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N. 36 - Dicembre 2010 (LXVII)

Psicologi nel Lager

tra Grande guerra e Shoah - Parte I
di Andrea Scartabellati

 

Prigioniero del regime fascista da oltre sette anni, il 06 marzo 1933 Antonio Gramsci scrive alla cognata Tania con analitico disincanto:

 

Carissima Tania,

ho ancora vivo il ricordo (…) di un paragone che ti ho fatto nel colloquio di domenica per spiegarti ciò che avviene in me. Voglio riprenderlo per trarne alcune conclusioni pratiche che mi interessano. Ti ho detto su per giù così: immagina un naufragio e che un certo numero di persone si rifugino in una scialuppa per salvarsi (…). Prima del naufragio, come è naturale, nessuno dei futuri naufraghi pensava di diventare… naufrago e quindi tanto meno pensava di essere condotto a commettere gli atti che dei naufraghi, in certe condizioni, possono commettere, per esempio, l’atto di diventare… antropofaghi. Ognuno di costoro, se interrogato a freddo su cosa avrebbe fatto nell’alternativa di morire o di diventare cannibale, avrebbe risposto, con la massima buona fede, che, data l’alternativa, avrebbe scelto certamente di morire. Avviene il naufragio, il rifugio nella scialuppa ecc. Dopo qualche giorno, essendo mancati i viveri, l’idea del cannibalismo si presenta in una luce diversa, finché a un certo punto, di quelle persone date, un certo numero diviene davvero cannibale. Ma in realtà si tratta delle stesse persone? Tra i due momenti, quello in cui l’alternativa si presentava come una pura ipotesi teorica e quello in cui l’alternativa si presenta in tutta la forza dell’immediata necessità, è avvenuto un processo di trasformazione molecolare per quanto rapido, nel quale le persone di prima non sono più le persone di poi (…) Ebbene, come ti ho detto, un simile mutamento sta avvenendo in me (cannibalismo a parte). Il più grave è che in questi casi la personalità si sdoppia: una parte osserva il processo, l’altra parte lo subisce, ma la parte osservatrice (finché questa parte esiste significa che c’è un autocontrollo e la possibilità di riprendersi) sente la precarietà della propria posizione, cioè prevede che giungerà un punto in cui la sua funzione sparirà, cioè non ci sarà più autocontrollo, ma l’intera personalità sarà inghiottita da un nuovo individuo con impulsi, iniziative, modi di pensare diversi da quelli precedenti [Gramsci, 1994].

 

Una citazione lunga quella gramsciana, con un pregio tra i tanti. Oltre la pluri-significanza di un termine come biopolitica, circoscrivere tema ed obiettivi della presente comunicazione.

 

Attraverso il prisma delle esperienze vissute e narrate da due psicologi dalla formazione medica, Amedeo Dalla Volta e Viktor Frankl, in contesti storici comparabili con cautela, si perseguiranno sinteticamente due diversi scopi. Da un lato, aggiungere un contributo indiziario allo studio delle trasformazioni molecolari indotte dalla prigionia rispettivamente nei campi d’internamento dell’Austria-Ungheria per i soldati italiani, e nei Lager nazionalsocialisti per i nemici dell’Herrenrasse [Krell e Sherman, 1997]. Dall’altro, affiancando due diverse letture dell’universo concentrazionario in un confronto prospettico, cogliere nessi e dissomiglianze per suggerire nuovi histoire-problème e stimolare una rinnovata riflessione critica su questioni solo in parte approfondite.

 

Prima di addentrami nel case-study, tuttavia, una precisazione.

Data la natura del testo, l’indagine si concentrerà sull’analisi interna degli scritti dei due autori, lasciando a margine dell’esame altri versanti della loro riflessione e del loro vissuto. In questo senso, essa è da intendersi come lettura preliminare all’auspicabile sviluppo di più meditati itinerari euristici. Tra gli aspetti non vagliati, sono da ricordare quelli biografici; o, ancora, quelli concernenti la diversa formazione culturale dei due scienziati, appartenenti a generazioni scientifiche non omologabili. Aspetti, com’è intuibile, tutt’altro che ininfluenti nella redazione dei memoriali. Per non fare che brevi esempi: di Dalla Volta la convinta adesione al fascismo, maturata dal febbraio 1921 sulla scorta dell’esperienza bellica, e nel contesto di un risentimento politico nutrito dal timore di una rivoluzione rossa come sintomo evidente di regressione biologica collettiva, sarà solo accennata. Di Frankl non saranno oggetto d’interesse le sorprendenti ambiguità elencate dal dirompente saggio di Timoty Pytell The Missing Pieces of the Puzzle. A Reflections on the Odd Career of Viktor Frankl [Pytell, 2000], a principiare da una permanenza in Auschwitz di non più di quattro giorni dell’intellettuale viennese che lascerà intendere altro al lettore del celeberrimo Uno psicologo nel Lager. Di entrambi gli autori, infine, la riflessione relativa alle cicatrici tracciate nella psiche e nel corpo dei detenuti dall’esperienza della violenza estrema non troverà che fugaci accenni. Per questi temi, non meno utili di quelli affrontati per inquadrare le figure dei due psicologi, rimando alle segnalazioni in bibliografia [Scartabellati, 2010].

 

Introduzione

 

Che la prigionia, con le connaturate dinamiche di disciplinamento, controllo pervasivo, costrizione fisica, abuso psicologico e, spesso, tortura, rappresenti una fase di passaggio per il temperamento [Lingiardi, 2001] dei detenuti non è un tema sconosciuto alle scienze d’inizio ‘900. Con i lemmi storicamente propri, psicologi, antropologi e psichiatri, hanno occasione di confrontarsi e polemizzare sull’argomento, concordi nell’affrontarlo come una sorta di sistematico esperimento di privazione, pur nella varietà delle forme.

 

Sia nei paesi di lingua tedesca - l’area di elezione di Frankl -, sia, e forse più, nell’ambito culturale italiano, culla di Dalla Volta e patria dell’antropologia criminale [Gibson, 2004; Lindesmith e Levin, 1937], alcune opere destano l’interesse di quegli studiosi che, solerti nel riconoscere con anticipo gli effetti plasmativi della reclusione sulla personalità dei singoli condannati, si mostreranno riluttanti ad accreditare un medesimo effetto alle modalità della guerra totale del 1914-18 [Scartabellati, 2008; Brunner, 2000].

 

In Italia, la polemica sorta a proposito dei risultati dell’inchiesta svolta nelle carceri britanniche da Charles B. Goring, The English Convict. A Statistical Study (1913) [Goring, 1913], con la messa in stato di accusa del positivismo di marca lombrosiana, permette, a latere, di dibattere della reclusione come agente artificiale di mutazione fisio-psichica del reo. Haeckelianamente [AA.VV., 1993], un’involuzione a ritroso nella scala della civiltà rispetto al lineare progresso della specie, la quale, seppur mascherata dalla grammatica lamarckiana, ammette implicitamente la disponibilità del sapere medico a farsi dominus di tali forze trasformative con l’accettazione della subordinazione dell’ambito biopsicologico individuale all’orizzonte politico per mezzo di una prassi medica autoritaria [Scartabellati, 2005]. A dibattere delle conclusioni di Goring rilanciando il lombrosismo è un plotone composto dai nomi più noti della scienza italiana: Giuseppe Sergi, Enrico Morselli, Giuseppe Antonini, Sante De Sanctis, Cesare Agostini. Parentesi curiosa: nello stesso 1913, analogo compito compete a Filippo Saporito, direttore del manicomio di Aversa e, ironia del destino, due decenni dopo, consulente ministeriale periziatore della salute del condannato Gramsci, giudicata, ça va sans dire, abile alle fatiche della galera [Scartabellati, 2009; Saporito, 1913].

 

L’ambito tedesco, apparentemente meno attento all’inizio del secolo al tema assumendo il rozzo criterio della produzione saggistica, mostra invece una straordinaria vigoria dopo lo scoppio delle ostilità nell’agosto del ’14. Se l’idea della guerra-laboratorio circola comunemente nei testi di molti autori pur estranei agli ambienti psichiatrici – si pensi al Musil della “Soldaten-Zeitung” [Fontanari e Libardi, 1992] - il confronto con i militari dell’esercito zarista catturati in Galizia avvia un filone di Prisoner of War Studies. Dedicato ad indagare gli aspetti fisici (preponderanti) e psichici, tale indirizzo di studi considera i prigionieri come materiale di primario interesse analitico, e ha alla propria testa, finanziata dai fondi del Ministero della Guerra, niente meno che la Anthropologische Gesellschaft di Vienna [Berner, 2007].

 

Dalla silloge di testi ampia ed eterogenea frutto della penna di autori di madrelingua tedesca, vorrei ricordarne due.

 

Conosciuto all’epoca in circoli ristretti, il memoriale inedito Alexandra Palace Internment Camp in the First World War (1914-1918) di Rudolf Rocker [2006], un anarchico e pacifista internato a Londra, ha il pregio di cogliere in presa diretta la forza dei processi degenerativi innescati dalla reclusione. Veicolando la consapevolezza di tali distorsioni psicologiche anche negli ambienti intellettuali non medici, Rocker constata come, con la perdita della libertà, «lo stato mentale degli uomini va incontro a una serie di cambiamenti rapidi e dannosi», esito di risposte adattive patologiche ad una gamma di situazioni personali e sociali conflittuali, le cui spie morbose sono l’apatia estrema, la mancanza di memoria, la volubilità del comportamento, il pessimismo, la sfiducia nel futuro, il fatalismo e l’irritabilità pronta a esplodere per la più futile delle ragioni [Scartabellati, 2006].

 

Il secondo testo da menzionare - a differenza del memoriale Rocker coronato dai crismi della metodologia scientifica - ci riporta al genuino discorso clinico, ed è firmato nel 1918 dal chirurgo elvetico Adolf Lukas Vischer, ideatore di una vera e propria sindrome da filo spinato. Tradotto in inglese ed in italiano già nel ‘19, La malattia del reticolato. Contributo alla psicologia del prigioniero di guerra [Vischer, 1919], ricorre ad una serie di comparazioni, tanto interessanti quanto caleidoscopiche, per incanalare l’attenzione degli specialisti verso lo stato di progressivo prosciugamento affettivo [Zoja, 2009] cui soggiace l’internato.

 

«A poco a poco», registra l’ex delegato del Comitato Internazionale della Croce Rossa nell’impero ottomano,

 

il mondo esterno sembra scomparire dalla loro coscienza. Tutta la vita del campo ha qualche cosa di così irreale, che i prigionieri oggi non sanno addirittura più contare sui valori reali. Essi vivono in un certo senso un’esistenza ombra, una esistenza in cui tutto è in tono minore. (…) Ciò che avviene nel mondo esterno diventa a poco a poco estraneo e di difficile comprensione: il mondo spirituale dei prigionieri è completamente riempito dagli oggetti del loro piccolo mondo [Vischer, 1919, pp. 36-36].

 

L’opera di Vischer, terreno d’incontro per un mondo intellettuale cosmopolita intento a riannodare i fili spezzati della polis scientifica di ieri annichilita dalla guerra, farà capolino nelle pagine sia di Dalla Volta, sia di Frankl. Bersaglio polemico per le acute e poco note pagine dello psicologo mantovano, precursore di un’autentica fenomenologia minima del campo di concentramento, le conclusioni del medico svizzero sono invece considerate una redditizia acquisizione iniziale, da ampliare e precisare, dallo studioso viennese. E proprio all’esperienza umana e scientifica di Frankl, muovendoci cronologicamente a ritroso, dedichiamo le prime pagine.

 

Alla ricerca della «esatta natura di tale esperienza»: Uno psicologo nel Lager [2008b] di Viktor Frankl.

 

Psicologo, psichiatra e neurologo, Viktor E. Frankl (1905-1997) è universalmente noto quale padre della logoterapia, altrimenti detta Terza scuola di Vienna [Galimberti, 2006]. Giovanissimo corrispondente di Freud, gli interessi per il socialismo lo avvicinano al movimento adleriano, dal quale si dissocia in seguito per esplorare quella zona di confine tra filosofia e psicoterapia che ne distingue la ricerca intellettuale [Wehr, 1998].

 

Medico nel cosiddetto padiglione delle suicide dell’ospedale di Stato Am Steinhof dal 1933 al ’37, in quanto ebreo è dopo l’Anschluss obbligato a prestare servizio presso l’ospedale Rothschild, il lazzaretto riservato agli israeliti viennesi. Qui, scrivendo una delle pagine più controverse della propria biografia, conduce senza specifica preparazione interventi di psicochirurgia su pazienti che hanno tentato il suicidio per sfuggire la deportazione nazista [Pytell, 2005]. Deportazione che lo colpisce il 25 settembre 1942. Rinchiuso prima a Theresienstadt, dove muore di stenti il padre, quindi ad Auschwitz, dove è gasata l’anziana madre, infine, nelle due filiali di Dachau: Kaufering III e Türkheim, riguadagna la libertà il 27 aprile 1945, dopo oltre 20 mesi di prigionia [Fizzotti, Note biografiche (…)].

 

Viktor Frankl affida ai capitoli del pluristampato Ein Psychologe erlebt das Konzentrationslager la propria riflessione sull’esperienza vissuta. Una meditazione non pregiudicata nella capacità di comprensione dall’urgenza, dalla fretta quasi del dover rendere testimonianza dopo alcune iniziali titubanze.

 

Comprendere: come prima di lui Dalla Volta, e come dopo Adorno, Mitscherlich, Levi e Amery, Frankl è immediatamente conscio che la realtà dei campi spalanca, rivelandolo, un abisso di sofferenza e di abiezione prima sconosciuto all’uomo. C’è un significato da assegnare a questo crollo di civiltà, nel deragliamento collettivo [Friedlaender, 2009] dai cui gironi infernali appunta, anticipando più note riflessioni, «i migliori non sono tornati». Ma spiegare senza lasciarsi influenzare o, peggio, trascinare dall’emotività. Anzi ponendola a margine di un discorso rischiarato dalla luce della scienza, il codice più efficace per decrittare quell’abisso di inumanità capace, attimo dopo attimo, di spingere intenzionalmente le proprie vittime sulla soglia del grande orrore.

 

Richiamando la malattia del reticolato, Frankl elabora la propria esperienza collocandola nel continuum concettuale della psicopatologia della folla. Al classico patrimonio di conoscenze caro a Sighele [1891] e Le Bon [1895], e alle integrazioni apportate nel 1921 da Freud [1921], aggiunge, tuttavia, due peculiari acquisizioni merito infausto della Seconda guerra mondiale aver messo in luce. Il materiale di esperienze psicologiche maturato nelle irripetibili condizioni dei campi di concentramento; e la scoperta della «guerra dei nervi», quella coazione incontrollata alla diffusione di false notizie dal tono esageratamente ottimistico la cui puntuale smentita, da parte della quotidianità concentrazionaria, logora il già scosso spirito dei prigionieri.

 

Alla ricerca di una chiave esemplificativa capace di documentare e riordinare taluni aspetti degli stili adattivi dei prigionieri alle prese con le soverchianti intimidazioni dell’asservimento, Frankl opta per un modello binario, distinguendo due fasi di massima: «la fase dell’accettazione nel campo (…); la fase della vita vera e propria nel Lager (…)».

Nella prima fase, il neoprigioniero è avviluppato da uno choc paralizzante, coronamento terminale di eventi non meno traumatici dell’ingresso nel campo. L’arresto da parte delle forze di sicurezza naziste, il pressante affollamento nel quale è immerso, oppure le massacranti condizioni del trasporto verso la detenzione, si sono già incaricate di indebolire le forze morali delle vittime. La perdita di controllo sugli eventi, repentina quanto radicale; l’eccesso di non senso di situazioni inconciliabili anche con le più pessimistiche previsioni; il graduale carico di ansia che si accumula nella psiche: tutto ciò traccia le prime indelebili cicatrici.

 

Eppure lo choc non s’impone senza incontrare resistenze. Quello che la psichiatria ha etichettato come delirio di grazia, compila Frankl, è uno dei tratti più caratteristici del nuovo arrivato. Costretto a fare i conti con una dinamica distruttiva che non gli lascia nient’altro che «questo corpo nudo (…) questa nostra esistenza letteralmente nuda», l’ostaggio cerca rifugio o nelle fantasie, le quali possono presupporre diverse tonalità, o nella negazione delle mortificanti realtà che lo abbracciano.

 

Naturalmente, questo generale restringimento delle capacità di giudizio, è una co-occorrenza della mancanza di sonno, della fame e del complessivo deperimento fisico; né è ininfluente l’incertezza del futuro appositamente coltivata dai guardiani per esacerbare l’angoscia dei prigionieri.

 

Frankl descrive in poche pagine, senza categorizzarlo, uno dei meccanismi auto-protettivi tipici circoscritti dopo gli anni ’40 dalla psicologia delle extreme situations [Bettelheim, Il limite ultimo, p. 26]: l’impossibilità per la mente umana di valicare una certa soglia di tolleranza dell’orrore senza scivolare nella negazione della situazione traumatizzante [Zoja, op. cit.]. Ma, sottolinea Frankl, la negazione pura e semplice promette di tramutarsi anche in un pericolo per la sopravvivenza. Il falso ottimismo dei detenuti, sempre inclini a scorgere segnali positivi dal più insignificante degli avvenimenti, può sia cronicizzarsi in stati paranoici, sia dare adito a vere e proprie dissociazioni dell’Io prossime alla schizofrenia.

 

Quando, come nella maggior parte dei casi, la personalità delle vittime riesce a far argine alla fissazione patologica degli stati di crisi, a ricondurlo all’esame di realtà del campo è la percezione d’esser divenuto la vittima senza voce dell’arbitrio delle guardie. L’oggetto vulnerabile di un destino barbaro apparentemente illogico, intelligibile a qualsiasi ratio ed indifferente alle sue volontà.

 

Muovendo gli ultimi passi all’interno della prima fase di adattamento al Lager, l’internato sperimenta una sensazione di allucinante ma consapevole alienazione dal mondo, giungendo a giudicare «ciò che sta al di fuori del filo spinato (…) irreale», e se stesso «perduto» per l’al di là concentrazionario. Un trattamento di pochi giorni, osserva Frankl, lo induce a cancellare con i ricordi, la propria storia, «la vita trascorsa finora». Da questa obbligata autocensura, la maggior parte dei detenuti deriva allora un complesso d’inferiorità dovuto, in prima battuta, al venir meno della rispettabilità faticosamente ottenuta nella vita civile e professionale. Nel Lager il prigioniero è letteralmente una nullità anche per l’ultimo dei sorveglianti, qualunque elevato carica abbia potuto occupare prima dell’arresto.

 

Indotto a dimenticare il passato e consapevole del prossimo avvenire di sofferenza, la vittima affronta de visu la realtà del campo secondo due modalità, solo per chi ignora i meccanismi psicologici sorprendenti.

 

Alla caduta delle illusioni, svanita la forza della negazione, la maggior parte di noi, ebbe una reazione inattesa: affiorò l’umorismo macabro della disperazione (…). Sopravvenne poi un altro sentimento: curiosità (…). Anche ad Auschwitz – conclude Frankl – prevaleva quell’atmosfera di quasi oggettivizzazione del mondo e distacco dagli uomini, di fredda curiosità; ero lo stato d’animo di chi sta a vedere e attende, la disposizione nella quale la psiche cerca di ritirarsi per trovare la salvezza.

 

Curiosità e umorismo: un umorismo tragico e disincantato, ricco di sfumature, probabilmente non alieno da una certa vocazione ebraica ashkenazita, che se per Frankl è una «arma dell’anima nella lotta per l’autoconservazione», con la sua capacità di «creare un distacco e di porre gli uomini al di sopra di una certa situazione», quattro decenni prima Freud giudicava funzionale alla determinazione di una straordinaria identità di struttura psicologica fra umorista e ascoltatori, compartecipi di un rinnovato sentimento di solidarietà, intesa e unità [Musatti, 1994].

 

Curiosità ed umorismo coronano, inoltre, la definitiva transizione del detenuto dalla fase dello choc a quella dell’accettazione del campo. Sintomi e segnali psicologici finora descritti, annuncia Frankl, mutano, e mentre lo stato traumatico si assopisce, «a poco a poco, [il recluso] muore internamente», e l’apatia emerge come il tratto psicologico caratterizzante.

 

Incontriamo le pagine più amare e drammatiche del memoriale di Viktor Frankl. «In quella situazione senza via d’uscita – annota – continuamente in pericolo di vita, ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, sempre costretti a vedere la morte degli altri, della maggioranza», l’apatia, l’indifferenza, l’insensibilità, l’abulia, il torpore intellettuale, si mostrano i soli meccanismi di autodifesa efficaci, nei quali «l’animo del prigioniero si rifugia ben presto».

 

Le vittime imparano a soffocare i propri impulsi, ad evitare manifestazioni emotive. Privati della possibilità d’incidere sul corso della propria vita, si piegano al volere dei signori del Lager, per i quali l’annullamento delle responsabilità individuali nella folla amorfa è una finalità. Anche quei pur minimi doveri di civiltà che restano ascritti all’internato, chiosa Frankl, cedono il passo. La fuga di fronte alle responsabilità é generalizzata. Conscio di valere «solo in quanto ha un numero di matricola», il prigioniero crede, ingannandosi, d’individuare la salvezza nell’anonimato della massa, di continuo coartato a varcare quei limes morali che da uomo libero rappresentavano le sue bussole etiche.

 

Controprova della trasformazione molecolare avvenuta un dato: l’orrore, nei primi giorni di campo sufficiente a sbalordire l’internato, ora semplicemente gli scivola addosso, senza turbarlo. Dichiara Frankl: uomini sadicamente torturati, «sofferenti, malati, moribondi, morti, dopo alcune settimane di Lager li si incontra tanto spesso, che la loro vita non commuove più».

 

Il profilo del prigioniero tratteggiato sfiora, a questo stadio della permanenza nel campo, i toni del grottesco, permettendoci – intrecciando un immaginario dialogo tra i due pensatori – di rispondere negativamente al quesito posto da Gramsci: «Ma in realtà si tratta delle stesse persone» di prima dell’imprigionamento?

 

Condannato ad una reclusione che non conosce termine di fine pena – elemento dirompente per la psiche dei prigionieri – l’internato è un uomo indotto ogni mattina a maledire il nuovo giorno, dopo il brevissimo ristoro dell’incoscienza notturna. Proprio il risveglio, il riaffacciarsi consapevole dell’Io nell’universo concentrazionario, rappresenta il momento peggiore della giornata.

 

La monotona quotidianità del campo è poi scandita dall’appello e dal bestiale sfruttamento di un lavoro il più delle volte inutile, ad hoc concepito per abbattere l’ultimo baluardo di dignità rimasta ai prigionieri.

 

Che il potere abbia raggiunto l’obiettivo, piegando i detenuti a livelli di vita determinati dalle sole pulsioni primarie, è testimoniato dai dialoghi intrecciati. Ex professori universitari, medici, impiegati e operai specializzati trascorrono le giornate discutendo ossessivamente di cibo e di null’altro, disquisendo per ore «sulla logica o l’irragionevolezza di certi criteri per suddividere la piccola razione di pane»; stilando elenchi infiniti di menù di cui non si rinuncia a dipingere i più infimi particolari; infine, dibattendosi in quella illusoria «masturbazione dello stomaco» che, svanito il momentaneo sollievo apportato, comporta fin anche conseguenze dannose per la vita fisiologica.

 

 Sono la terribile spossatezza cronica e la fame, insiste Frankl, a decidere il contenuto dei discorsi. A spiegare perché nel Lager «in generale tace l’istinto sessuale», e perde di valore «tutto ciò che non è in rapporto diretto con la conservazione della vita».

 

Costretto ad abdicare alla propria storia e alla propria identità, indotto dagli imperativi della sopravvivenza ad uccidere in sé ogni interesse superiore, desessualizzato, il recluso non può trovare sollievo nelle pretese rappresentazioni artistiche organizzate nel campo, beffarde caricature di un passato lontano e perduto.

 

Il Lager abitua all’orrore, obbliga ad introiettare un’etica immorale che si accorda perfettamente con la svalorizzazione dell’Io del dominato, con la sua riduzione a «essere di un gregge».

 

Di nuovo, incalza Frankl, ciò che resta al prigioniero è l’apatia, «meccanismo autodifensivo della psiche» che «mimetizza la verità».

 

Fino a che punto, però, l’annullamento del Sé esito di una valorizzazione del tempo presente funzionale alla pura sopravvivenza, non rappresenta un’insidia per la psiche? A Frankl non sfugge che la stessa apatia contiene una forte carica ambivalente, non essendo mai assoluta, bensì relativa e selettiva nelle sue neutralizzazioni.

 

L’apatia, infatti, si abbina all’irritabilità, l’altro «dei caratteri più appariscenti della psiche del prigioniero». L’irritabilità, impossibilitata a scaricarsi contro i signori del perimetro della morte, trova una valvola di sfogo eleggendo a bersaglio i compagni di sventura. Ciò illustra perché i più innocui dei fraintendimenti e dei malintesi sfocino in rissa, per altro fonte di sadico piacere per i sorveglianti. E se le zuffe non sono avvenimenti infrequenti, continua, tutt’altro che sporadica è, nel clima di lotta per l’esistenza che mette tutti contro tutti, «la bassezza di un internato che fa del male ai suoi compagni di dolore (…)».

 

Significativamente il padre della logoterapia, se è vero che riflettere sulle realtà del Lager incita a porsi «inquietanti interrogativi sulla natura umana» [Bettelheim, Esperienze traumatiche, p. 39], sembra a questo punto della narrazione avanzare esitante di fronte a quel compito che, successivamente, ne segnerà il tragitto intellettuale ed il rapporto con i pazienti: attribuire un contenuto anche alle circostanze più strazianti per padroneggiarle costruttivamente e trarne una volontà di senso con cui infondere nuova linfa alla vita.

 

Uomo libero da pochi mesi solo per scoprire d’essere l’unico sopravvissuto del ramo europeo della propria famiglia [Frankl, 2008a] Frankl liquida l’incombenza di formulare un giudizio complessivo sull’esperienza vissuta appoggiandosi alla citazione di «alcuni compagni orientati verso la psicoanalisi», per i quali – valutazione fatta propria - i Lager sono la prova «di una regressione dell’uomo (…) di un ritorno a una forma primitiva della vita spirituale».

 

Ma l’universo concentrazionario, revival di un’età primordiale, non si compone solo delle vittime. Mostra, al contrario, di possedere e incoraggiare una peculiare gerarchia, con i suoi adepti, i suoi carnefici, spettatori e signori.

 

Misurandosi con un abbozzo della «psicologia delle sentinelle», Frankl scruta capeggiare questa involuzione spirituale l’ufficiale delle SS, «uomo elegante e curato, ben diverso da noi miserabili, segnati da notti insonni, sciatti».

 

Incarnazione anche simbolica di un potere che mira a convincere, con «la beatitudine dell’inflessibilità» [Pahor, 2009] ed il fascino macabro dei suoi rituali [Bettelheim, Comportamento di massa, p.67], della legittimità del martirio imposto alle vittime, al carnefice delle SS fanno da contorno figure di minor spessore, non per questo meno esiziali nel giudizio di Frankl nel contribuire alla perpetuazione della quotidiano nichilismo.

 

Innanzi tutto le sentinelle, uomini moralmente cinici e spiritualmente induriti. Specularmente all’internato, diventate «del tutto insensibili, a causa dei molti anni durante i quali avevano assistito, in misura sempre crescente, ai sadismi perpetrati nel Lager», e tra le cui file il potere si cura di selezionare un gran numero di spietati esecutori d’ordini.

In secondo luogo i Kapos.

 

E dopo di loro una sorta di piccola borghesia concentrazionaria: cuochi, capi magazzino, barbieri, poliziotti del campo. Una folla minoritaria e composita, sollecitata dal potere a difendere il proprio minimo privilegio col sopruso. Una moltitudine abbrutita capace non solo di trovare nel Lager un habitat, ma, per mezzo delle stesse logiche di interazione sociale che deprimono l’autostima dell’internato, di compensare complessi d’inferiorità esperiti per anni nella vita civile con l’ascesa sociale percorsa dopo l’arresto.

 

Apatico, abbandonato da tutti, vittima di un meccanismo infernale: non c’è alcuna speranza per il prigioniero? No, risponde Frankl, rispolverando quell’armamentario argomentativo che ne corrobora la polemica antinaturalista e antifreudiana, e prima ancora lo ha allontanato dalla tradizione radicalmente materialista e positivista della psichiatria accademica tedesca [Cocks, 1988].

 

La mancanza di vie di salvezza avrebbe reso il suicidio una scelta comune e necessaria. In realtà, scrive, se nella prima fase dell’adattamento al campo gli internati, traumatizzati, non sono in grado di concepire l’intendimento, anche dopo l’integrale scoperta dell’orrore essi si aggrappano – o devono essere incoraggiati a farlo – all’augurio «che qualcosa [li] aspettava nella vita, nel futuro (…) che la vita attendeva qualcosa da loro (…)». Coerentemente con questa impostazione, precorritrice di temi cari alla logoterapia, e con un antefatto nell’attività del Frankl medico nel nosocomio Rothschild, egli ci informa di come, quel simulacro di psicoterapia (o psico-igiene) fattibile nel Lager dev’essere proprio rivolto a rinvigorire l’anelito di sopravvivenza «di chi rivela di non sperare più nulla dalla vita».

 

Secondariamente, «anche tra le sentinelle del Lager vi furono – per così dire – alcuni sabotatori morali», poiché «si può trovare bontà umana in tutti gli uomini, dunque persino nel gruppo che sarebbe assai semplice condannare in blocco». I confini tra bene e male non sono coordinate fornite una volta per sempre.

 

Infine, se la vita psichica dei condannati è «ridotta a un livello assai primitivo» e l’esistenza nel Lager rassomiglia ad una «ibernazione culturale», non per questo l’interesse per la politica ed il sentimento religioso vengono azzerati.

 

La mai sopita fiducia nella ricerca dei principi vòlti a dirigere una collettività solidale verso scopi condivisi, permette agli affamati ed esausti reclusi di trovare ancora la forza d’indignarsi per l’infondatezza di punizioni arbitrarie anche per la diabolica logica del campo. La religiosità, invece, arricchisce il prigioniero di un’estrema, infrangibile corazza psicologica e morale. Nel Lager, stila Frankl «diventa schiavo (…) solo l’individuo che s’è già lasciato cadere prima spiritualmente; ma si lasciava cadere solo chi non aveva più un sostegno interiore».

 

Nella «contemplazione interiore dell’essere amato», nella facoltà dell’esistenza umana di andare oltre se stessa, ritrova nuova linfa la memoria dei perseguitati. Lacerati dalla soverchiante forza d’urto delle condizioni di vita del campo, e dall’urgenza dell’adattamento rapido ai meccanismi concentrazionari, i ricordi intimi tornano a poco a poco come radici sui quali edificare quel futuro in attesa oltre i reticolati. All’abulia e all’irritabilità si affiancano allora vecchi/nuovi stati psicologici, vecchie/nuove emozioni. La nostalgia per la gente di casa diventa sconfinata; il timore per il loro destino, ignorato, motivo di profonda inquietudine.

E il disgusto per le brutture che lo circondano torna a far capolino nel cuore.

 

Nella fede trasparente in quell’avvenire che il Lager vorrebbe levare dallo spazio mentale del recluso, e nello sforzo teso ad orientare l’esistenza dell’individuo «verso qualcosa o qualcuno che sta al di fuori di se stesso: un significato da realizzare o un’altra esistenza umana da incontrare» [Frankl, 2001], Frankl rinviene le chiavi, rispettivamente soggettive e psicoterapeutiche, della redenzione: «Chi (…) non sa credere più nel futuro, nel suo futuro, in un campo di concentramento è perduto». E derivando un assioma venturo della logoterapia dal vivo della propria esperienza di vittima: «ogni tentativo di opporsi attivamente ai fenomeni psicopatologici originati dall’internamento» non potrà che indirizzare l’uomo «nuovamente verso il futuro, verso uno scopo (…)». L’enfasi misticheggiante di Frankl tocca qui le sue vette più alte.

 

Come ha scritto lo psicologo americano Gordon W. Allport, nella prefazione all’edizione statunitense con terminologia che rischia di ingenerare confusione di fronte al rebus della salvezza nei campi della morte [Bettelheim, Padroni dei loro volti, p.126], Frankl individua nella «tendenza all’interiorizzazione» e nella fede dell’individuo per un futuro migliore «il segreto della sopravvivenza» [Allport, 2008], quell’ultimo appiglio ove aggrapparsi per continuare a vivere oltre il «vuoto desolante (…) dell’esistenza presente».

 

Avviatasi con il dichiarato intento di «raffigurare i sintomi psicologici e di chiarire la psicopatologia dei caratteri tipici impressi sull’uomo dopo una lunga permanenza in campo di concentramento»; di fornire un «contributo alla psicologia o psicopatologia della detenzione», l’analisi dell’ex internato Frankl approda all’originale disegno di una tesi che, se da un lato, si espone alla critica di chi vi scorge il riflesso di meccanismi difensivi dell’Io utili a compensare i processi disintegrativi attivati dalle realtà del Lager, dall’altro è ricca di cadenze e argomentazioni umanistiche lontane dalla tradizione medico-psicologica primo novecentesca.

 

Temi e toni senza il benché minimo spazio nell’analisi di Amedeo Dalla Volta.


 

 

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