
e
del
complessivo
deperimento
fisico;
né è
ininfluente
l’incertezza
del
futuro
appositamente
coltivata
dai
guardiani
per
esacerbare
l’angoscia
dei
prigionieri.
Frankl
descrive
in
poche
pagine,
senza
categorizzarlo,
uno
dei
meccanismi
auto-protettivi
tipici
circoscritti
dopo
gli
anni
’40
dalla
psicologia
delle
extreme
situations
[Bettelheim,
Il
limite
ultimo,
p.
26]:
l’impossibilità
per
la
mente
umana
di
valicare
una
certa
soglia
di
tolleranza
dell’orrore
senza
scivolare
nella
negazione
della
situazione
traumatizzante
[Zoja,
op.
cit.].
Ma,
sottolinea
Frankl,
la
negazione
pura
e
semplice
promette
di
tramutarsi
anche
in
un
pericolo
per
la
sopravvivenza.
Il
falso
ottimismo
dei
detenuti,
sempre
inclini
a
scorgere
segnali
positivi
dal
più
insignificante
degli
avvenimenti,
può
sia
cronicizzarsi
in
stati
paranoici,
sia
dare
adito
a
vere
e
proprie
dissociazioni
dell’Io
prossime
alla
schizofrenia.
Quando,
come
nella
maggior
parte
dei
casi,
la
personalità
delle
vittime
riesce
a
far
argine
alla
fissazione
patologica
degli
stati
di
crisi,
a
ricondurlo
all’esame
di
realtà
del
campo
è la
percezione
d’esser
divenuto
la
vittima
senza
voce
dell’arbitrio
delle
guardie.
L’oggetto
vulnerabile
di
un
destino
barbaro
apparentemente
illogico,
intelligibile
a
qualsiasi
ratio
ed
indifferente
alle
sue
volontà.
Muovendo
gli
ultimi
passi
all’interno
della
prima
fase
di
adattamento
al
Lager,
l’internato
sperimenta
una
sensazione
di
allucinante
ma
consapevole
alienazione
dal
mondo,
giungendo
a
giudicare
«ciò
che
sta
al
di
fuori
del
filo
spinato
(…)
irreale»,
e se
stesso
«perduto»
per
l’al
di
là
concentrazionario.
Un
trattamento
di
pochi
giorni,
osserva
Frankl,
lo
induce
a
cancellare
con
i
ricordi,
la
propria
storia,
«la
vita
trascorsa
finora».
Da
questa
obbligata
autocensura,
la
maggior
parte
dei
detenuti
deriva
allora
un
complesso
d’inferiorità
dovuto,
in
prima
battuta,
al
venir
meno
della
rispettabilità
faticosamente
ottenuta
nella
vita
civile
e
professionale.
Nel
Lager
il
prigioniero
è
letteralmente
una
nullità
anche
per
l’ultimo
dei
sorveglianti,
qualunque
elevato
carica
abbia
potuto
occupare
prima
dell’arresto.
Indotto
a
dimenticare
il
passato
e
consapevole
del
prossimo
avvenire
di
sofferenza,
la
vittima
affronta
de
visu
la
realtà
del
campo
secondo
due
modalità,
solo
per
chi
ignora
i
meccanismi
psicologici
sorprendenti.
Alla
caduta
delle
illusioni,
svanita
la
forza
della
negazione,
la
maggior
parte
di
noi,
ebbe
una
reazione
inattesa:
affiorò
l’umorismo
macabro
della
disperazione
(…).
Sopravvenne
poi
un
altro
sentimento:
curiosità
(…).
Anche
ad
Auschwitz
–
conclude
Frankl
–
prevaleva
quell’atmosfera
di
quasi
oggettivizzazione
del
mondo
e
distacco
dagli
uomini,
di
fredda
curiosità;
ero
lo
stato
d’animo
di
chi
sta
a
vedere
e
attende,
la
disposizione
nella
quale
la
psiche
cerca
di
ritirarsi
per
trovare
la
salvezza.
Curiosità
e
umorismo:
un
umorismo
tragico
e
disincantato,
ricco
di
sfumature,
probabilmente
non
alieno
da
una
certa
vocazione
ebraica
ashkenazita,
che
se
per
Frankl
è
una
«arma
dell’anima
nella
lotta
per
l’autoconservazione»,
con
la
sua
capacità
di
«creare
un
distacco
e di
porre
gli
uomini
al
di
sopra
di
una
certa
situazione»,
quattro
decenni
prima
Freud
giudicava
funzionale
alla
determinazione
di
una
straordinaria
identità
di
struttura
psicologica
fra
umorista
e
ascoltatori,
compartecipi
di
un
rinnovato
sentimento
di
solidarietà,
intesa
e
unità
[Musatti,
1994].
Curiosità
ed
umorismo
coronano,
inoltre,
la
definitiva
transizione
del
detenuto
dalla
fase
dello
choc
a
quella
dell’accettazione
del
campo.
Sintomi
e
segnali
psicologici
finora
descritti,
annuncia
Frankl,
mutano,
e
mentre
lo
stato
traumatico
si
assopisce,
«a
poco
a
poco,
[il
recluso]
muore
internamente»,
e
l’apatia
emerge
come
il
tratto
psicologico
caratterizzante.
Incontriamo
le
pagine
più
amare
e
drammatiche
del
memoriale
di
Viktor
Frankl.
«In
quella
situazione
senza
via
d’uscita
–
annota
–
continuamente
in
pericolo
di
vita,
ogni
giorno,
ogni
ora,
ogni
minuto,
sempre
costretti
a
vedere
la
morte
degli
altri,
della
maggioranza»,
l’apatia,
l’indifferenza,
l’insensibilità,
l’abulia,
il
torpore
intellettuale,
si
mostrano
i
soli
meccanismi
di
autodifesa
efficaci,
nei
quali
«l’animo
del
prigioniero
si
rifugia
ben
presto».
Le
vittime
imparano
a
soffocare
i
propri
impulsi,
ad
evitare
manifestazioni
emotive.
Privati
della
possibilità
d’incidere
sul
corso
della
propria
vita,
si
piegano
al
volere
dei
signori
del
Lager,
per
i
quali
l’annullamento
delle
responsabilità
individuali
nella
folla
amorfa
è
una
finalità.
Anche
quei
pur
minimi
doveri
di
civiltà
che
restano
ascritti
all’internato,
chiosa
Frankl,
cedono
il
passo.
La
fuga
di
fronte
alle
responsabilità
é
generalizzata.
Conscio
di
valere
«solo
in
quanto
ha
un
numero
di
matricola»,
il
prigioniero
crede,
ingannandosi,
d’individuare
la
salvezza
nell’anonimato
della
massa,
di
continuo
coartato
a
varcare
quei
limes
morali
che
da
uomo
libero
rappresentavano
le
sue
bussole
etiche.
Controprova
della
trasformazione
molecolare
avvenuta
un
dato:
l’orrore,
nei
primi
giorni
di
campo
sufficiente
a
sbalordire
l’internato,
ora
semplicemente
gli
scivola
addosso,
senza
turbarlo.
Dichiara
Frankl:
uomini
sadicamente
torturati,
«sofferenti,
malati,
moribondi,
morti,
dopo
alcune
settimane
di
Lager
li
si
incontra
tanto
spesso,
che
la
loro
vita
non
commuove
più».
Il
profilo
del
prigioniero
tratteggiato
sfiora,
a
questo
stadio
della
permanenza
nel
campo,
i
toni
del
grottesco,
permettendoci
–
intrecciando
un
immaginario
dialogo
tra
i
due
pensatori
– di
rispondere
negativamente
al
quesito
posto
da
Gramsci:
«Ma
in
realtà
si
tratta
delle
stesse
persone»
di
prima
dell’imprigionamento?
Condannato
ad
una
reclusione
che
non
conosce
termine
di
fine
pena
–
elemento
dirompente
per
la
psiche
dei
prigionieri
–
l’internato
è un
uomo
indotto
ogni
mattina
a
maledire
il
nuovo
giorno,
dopo
il
brevissimo
ristoro
dell’incoscienza
notturna.
Proprio
il
risveglio,
il
riaffacciarsi
consapevole
dell’Io
nell’universo
concentrazionario,
rappresenta
il
momento
peggiore
della
giornata.
La
monotona
quotidianità
del
campo
è
poi
scandita
dall’appello
e
dal
bestiale
sfruttamento
di
un
lavoro
il
più
delle
volte
inutile,
ad
hoc
concepito
per
abbattere
l’ultimo
baluardo
di
dignità
rimasta
ai
prigionieri.
Che
il
potere
abbia
raggiunto
l’obiettivo,
piegando
i
detenuti
a
livelli
di
vita
determinati
dalle
sole
pulsioni
primarie,
è
testimoniato
dai
dialoghi
intrecciati.
Ex
professori
universitari,
medici,
impiegati
e
operai
specializzati
trascorrono
le
giornate
discutendo
ossessivamente
di
cibo
e di
null’altro,
disquisendo
per
ore
«sulla
logica
o
l’irragionevolezza
di
certi
criteri
per
suddividere
la
piccola
razione
di
pane»;
stilando
elenchi
infiniti
di
menù
di
cui
non
si
rinuncia
a
dipingere
i
più
infimi
particolari;
infine,
dibattendosi
in
quella
illusoria
«masturbazione
dello
stomaco»
che,
svanito
il
momentaneo
sollievo
apportato,
comporta
fin
anche
conseguenze
dannose
per
la
vita
fisiologica.
Sono
la
terribile
spossatezza
cronica
e la
fame,
insiste
Frankl,
a
decidere
il
contenuto
dei
discorsi.
A
spiegare
perché
nel
Lager
«in
generale
tace
l’istinto
sessuale»,
e
perde
di
valore
«tutto
ciò
che
non
è in
rapporto
diretto
con
la
conservazione
della
vita».
Costretto
ad
abdicare
alla
propria
storia
e
alla
propria
identità,
indotto
dagli
imperativi
della
sopravvivenza
ad
uccidere
in
sé
ogni
interesse
superiore,
desessualizzato,
il
recluso
non
può
trovare
sollievo
nelle
pretese
rappresentazioni
artistiche
organizzate
nel
campo,
beffarde
caricature
di
un
passato
lontano
e
perduto.
Il
Lager
abitua
all’orrore,
obbliga
ad
introiettare
un’etica
immorale
che
si
accorda
perfettamente
con
la
svalorizzazione
dell’Io
del
dominato,
con
la
sua
riduzione
a
«essere
di
un
gregge».
Di
nuovo,
incalza
Frankl,
ciò
che
resta
al
prigioniero
è
l’apatia,
«meccanismo
autodifensivo
della
psiche»
che
«mimetizza
la
verità».
Fino
a
che
punto,
però,
l’annullamento
del
Sé
esito
di
una
valorizzazione
del
tempo
presente
funzionale
alla
pura
sopravvivenza,
non
rappresenta
un’insidia
per
la
psiche?
A
Frankl
non
sfugge
che
la
stessa
apatia
contiene
una
forte
carica
ambivalente,
non
essendo
mai
assoluta,
bensì
relativa
e
selettiva
nelle
sue
neutralizzazioni.
L’apatia,
infatti,
si
abbina
all’irritabilità,
l’altro
«dei
caratteri
più
appariscenti
della
psiche
del
prigioniero».
L’irritabilità,
impossibilitata
a
scaricarsi
contro
i
signori
del
perimetro
della
morte,
trova
una
valvola
di
sfogo
eleggendo
a
bersaglio
i
compagni
di
sventura.
Ciò
illustra
perché
i
più
innocui
dei
fraintendimenti
e
dei
malintesi
sfocino
in
rissa,
per
altro
fonte
di
sadico
piacere
per
i
sorveglianti.
E se
le
zuffe
non
sono
avvenimenti
infrequenti,
continua,
tutt’altro
che
sporadica
è,
nel
clima
di
lotta
per
l’esistenza
che
mette
tutti
contro
tutti,
«la
bassezza
di
un
internato
che
fa
del
male
ai
suoi
compagni
di
dolore
(…)».
Significativamente
il
padre
della
logoterapia,
se è
vero
che
riflettere
sulle
realtà
del
Lager
incita
a
porsi
«inquietanti
interrogativi
sulla
natura
umana»
[Bettelheim,
Esperienze
traumatiche,
p.
39],
sembra
a
questo
punto
della
narrazione
avanzare
esitante
di
fronte
a
quel
compito
che,
successivamente,
ne
segnerà
il
tragitto
intellettuale
ed
il
rapporto
con
i
pazienti:
attribuire
un
contenuto
anche
alle
circostanze
più
strazianti
per
padroneggiarle
costruttivamente
e
trarne
una
volontà
di
senso
con
cui
infondere
nuova
linfa
alla
vita.
Uomo
libero
da
pochi
mesi
solo
per
scoprire
d’essere
l’unico
sopravvissuto
del
ramo
europeo
della
propria
famiglia
[Frankl,
2008a]
Frankl
liquida
l’incombenza
di
formulare
un
giudizio
complessivo
sull’esperienza
vissuta
appoggiandosi
alla
citazione
di
«alcuni
compagni
orientati
verso
la
psicoanalisi»,
per
i
quali
–
valutazione
fatta
propria
- i
Lager
sono
la
prova
«di
una
regressione
dell’uomo
(…)
di
un
ritorno
a
una
forma
primitiva
della
vita
spirituale».
Ma
l’universo
concentrazionario,
revival
di
un’età
primordiale,
non
si
compone
solo
delle
vittime.
Mostra,
al
contrario,
di
possedere
e
incoraggiare
una
peculiare
gerarchia,
con
i
suoi
adepti,
i
suoi
carnefici,
spettatori
e
signori.
Misurandosi
con
un
abbozzo
della
«psicologia
delle
sentinelle»,
Frankl
scruta
capeggiare
questa
involuzione
spirituale
l’ufficiale
delle
SS,
«uomo
elegante
e
curato,
ben
diverso
da
noi
miserabili,
segnati
da
notti
insonni,
sciatti».
Incarnazione
anche
simbolica
di
un
potere
che
mira
a
convincere,
con
«la
beatitudine
dell’inflessibilità»
[Pahor,
2009]
ed
il
fascino
macabro
dei
suoi
rituali
[Bettelheim,
Comportamento
di
massa,
p.67],
della
legittimità
del
martirio
imposto
alle
vittime,
al
carnefice
delle
SS
fanno
da
contorno
figure
di
minor
spessore,
non
per
questo
meno
esiziali
nel
giudizio
di
Frankl
nel
contribuire
alla
perpetuazione
della
quotidiano
nichilismo.
Innanzi
tutto
le
sentinelle,
uomini
moralmente
cinici
e
spiritualmente
induriti.
Specularmente
all’internato,
diventate
«del
tutto
insensibili,
a
causa
dei
molti
anni
durante
i
quali
avevano
assistito,
in
misura
sempre
crescente,
ai
sadismi
perpetrati
nel
Lager»,
e
tra
le
cui
file
il
potere
si
cura
di
selezionare
un
gran
numero
di
spietati
esecutori
d’ordini.
In
secondo
luogo
i
Kapos.
E
dopo
di
loro
una
sorta
di
piccola
borghesia
concentrazionaria:
cuochi,
capi
magazzino,
barbieri,
poliziotti
del
campo.
Una
folla
minoritaria
e
composita,
sollecitata
dal
potere
a
difendere
il
proprio
minimo
privilegio
col
sopruso.
Una
moltitudine
abbrutita
capace
non
solo
di
trovare
nel
Lager
un
habitat,
ma,
per
mezzo
delle
stesse
logiche
di
interazione
sociale
che
deprimono
l’autostima
dell’internato,
di
compensare
complessi
d’inferiorità
esperiti
per
anni
nella
vita
civile
con
l’ascesa
sociale
percorsa
dopo
l’arresto.
Apatico,
abbandonato
da
tutti,
vittima
di
un
meccanismo
infernale:
non
c’è
alcuna
speranza
per
il
prigioniero?
No,
risponde
Frankl,
rispolverando
quell’armamentario
argomentativo
che
ne
corrobora
la
polemica
antinaturalista
e
antifreudiana,
e
prima
ancora
lo
ha
allontanato
dalla
tradizione
radicalmente
materialista
e
positivista
della
psichiatria
accademica
tedesca
[Cocks,
1988].
La
mancanza
di
vie
di
salvezza
avrebbe
reso
il
suicidio
una
scelta
comune
e
necessaria.
In
realtà,
scrive,
se
nella
prima
fase
dell’adattamento
al
campo
gli
internati,
traumatizzati,
non
sono
in
grado
di
concepire
l’intendimento,
anche
dopo
l’integrale
scoperta
dell’orrore
essi
si
aggrappano
– o
devono
essere
incoraggiati
a
farlo
–
all’augurio
«che
qualcosa
[li]
aspettava
nella
vita,
nel
futuro
(…)
che
la
vita
attendeva
qualcosa
da
loro
(…)».
Coerentemente
con
questa
impostazione,
precorritrice
di
temi
cari
alla
logoterapia,
e
con
un
antefatto
nell’attività
del
Frankl
medico
nel
nosocomio
Rothschild,
egli
ci
informa
di
come,
quel
simulacro
di
psicoterapia
(o
psico-igiene)
fattibile
nel
Lager
dev’essere
proprio
rivolto
a
rinvigorire
l’anelito
di
sopravvivenza
«di
chi
rivela
di
non
sperare
più
nulla
dalla
vita».
Secondariamente,
«anche
tra
le
sentinelle
del
Lager
vi
furono
–
per
così
dire
–
alcuni
sabotatori
morali»,
poiché
«si
può
trovare
bontà
umana
in
tutti
gli
uomini,
dunque
persino
nel
gruppo
che
sarebbe
assai
semplice
condannare
in
blocco».
I
confini
tra
bene
e
male
non
sono
coordinate
fornite
una
volta
per
sempre.
Infine,
se
la
vita
psichica
dei
condannati
è
«ridotta
a un
livello
assai
primitivo»
e
l’esistenza
nel
Lager
rassomiglia
ad
una
«ibernazione
culturale»,
non
per
questo
l’interesse
per
la
politica
ed
il
sentimento
religioso
vengono
azzerati.
La
mai
sopita
fiducia
nella
ricerca
dei
principi
vòlti
a
dirigere
una
collettività
solidale
verso
scopi
condivisi,
permette
agli
affamati
ed
esausti
reclusi
di
trovare
ancora
la
forza
d’indignarsi
per
l’infondatezza
di
punizioni
arbitrarie
anche
per
la
diabolica
logica
del
campo.
La
religiosità,
invece,
arricchisce
il
prigioniero
di
un’estrema,
infrangibile
corazza
psicologica
e
morale.
Nel
Lager,
stila
Frankl
«diventa
schiavo
(…)
solo
l’individuo
che
s’è
già
lasciato
cadere
prima
spiritualmente;
ma
si
lasciava
cadere
solo
chi
non
aveva
più
un
sostegno
interiore».
Nella
«contemplazione
interiore
dell’essere
amato»,
nella
facoltà
dell’esistenza
umana
di
andare
oltre
se
stessa,
ritrova
nuova
linfa
la
memoria
dei
perseguitati.
Lacerati
dalla
soverchiante
forza
d’urto
delle
condizioni
di
vita
del
campo,
e
dall’urgenza
dell’adattamento
rapido
ai
meccanismi
concentrazionari,
i
ricordi
intimi
tornano
a
poco
a
poco
come
radici
sui
quali
edificare
quel
futuro
in
attesa
oltre
i
reticolati.
All’abulia
e
all’irritabilità
si
affiancano
allora
vecchi/nuovi
stati
psicologici,
vecchie/nuove
emozioni.
La
nostalgia
per
la
gente
di
casa
diventa
sconfinata;
il
timore
per
il
loro
destino,
ignorato,
motivo
di
profonda
inquietudine.
E il
disgusto
per
le
brutture
che
lo
circondano
torna
a
far
capolino
nel
cuore.
Nella
fede
trasparente
in
quell’avvenire
che
il
Lager
vorrebbe
levare
dallo
spazio
mentale
del
recluso,
e
nello
sforzo
teso
ad
orientare
l’esistenza
dell’individuo
«verso
qualcosa
o
qualcuno
che
sta
al
di
fuori
di
se
stesso:
un
significato
da
realizzare
o
un’altra
esistenza
umana
da
incontrare»
[Frankl,
2001],
Frankl
rinviene
le
chiavi,
rispettivamente
soggettive
e
psicoterapeutiche,
della
redenzione:
«Chi
(…)
non
sa
credere
più
nel
futuro,
nel
suo
futuro,
in
un
campo
di
concentramento
è
perduto».
E
derivando
un
assioma
venturo
della
logoterapia
dal
vivo
della
propria
esperienza
di
vittima:
«ogni
tentativo
di
opporsi
attivamente
ai
fenomeni
psicopatologici
originati
dall’internamento»
non
potrà
che
indirizzare
l’uomo
«nuovamente
verso
il
futuro,
verso
uno
scopo
(…)».
L’enfasi
misticheggiante
di
Frankl
tocca
qui
le
sue
vette
più
alte.
Come
ha
scritto
lo
psicologo
americano
Gordon
W.
Allport,
nella
prefazione
all’edizione
statunitense
con
terminologia
che
rischia
di
ingenerare
confusione
di
fronte
al
rebus
della
salvezza
nei
campi
della
morte
[Bettelheim,
Padroni
dei
loro
volti,
p.126],
Frankl
individua
nella
«tendenza
all’interiorizzazione»
e
nella
fede
dell’individuo
per
un
futuro
migliore
«il
segreto
della
sopravvivenza»
[Allport,
2008],
quell’ultimo
appiglio
ove
aggrapparsi
per
continuare
a
vivere
oltre
il
«vuoto
desolante
(…)
dell’esistenza
presente».
Avviatasi
con
il
dichiarato
intento
di
«raffigurare
i
sintomi
psicologici
e di
chiarire
la
psicopatologia
dei
caratteri
tipici
impressi
sull’uomo
dopo
una
lunga
permanenza
in
campo
di
concentramento»;
di
fornire
un
«contributo
alla
psicologia
o
psicopatologia
della
detenzione»,
l’analisi
dell’ex
internato
Frankl
approda
all’originale
disegno
di
una
tesi
che,
se
da
un
lato,
si
espone
alla
critica
di
chi
vi
scorge
il
riflesso
di
meccanismi
difensivi
dell’Io
utili
a
compensare
i
processi
disintegrativi
attivati
dalle
realtà
del
Lager,
dall’altro
è
ricca
di
cadenze
e
argomentazioni
umanistiche
lontane
dalla
tradizione
medico-psicologica
primo
novecentesca.
Temi
e
toni
senza
il
benché
minimo
spazio
nell’analisi
di
Amedeo
Dalla
Volta.