N. 26 - Febbraio 2010
(LVII)
la provincia di Britannia
Una convenienza amministrativa - PARTE II
di Valentina Riccio
Soltanto
con
Claudio
la
Britannia
venne
conquistata.
Sembra
che
egli,
privo
di
esperienze
e
glorie
militari,
avesse
la
necessità
di
ottenerne
per
rinforzare
la
propria
posizione.
L’isola
sarebbe
stata
il
luogo
in
cui
realizzare
più
facilmente
tale
successo,
essendo
già
stata
perlustrata
da
Cesare;
inoltre,
Caligola,
con
il
suo
tentativo
fallito
nel
37,
in
qualche
modo
aveva
reso
possibile
intraprendere
un
progetto
di
conquista
che
doveva
soltanto
essere
portato
a
termine,
nonostante
l’isola
costituisse
ancora
una
terra
molto
misteriosa.
La
spedizione
fu
intrapresa
dal
generale
Aulo
Pluzio,
non
senza
difficoltà.
Il
suo
successo
venne
celebrato
in
più
modi:
con
la
proclamazione
a
imperator
da
parte
dell’esercito
più
volte,
fatto
di
per
sé
eccezionale;
anche
il
senato
volle
premiarlo
conferendogli
il
cognomen
ex
virtute
di
Britannicus
e
onorandolo
con
il
trionfo.
Inoltre,
furono
eretti
due
archi
trionfali
per
ricordare
l’impresa:
uno
a
Roma,
sulla
via
Flaminia,
l’altro
in
Gallia,
nel
luogo
da
dove
l’imperatore
era
salpato
per
raggiungere
l’isola,
ma
di
quest’ultimo
non
sono
rimaste
tracce.
Nonostante
la
conquista
relativamente
tarda,
tra
Roma
e la
Britannia,
come
si è
detto,
ci
fu
un
continuo
contatto
prima
della
creazione
della
provincia,
che
se
non
coinvolgeva
tanto
le
due
parti
sotto
il
profilo
politico-militare,
si
manifestava,
invece,
in
un
incontro
culturale
mediato
dal
settore
dell’economia
e
del
commercio,
principale
mezzo
di
diffusione
di
modelli
romani
(soprattutto
nell’ambito
della
cultura
materiale)
prima
della
nascita
della
provincia.
In
tal
senso,
il
processo
di
romanizzazione
attraversò
una
fase
di
“precorso”,
di
incontro
necessario
su
cui
innestare
la
natura
del
sistema
dominante,
in
questo
caso
quello
romano.
Tralasciando
i
contatti
precedenti
l’arrivo
di
Cesare
sull’isola,
tale
fase
di
più
stretta
vicinanza
durò
all’incirca
un
secolo,
dunque
fu
piuttosto
prolungata,
ed
ebbe
sicuramente
il
suo
peso
nel
risvolto
della
fase
successiva,
in
cui
l’obiettivo
principale
fu
quello
di
inserire
la
Britannia
nell’impero
di
Roma.
Proprio
dal
successo
di
Claudio,
gli
studiosi
iniziano
a
parlare
propriamente
di
Britannia
romana,
non
solo
perché
essa
acquisì
ufficialmente
lo
status
di
provincia,
ma
anche
perché,
parallelamente
all’innesto
dell’impianto
amministrativo,
si
compì
il
vero
e
proprio
tentativo
di
romanizzarla
attraverso
l’importazione
di
un
modello
alquanto
standardizzato,
che
ricalcava
le
istituzioni
e il
modo
di
vivere
romano.
Il
caso
britannico
si
configura,
comunque,
come
del
tutto
particolare
rispetto
a
molte
altre
province.
Tutti
gli
studiosi
concordano
sulla
non
riuscita
romanizzazione
dell’isola,
o
meglio
sul
fatto
che
il
processo
fu
incompleto.
La
Britannia,
pur
restando
parte
del
mondo
romano
per
circa
quattro
secoli
in
cui
l’interazione
col
centro
avrebbe
potuto
portarsi
a
compimento,
non
raggiunse
i
risultati
sperati.
Tralasciando
la
questione
della
mancata
sottomissione
delle
Highlands,
la
cospicua
parte
dell’isola
che
divenne
provincia
fu
nel
complesso
piuttosto
restia
a
romanizzarsi,
come
già
sottolineato
in
precedenza,
e la
popolazione
non
era
pronta
ad
accogliere
il
modello
romano.
Soltanto
nella
fascia
geografica
sud-orientale
esso
attecchì
in
maniera
migliore
e
con
meno
sforzi,
anche
se
non
giunse
a
completarsi.
Come
si è
detto,
per
meglio
definire
l’incontro
tra
le
culture
delle
due
realtà,
S.
Frere
ha
introdotto
il
concetto
di
Romano-British
culture,
evidenziando
il
parallelismo
tra
l’elemento
celtico
e
quello
romano.
Secondo
lo
studioso,
l’influenza
dell’apporto
culturale
proveniente
dal
Mediterraneo
non
fu
tale
da
cancellare
il
contributo
indigeno,
o
quantomeno
da
sovrapporsi
ad
esso:
le
due
parti,
perciò,
si
unirono
in
una
sintesi
di
elementi.
La
presenza
dell’esercito
fu
importante
soprattutto
perché
segnò
un
cambiamento
significativo
nell’articolazione
del
potere,
e
rese
in
questo
modo
evidente
il
passaggio
verso
una
nuova
èra.
I
più
efficaci
strumenti
del
potere
erano
le
legioni
e
gli
auxilia,
e il
43 è
la
data
chiave
a
partire
dalla
quale
furono
percepiti
in
questa
maniera:
non
si
tratta
dell’anno
in
cui
i
regni
indigeni
cessarono
di
esistere,
né
quello
in
cui
le
civitates
presero
corpo,
ma
in
cui
il
potere
subì
un
cambiamento
significativo
che
vide
l’esercito
quale
garante
dell’equilibrio
a
partire
dall’uso
della
forza.
Le
giovani
dinastie
dei
regni
indigeni
si
assicuravano
il
dominio
attraverso
l’eliminazione
fisica
di
coloro
che
proclamavano
il
proprio
dissenso
politico
oppure,
in
maniera
molto
meno
conveniente,
con
la
riduzione
in
schiavitù
dei
loro
avversari:
ciò
si
allentò
in
maniera
particolare
quando
a
sovrastare
i
poteri
locali
si
impose
l’esercito.
In
effetti,
dopo
la
conquista
e
l’annessione
i
regni
“amici”
di
Roma,
le
dinastie
indigene
non
posero
particolari
ostacoli
alle
truppe
che
operavano
tra
loro.
Secondo
quanto
esposto
da
S.
Frere,
la
città
romano-britanna
è
però
più
un
adattamento
che
una
vera
adozione
della
classica
forma
cittadina.
Tuttavia,
ciò
non
va
inteso,
secondo
lo
studioso,
come
una
mancanza,
ma
come
il
risultato
della
vitale
sintesi
tra
le
due
parti.
In
sostanza,
le
città
si
configuravano
quasi
come
delle
“isole
romane”
all’interno
di
un
ambiente
straniero,
e
non
sarebbe
stato
possibile
esprimere
una
totale
romanità
laddove
non
era
pienamente
recepibile.
Il
mondo
romano
portò
con
sé
tutta
una
serie
di
concetti
e
oggetti
per
i
quali
non
esisteva
un
equivalente
britannico:
i
termini
connessi
all’amministrazione,
all’educazione,
ma
anche
agli
oggetti
di
uso
quotidiano,
alle
costruzioni,
il
calendario,
erano
assenti
nel
mondo
britannico.
Dal
momento
che,
con
l’arrivo
dei
Romani,
scomparvero
le
iscrizioni
celtiche
dall’isola,
il
cambiamento
del
sistema
politico
fu
particolarmente
evidente:
l’uso
delle
iscrizioni
in
lingua
latina
soppiantò
l’uso
di
quelle
in
lingua
celtica.
Il
mondo
romano,
infatti,
comunicava
attraverso
di
esse;
Roma
stessa
era
una
città
costellata
da
questa
forma
di
comunicazione
utile,
immediata,
indelebile.
I
romani,
dunque,
non
sconvolsero
completamente
la
realtà
britanna,
anzi,
le
suddivisioni
tribali
vennero
mantenute
e
trasformate
in
civitates,
che
D.
Mattingly
definisce
appunto
come
una
«convenienza
amministrativa
che
ricalcava
le
tribù
dell’età
del
ferro»
e
proprio
per
questo
è
stato
possibile
individuare
l’estensione
di
quei
distretti,
a
seconda
della
distribuzione
del
conî
dei
sovrani
britanni,
che
hanno
rivelato
che
le
tribù
occupavano
territori
considerevoli
e
dunque
le
civitates
della
Britannia
erano
di
dimensioni
maggiori
rispetto
a
quelle
galliche.
Si
trattava,
comunque,
di
civitates
peregrinae,
aree
legalmente
stabilite,
anche
se
riconosciute
come
straniere,
in
cui
l’intervento
romano
fu
decisivo
nel
determinare
una
diversa
distribuzione
demografica.
Gli
abitanti
delle
città
peregrinae
non
godevano
di
alcun
tipo
di
privilegio;
in
quanto
stranieri,
infatti,
non
potevano
sposare
cittadini
romani,
né
commerciare
liberamente,
ed
erano
limitati
anche
in
materia
di
giustizia,
eredità,
affrancamento.
Soltanto
l’imperatore
poteva
concedere
la
cittadinanza
romana,
oppure
poteva
essere
acquisita
dopo
venticinque
anni
di
servizio
militare.
Ognuna
di
esse,
come
di
consueto,
aveva
una
capitale
in
cui
si
concentrava
la
direzione
amministrativa
con
la
curia
e i
duoviri,
a
cui
erano
sottoposti
edili,
questori
e
seviri
augustali.
Secondo
M.
Millet,
alcune
di
esse
possono
aver
avuto
origine
dai
vici,
cioè
quei
piccoli
insediamenti
civili,
prossimi
agli
accampamenti
militari
e
gestiti
dagli
ufficiali
dell’esercito,
ma
adtributi
alla
città
più
vicina.
È
stato
possibile,
invece,
compiere
alcune
ricerche
sui
vici,
di
cui
è si
è
potuta
ricavare
qualche
notizia
in
più,
dato
il
loro
profondo
legame
con
gli
insediamenti
militari.
Si
trattava
di
numerosi
centri
satelliti
sotto
la
tutela
del
capoluogo,
che,
in
certi
casi,
costituirono
probabilmente
delle
comunità
con
diritto
di
giurisdizione.
Non
si
esclude,
dunque,
che
potessero
avere
una
parziale
autonomia
e
dei
magistrati
propri;
è
quanto
suppone
S.
Frere,
che
li
definisce
«la
più
piccola
unità
di
autogoverno
nelle
province
romane».
In
ogni
caso,
questa
loro
prerogativa
andò
perduta
col
tempo;
di
certo,
dal
II
secolo
in
avanti
i
loro
magistrati
vennero
sottoposti
al
controllo
di
una
nuova
figura,
il
curator
rei
Publicae,
che
si
occupava
del
sovrintendere
alle
attività
dei
magistrati
cittadini.
La
formazione
dei
vici
fu
lenta
e
graduale.
La
sola
costruzione
degli
accampamenti
militari
richiedeva
settimane,
e
non
è
stato
possibile,
a
livello
archeologico,
determinare
l’anno
esatto
di
fondazione
di
un
vicus,
in
quanto
il
processo
di
nascita
e
trasformazione
in
centro
abitato
poteva
richiedere
anche
degli
anni,
man
mano
che
i
militari
congedati
decidevano
di
stabilirsi.
Secondo
A.
Birley,
l’insediamento
veniva
occupato
sempre
più
con
la
liberazione
del
forte
adiacente,
e
perciò
si
doveva
impiegare
più
di
una
stagione.
Spesso
questi
centri
vennero
confusi
con
le
canabae,
che
si
formavano
in
prossimità
delle
frontiere
attorno
agli
accampamenti
legionari,
allo
scopo
di
ospitare
mercanti
e
famiglie
dei
legionari.
La
distinzione
tra
questi
insediamenti
e il
vicus
è
stata
problematica
proprio
per
la
similarità
nelle
caratteristiche
e
per
l’inadeguata
differenziazione
nelle
fonti
epigrafiche.
C.
Sommer,
pur
rilevando
che
in
molte
iscrizioni
rinvenute
in
Britannia
compaiano
ambedue
i
nomi
per
fare
riferimento
a
uno
stesso
luogo,
suggerisce
una
gerarchizzazione
tra
i
due
tipi
di
insediamenti:
le
canabae
sarebbero
gli
insediamenti
adiacenti
agli
accampamenti
e
soggetti
al
diretto
controllo
militare,
mentre
i
vici
dovevano
essere
unità
più
indipendenti.
Le
loro
dimensioni
erano
paragonabili
a
quelle
dei
nostri
paesi,
con
una
popolazione
che
variava
da
300
a
1500
abitanti,
e la
varietà
al
loro
interno
rispecchiava
quella
che
si
poteva
trovare
in
ogni
città:
infatti,
non
erano
abitati
soltanto
da
soldati,
ma
anche
da
veterani
con
le
loro
famiglie,
uomini
politici,
mercanti,
schiavi,
liberti;
inoltre,
tutte
le
attività
(commerciali,
agricole,
industriali)
erano
essenzialmente
praticate.
In
effetti,
la
presenza
dell’esercito
e le
necessità
collegate
al
forte
nelle
vicinanze
stimolarono
l’attività
economica
e la
crescita
dei
vici.
Nonostante
si
trattasse
di
ambiti
economici
relativamente
chiusi,
l’aumento
della
popolazione
potrebbe
aver
avuto
come
conseguenza
lo
sviluppo
di
un
sistema
di
villae,
che
rifornivano
di
prodotti,
introducendo
sul
mercato
le
eccedenze
delle
città
e
soddisfacendo
le
esigenze
dei
centri
vicini
in
tempo
di
carestia.
Inoltre,
grazie
allo
sviluppo
economico
e
all’aumento
demografico,
alcuni
di
questi
insediamenti
si
trasformarono
in
vere
e
proprie
città.
È
interessante,
a
questo
proposito,
lo
schema
delineato
da
M.
Millet,
che
ricostruisce
le
fasi
del
processo:
è
proprio
l’esercito,
attraverso
lo
stanziamento
nel
forte,
ad
influire
notevolmente
sull’economia
primitiva
della
campagna
circostante,
adattandola
alle
proprie
esigenze
e
realizzando,
quindi,
un
vicus.
Durante
questa
fase,
l’insediamento
resta
economicamente
dipendente
dal
forte
ma,
in
seguito
a un
eventuale
spostamento
dell’esercito,
si
rendeva
obbligato
il
raggiungimento
dell’indipendenza
economica.
Secondo
Millet,
ciò
imponeva
che
l’insediamento,
per
continuare
ad
esistere,
assumesse
sempre
più
i
tratti
di
una
struttura
urbana
vera
e
propria.
In
questa
fase
fu
determinante
il
controllo
romano:
il
sistema
amministrativo
continuava
nell’esercizio
delle
sue
funzioni,
e la
capitale
della
civitas
proseguiva
nel
suo
ruolo
di
conservazione
della
natura
del
potere
di
Roma,
attraverso
la
riscossione
dei
tributi
e il
coinvolgimento
dell’élite
locale.
L’azione
dell’amministrazione
romana
rimodellava
e
rinforzava
così
la
società
conquistata;
proprio
grazie
a
questo
sistema,
il
vicus
poteva
sviluppare
un
nuovo
centro
cittadino.
In
altri
casi,
le
capitali
delle
civitates
potevano
essere
città
con
statuti
particolari
come
il
municipium
o la
colonia
di
veterani:
un
esempio
molto
significativo
di
applicazione
del
modello
coloniale
è
certamente
Camulodunum,
o
meglio
la
Colonia
Claudia
Victricensis
Camulodunensium,
prima
capitale
della
provincia,
nata
nel
49
per
decisione
del
governatore
Ostorio
Scapula,
che
affidò
il
forte
romano
ai
veterani
della
legione
XX
Valeria,
i
quali,
come
testimoniano
moltissime
iscrizioni,
popolarono
la
prima
vera
città
romana
in
Britannia,
sostituendo
il
vecchio
oppidum
celtico.
La
città,
dunque,
conservò
il
suo
carattere
militare.
Per
un
po’
di
anni,
i
coloni
poterono
agire
in
sostituzione
della
legione;
allo
stesso
tempo,
ebbero
un
ruolo
molto
importante,
cioè
quello
di
operare
come
modello
per
la
vita
civile
e
politica
della
città
romana,
in
cui
i
Britanni
si
riunivano
annualmente
per
assolvere
il
loro
obbligo
nei
confronti
del
culto
imperiale.
A
questo
proposito,
non
va
dimenticato
che
Camulodunum,
essendo
capitale
della
provincia,
e
rappresentava
perciò
il
cuore
dell’amministrazione
romana,
del
movimento
economico,
del
vivere
civile;
era
il
luogo
destinato
a
custodire
e ad
irradiare
l’autorità
di
Roma
e
dell’imperatore.
Si
venne
a
creare,
così,
un
agglomerato
che
doveva
comprendere
il
vecchio
insediamento
militare
e la
nuova
superficie
in
cui
si
insediarono
i
veterani.
Anche
qui
venne
realizzato
un
sistema
di
strade
che
configurò
la
pianta
urbana
secondo
il
complesso
creato
in
precedenza
per
il
forte
(il
quale,
a
sua
volta,
già
rimpiazzava
il
vecchio
oppidum)
e,
in
questo
modo,
nacquero
dei
blocchi
di
spazio
in
cui
costruire
edifici
pubblici
e
privati,
cioè
i
quartieri
(insulae).
A
Camulodunum
i
quartieri
furono
quattro,
e
sorsero
un
teatro,
un
tempio
e
una
basilica;
mancava,
invece,
un
anfiteatro.
J.
Creighton
fa
notare,
però,
che
la
città
non
ebbe
uno
sviluppo
organico,
e
che
la
sistemazione
degli
edifici
pubblici
non
fu
ben
pianificata,
ma
adattata
secondo
le
opportunità
che
offrivano
i
nuovi
spazi:
il
centro
amministrativo
rimase
inizialmente
all’interno
del
vecchio
forte,
mentre
gli
edifici
pubblici
vennero
costruiti
in
aree
periferiche
del
territorio
annesso,
che
si
trasformò
in
quartiere
centrale
con
lo
sviluppo
dell’ambiente
cittadino
nel
corso
del
tardo
I
secolo
e
del
secondo.
Nel
nome,
Colonia
Claudia
Camulodunensium,
la
colonia
ricordava
il
successo
di
Claudio
e
anche
la
comunità
che
abitava
in
precedenza
l’insediamento.
Nel
61,
dopo
la
vittoria
sulla
regina
Boudicca,
le
fu
aggiunto
l’appellativo
Victricensis,
in
onore
dei
veterani
della
legione
XX
Valeria
lì
stanziati.
La
legione,
infatti,
a
motivo
del
ruolo
determinante
nel
corso
dello
scontro
con
gli
Iceni,
che
erano
quasi
riusciti
nell’intento
di
distruggere
la
colonia
romana,
era
stata
premiata
con
il
titolo
di
Victrix,
ossia
“vincitrice”.
A
popolare
la
città
furono
veterani
di
varia
origine
(poiché
reclutati
in
province
diverse
dell’impero),
e
anche
dai
loro
schiavi
e
soprattutto
da
incolae.
L’aumento
demografico
fu
graduale
e
determinato
dal
fatto
che
si
trattava
della
capitale
della
provincia.
Oltre
ad
essere
il
centro
nevralgico
della
vita
politica,
la
capitale
fu
anche
il
luogo
in
cui
i
cittadini
assolvevano
i
loro
obblighi
nei
confronti
del
culto
dell’imperatore.
Come
già
accennato,
infatti,
a
Camulodunum
fu
costruito
un
tempio,
a
est
del
forte
romano,
il
primo
luogo
sacro
monumentale
della
Britannia,
che
venne
dedicato
all’imperatore
Claudio.
La
città,
dunque,
fu
solo
un
esempio
tra
tante
città
che
si
configurarono
come
delle
vere
e
proprie
“isole
romane”
all’interno
di
quell’ambiente
particolare,
in
cui
si
concretizzò
un
incontro-scontro
tra
protostoria
e
storia.
Riferimenti
bibliografici:
Barrett
A.A.,
Claudius’
British
Victory
Arch
in
Rome,
“Britannia”
XXII,
1991.
Camodeca
G.,
Curatores
Rei
Publicae,
in
Aufstieg
und
Niedergang
der
Römischen
Welt:
Geschichte
und
Kultur
Roms
im
Spiegel
der
neueren
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