N. 143 - Novembre 2019
(CLXXIV)
una nuova primavera per medio oriente e sud america
un
mondo
in
rivolta
di
Gian
Marco
Boellisi
Guardando
gli
ultimi
20
anni
di
storia
globale,
mai
come
nel
2019
il
mondo
ha
assistito
a
tanti
movimenti
di
protesta
diffusi
su
tutto
il
pianeta.
Medio
Oriente,
America
Latina
e
perfino
l’ex
colonia
britannica
di
Hong
Kong.
In
tutti
questi
scenari
sembrano
essere
scoppiati
quasi
contemporaneamente
movimenti
di
ribellione
da
parte
delle
popolazioni
locali
contro
i
propri
governi
e in
generale
contro
le
proprie
leadership
al
potere.
I
motivi
di
dissenso
sono
diversi
tra
loro
in
funzione
dei
vari
contesti
nazionali,
tuttavia
essi
possono
essere
raggruppati
in
alcune
macro
tematiche
molto
care
al
periodo
di
transizione
storica
nel
quale
ci
troviamo:
la
richiesta
di
maggiori
libertà,
di
maggior
democrazia
o
anche
di
diminuzione
del
cuneo
fiscale
e in
generale
della
diminuzione
del
costo
della
vita,
specialmente
per
le
fasce
meno
abbienti.
È
interessante
quindi
analizzare
le
varie
aree
del
mondo
dove
queste
proteste
sono
nate
e le
cause
scatenanti
la
loro
nascita,
così
da
poter
cercare
di
comprendere
meglio
il
periodo
storico
nel
quale
ci
troviamo.
La
prima
parte
di
questa
analisi
si
focalizzerà
sul
Medio
Oriente.
Regione
vessata
da
anni
di
tensioni
religiose,
guerre
e
manovre
politiche
delle
grandi
potenze
internazionali,
il
Medio
Oriente
si
trova
oggi
a un
crocevia
storico.
Uscito
a
dir
poco
con
le
ossa
rotte
dall’ondata
di
proteste
del
2011
nota
come
“primavera
araba”,
oggi
risulta
una
delle
regioni
in
cui
le
manifestazioni
contro
i
governi
centrali
hanno
preso
maggiormente
piede.
Le
dimostrazioni
di
dissenso
odierne
tuttavia
non
sono
spuntate
fuori
dal
nulla.
Da
un’analisi
più
attenta
infatti
si
può
dedurre
che
esse
non
sono
altro
che
la
continuazione
di
quei
movimenti
politici
e
sociali
di
protesta
che
portarono
alla
caduta
di
alcuni
dei
grandi
regimi
mediorientali
meno
di
10
anni
fa.
Questo
a
testimonianza
di
come
l’intero
mondo
arabo
stia
vivendo
una
fase
di
transizione
politica,
economica
e
sociale
di
ampio
respiro,
iniziata
nel
2011,
rimasta
latente
per
alcuni
anni
a
seguito
dell’esito
fallimentare
della
maggior
parte
delle
suddette
rivolte
e
ora
ripresa
con
maggior
vigore
e
metodo
di
quanto
fatto
in
passato.
I
paesi
interessati
in
questi
mesi
dalle
proteste
sono
i
più
disparati:
Sudan,
Giordania,
Egitto,
Iraq,
Libano,
Algeria.
Un
fattore
caratterizzante
delle
manifestazioni
odierne
è la
rottura
con
i
metodi
e
anche
gli
obiettivi
delle
proteste
di 8
anni
fa.
Questo
poiché
vi è
stata
una
presa
di
coscienza
dei
propri
errori
da
parte
della
comunità
araba,
soprattutto
nell’ottica
di
riuscire
dove
in
passato
si è
fallito.
Tuttavia
anche
i
governi
e i
regimi
di
turno
hanno
imparato
delle
lezioni
importanti
dalle
cacciate
dei
dittatori
di
pochi
anni
fa,
motivo
per
cui
il
raggiungimento
degli
obiettivi
delle
proteste
da
parte
dei
manifestanti
risulta
oggi
ancora
più
difficile.
Forse
la
più
sostanziale
differenza
con
le
primavere
del
2011
è
l’assenza,
almeno
per
il
momento,
dell’islam
politico
all’interno
dei
movimenti
di
protesta.
Questo
in
passato
era
rappresentato
per
lo
più
dalle
varie
diramazioni
del
partito
dei
Fratelli
Musulmani,
celebre
partito
pan-islamista
dichiarato
fuorilegge
in
molti
paesi,
sia
mediorientali
che
al
di
fuori
di
quest’area
geografica,
per
i
suoi
legami
con
ambienti
dell’islam
radicale.
Questa
assenza
è
particolarmente
evidente
in
Algeria
e
Sudan,
dove
si
può
notare
una
certa
maturità
politica
da
parte
della
popolazione
manifestante.
Nel
2011
le
dinamiche
delle
proteste
furono
molto
più
confuse,
motivo
per
cui
i
Fratelli
Musulmani
colsero
al
volo
l’occasione
per
prendere
il
potere
o
avvicinarsi
molto
a
esso
in
numerosi
paesi,
causando
spesso
e
volentieri
più
danni
di
quanto
i
vecchi
regimi
non
avevano
fatto
in
30
anni.
Se
l’assenza
di
queste
correnti
estreme
sorprende
molto
parlando
di
Algeria
e
Sudan,
dove
la
quasi
totalità
della
popolazione
è
sunnita,
ciò
sorprende
in
misura
minore
parlando
di
Iraq
e
Libano.
In
Iraq
per
esempio
le
proteste
sono
a
maggioranza
sciita,
motivo
per
il
quale
l’Iran
è
stato
accusato
ripetutamente
di
fomentare
le
rivolte
per
poter
così
estendere
la
propria
influenza
regionale
sull’ancora
debole
paese
confinante.
Qui
le
manifestazioni
hanno
assunto
un
carattere
violento
abbastanza
in
fretta,
soprattutto
a
causa
dell’aspra
repressione
da
parte
delle
forze
governative.
Attualmente
è
uno
dei
pochi
casi
in
cui
le
dimostrazioni
hanno
portato
alla
morte
di
civili.
Il
Libano
è un
caso
ancora
più
particolare.
Infatti
il
paese
dei
cedri
non
solo
ha
assistito
a
una
mancata
radicalizzazione
delle
proteste,
cosa
insolita
vista
l’importante
influenza
del
“Partito
di
Dio”
ovvero
Hezbollah,
ma
ha
anche
visto
sotto
la
bandiera
delle
proteste
riunite
tutte
quelle
etnie,
confessioni
religiose
e
clan
che
erano
stati
divisi
sin
dalla
guerra
civile
degli
anni
‘80.
Gli
stessi
sciiti
sono
scesi
in
piazza
protestando
contro
il
governo
centrale
e
contro
Hassan
Nasrallah,
guida
di
Hezbollah.
Le
proteste
quindi
stanno
unificando
un
intero
popolo
diviso
da
oltre
40
anni,
ed è
questo
primo
passo
di
cui
il
popolo
libanese
deve
andare
fiero
oggi
più
che
mai.
Un
altro
elemento
di
rottura
con
le
proteste
del
2011
è la
loro
lunghezza,
infatti
esse
risultano
di
maggior
durata
rispetto
a
quelle
passate.
Se
si
dà
uno
sguardo
indietro,
in
Egitto
e in
Tunisia
le
manifestazioni
si
placarono
quasi
del
tutto
alla
notizia
delle
dimissioni
rispettivamente
di
Mubarak
e
Ben
Ali.
Al
contrario,
oggi
in
paesi
come
il
Sudan
o
l’Algeria
la
popolazione
non
ha
smesso
di
scendere
in
piazza
nemmeno
dopo
che
Omar
Bashir
nel
primo
caso
e
Abdelaziz
Bouteflika
nel
secondo
hanno
dichiarato
di
rinunciare
al
potere.
Ciò
dimostra
come
gli
abitanti
di
questi
paesi
abbiano
capito
che
spodestare
il
dittatore
di
turno
non
basta
a
ottenere
uno
status
migliore
di
cose,
ma
bisogna
proseguire
nelle
manifestazioni
di
dissenso
fino
a
quando
le
proprie
richieste,
quelle
più
profonde
ed
endemiche
quali
la
lotta
alla
povertà,
maggiori
diritti
civili
e la
tutela
dei
diritti
umani,
saranno
soddisfatte.
Stiamo
assistendo
quindi
a un
vero
e
proprio
processo
storico
di
autodeterminazione
del
popolo
arabo,
un
processo
di
portata
del
tutto
non
indifferente.
Le
cause
di
tutti
i
movimenti
di
protesta
sono
riconducibili
a
situazioni
comuni
presenti
nei
vari
stati
della
regione.
Esse
infatti
sono
per
lo
più
economiche,
dovute
ai
rincari
del
costo
della
vita
o a
tassazioni
che
vanno
a
gravare
in
maniera
eccessiva
sulla
popolazione
(Libano
e
Sudan)
oppure
alla
perseveranza
dei
leader
politici
al
potere
di
mantenere
tale
status
quo
senza
voler
cedere
il
proprio
scettro
a
nessuno
(Algeria).
Tutti
i
paesi
interessati
dalle
manifestazioni
sono
quei
regimi
o
governi
sopravvissuti
in
qualche
modo
alle
primavere
del
2011
tramite
dei
compromessi
politici
o
semplicemente
dando
un
contentino
al
popolo
per
non
venire
a
loro
volta
travolti
dalla
fiumana
delle
proteste.
Questi
fenomeni
di
massa
possono
essere
interpretati
anche
da
un
punto
di
vista
internazionale.
Infatti
da
un
lato
si
nota
l’abbandono
graduale
dal
Medio
Oriente
da
parte
dell’Occidente.
Ciò
a
causa
prevalentemente
di
due
elementi.
Il
primo
riguarda
la
retorica
occidentale,
sempre
molto
improntata
al
rispetto
dei
diritti
umani
ma
mai
seguita
da
atti
pratici.
Anzi,
tutto
il
contrario.
Infatti,
quando
vengono
messi
in
gioco
interessi
geostrategici
ed
economici,
il
rispetto
dei
suddetti
diritti
passa
subito
in
secondo
piano,
lasciando
le
popolazioni
locali
al
proprio
destino.
Il
secondo
riguarda
il
comportamento
dell’Occidente
in
Medio
Oriente
nel
recente
passato.
A
seguito
delle
proteste
del
2011
la
NATO,
una
buona
parte
della
Comunità
Europea
e
dulcis
in
fundo
gli
Stati
Uniti,
appoggiarono
e
soprattutto
supportarono
economicamente
i
manifestanti
nelle
piazze,
vedendovi
un’opportunità
irripetibile
per
allargare
la
propria
sfera
di
influenza
in
questi
stati.
Tuttavia
ciò
si è
tradotto
molto
presto
in
veri
e
propri
disastri
internazionali,
di
cui
stiamo
pagando
le
conseguenze
ancora
oggi.
Alcuni
esempi
emblematici
possono
essere
l’appoggio
degli
Stati
Uniti
ai
manifestanti
contro
Mubarak
dopo
che
gli
stessi
avevano
fornito
al
presidente
egiziano
per
oltre
40
anni
armi
e
aiuti
economici.
Questo
repentino
cambiamento
ai
vertici
del
Cairo
ha
portato
al
potere
i
Fratelli
Musulmani,
rendendo
così
per
un
brevissimo
periodo
l’Egitto,
uno
dei
più
stabili
paesi
della
regione,
una
vera
e
propria
polveriera.
Un
altro
esempio
può
essere
l’intervento
francese
e
della
NATO
tutta
in
Libia,
intervento
che
ha
portato
a
due
guerre
civili,
di
cui
la
seconda
ancora
in
corso
a
distanza
di 8
anni,
e di
cui
le
conseguenze
stiamo
già
iniziando
a
pagare
ora.
Infine
un
ulteriore
esempio
è il
finanziamento
statunitense
dei
ribelli
siriani
contro
il
regime
di
Bashar
Al-Assad,
il
quale
ha
portato
in
pochissimo
tempo
alla
formazione
dell’ISIS
e a
8
anni
di
guerra
civile
attualmente
ancora
in
corso.
Dall’altro
lato
sullo
scacchiere
internazionale
si
può
notare
l’ascesa
della
Russia,
la
quale
si è
dimostrata
l’unico
partner
affidabile
all’interno
del
contesto
mediorientale.
Rispettando
gli
impegni
presi
dall’inizio
e
non
cambiando
fazione
a
ogni
nuova
finestra
di
opportunità,
Mosca
ha
dimostrato
di
poter
essere
un
valido
sostituto
degli
Stati
Uniti
nella
regione.
Tuttavia
è
inutile
illudersi:
è
palese
che
il
Cremlino
abbia
dei
piani
strategici
ben
precisi
per
il
Medio
Oriente,
che
coinvolgono
quasi
sicuramente
la
sopravvivenza
dei
regimi
in
Siria,
Iran
e
Libano
in
modo
da
creare
un
equilibrio
di
potenza
nella
regione
con
le
restanti
potenze
maggiormente
allineate
con
l’Occidente.
Ciò
però
non
ha
impedito
alla
Russia
di
avvicinarsi
ad
alleati
storici
degli
Stati
Uniti,
quali
Arabia
Saudita,
Iraq
e
perfino
Israele,
rendendo
il
disegno
di
Mosca
forse
molto
più
esteso
e
ambizioso
di
quanto
si
possa
ritenere
in
un
primo
momento.
Un
atteggiamento
da
“golpe
et
lione”,
per
citare
Machiavelli.
Passiamo
ora
alla
seconda
parte
di
questa
analisi,
ovvero
all’America
Latina.
Anche
qui,
analogamente
al
contesto
mediorientale,
si
può
notare
nell’ultimo
anno
un’improvvisa
esplosione
dei
fenomeni
di
protesta
all’interno
dei
vari
stati.
Da
sempre
caratterizzata
da
grandi
disuguaglianze
e da
una
povertà
endemica
della
maggior
parte
della
popolazione,
le
manifestazioni
hanno
coinvolto
un
gran
numero
di
paesi:
Equador,
Cile,
Bolivia,
Haiti
e
anche
il
Brasile
di
Bolsonaro.
Caratteristica
comune
a
tutte
queste
realtà
è
una
classe
politica
inetta
e
incapace,
se
non
per
qualche
rara
eccezione,
di
adempiere
ai
compiti
deputatigli
dal
popolo.
Anni
e
anni
di
malgoverno
e
corruzione
non
hanno
portato
ad
altro
che
a un
accumulo
di
ricchezze
da
parte
di
una
cerchia
ristretta
per
lasciare
la
maggior
parte
della
popolazione
sull’orlo
della
miseria
e
della
disperazione.
Era
solo
questione
di
tempo
prima
che
il
vaso
traboccasse.
Un’altra
causa
dell’enorme
instabilità
della
regione
sono
state
le
politiche
attuate
dagli
Stati
Uniti
durante
la
Guerra
Fredda.
Da
sempre
considerata
“il
cortile
di
casa”,
l’America
Latina
ha
subito
manipolazioni
dei
governi
di
quasi
tutti
gli
stati
ivi
presenti,
mediante
colpi
di
stato,
finanziamenti
illeciti
a
gruppi
sovversivi
o
interventi
militari
diretti
da
parte
di
Washington.
Tutto
questo
all’unico
scopo
di
mantenere
lontana
dal
continente
l’influenza
sovietica
e
dei
movimenti
di
sinistra
in
generale.
Ciò
ha
portato
a
gravi
carenze
nelle
macchine
statali
nella
regione
e a
processi
di
transizione
democratica
dai
passati
regimi
dittatoriali
di
ultra
destra
ancora
in
corso
in
molti
paesi.
Nonostante
alla
fine
della
Guerra
Fredda
vi
sia
stato
un
forte
allontanamento
dalle
politiche
statunitensi,
cosa
che
ha
portato
al
fiorire
di
governi
di
sinistra
praticamente
ovunque,
oggi
si
assiste
a un
lento
riavvicinamento
verso
le
posizioni
di
Washington
anche
se
ancora
parziale.
Un
esempio
fra
tutti
è la
grande
vicinanza
delle
politiche
tra
il
presidente
brasiliano
Bolsonaro
e il
presidente
Trump.
Analizzando
i
vari
contesti
da
vicino,
si
può
notare
quanto
essi
siano
simili
nonostante
si
stia
parlando
di
stati
anche
molto
diversi
tra
loro.
In
Bolivia
la
presunta
manipolazione
delle
elezioni
a
favore
del
presidente
uscente
Evo
Morales
ha
portato
sdegno
in
tutto
il
paese
e,
dopo
settimane
di
proteste
anche
violente,
il
presidente
ha
annunciato
le
proprie
dimissioni,
scappando
in
una
manciata
di
ore
a
Città
del
Messico.
In
Equador
il
Fondo
Monetario
Internazionale
ha
chiesto
al
governo
un
pacchetto
di
riforme
strutturali
e un
taglio
alla
spesa
pubblica
a
fronte
di
una
riduzione
del
welfare
per
iniziare
a
restituire
così
i
prestiti
ricevuti
negli
anni.
Ciò
ha
portato
la
grande
maggioranza
del
popolo
equadoregno
a
scendere
in
piazza
contro
l’attuale
presidente
Lenin
Moreno,
protesta
guidata
tra
l’altro
dal
predecessore
di
Moreno,
ovvero
Rafael
Correa.
In
Brasile
le
proteste
contro
il
presidente
Bolsonaro,
avendo
già
avuto
un
picco
l’anno
scorso
subito
dopo
le
elezioni,
sono
diminuite
di
intensità
ma
continuano
imperterrite
in
tutto
il
paese.
Le
politiche
ampiamente
contestabili
del
presidente
hanno
portato
una
larga
parte
della
popolazione
brasiliana
a
protestare,
provocando
da
parte
dei
reparti
di
sicurezza
una
reazione
oltremodo
fuori
misura.
Infatti
la
polizia
nel
disperdere
le
manifestazioni
ha
ripetutamente
fatto
un
uso
spregiudicato
della
forza.
Un
esempio
può
essere
lo
stato
di
Rio
de
Janeiro,
dove
la
gestione
delle
forze
di
sicurezza
del
governatore
Wilson
Witzel
ha
portato
a
1250
morti
tra
gennaio
e
agosto
di
quest’anno,
di
cui
la
maggior
parte
risultano
essere
uomini
giovani,
di
colore
e
appartenenti
alle
fasce
meno
abbienti.
In
Cile
invece
si è
assistito
a
settimane
continue
di
protesta
dovute
all’austerità
e al
caro
vita
imposti
dal
governo
di
Sebastian
Pinera,
il
quale,
dopo
diversi
tentativi
di
sedare
le
proteste
anche
violentemente,
ha
dovuto
cedere
alle
richieste
all’oltre
1
milione
di
manifestanti
presenti
nel
paese.
La
goccia
che
ha
fatto
traboccare
il
vaso
è
stata
il
rincaro
dei
biglietti
della
metro,
che
per
quanto
banale
possa
sembrare
ha
portato
un
paese
sull’orlo
della
rivoluzione,
una
dichiarazione
dello
stato
di
emergenza
da
parte
del
governo
e 20
morti.
I
blindati
per
le
strade
di
Santiago
non
si
vedevano
dai
tempi
di
Pinochet.
Ora
il
presidente
ha
promesso
un
pacchetto
di
riforme
economiche
e
maggiori
attenzioni
alle
infrastrutture
pubbliche,
così
da
creare
maggiore
occupazione.
Nonostante
le
promesse
vacue
come
sempre
in
questi
casi,
si
vedrà
con
il
tempo
se
il
periodo
del
dissenso
in
Cile
sia
del
tutto
concluso.
Questi
sono
solo
alcuni
dei
fenomeni
protesta
che
scuotono
il
Sud
America.
Infatti
non
vanno
dimenticati
il
Venezuela,
silenziosamente
abbandonato
dai
media
dove
ancora
infuria
la
lotta
tra
Nicolas
Maduro
e
Juan
Guaidó
per
il
potere,
o di
Haiti,
dove
vi
sono
ampie
manifestazioni
contro
la
corruzione
nel
paese,
o
del
Nicaragua,
dove
le
manifestazioni
contro
il
presidente
socialista
Daniel
Ortega
stanno
per
raggiungere
la
soglia
critica.
Confrontando
tutti
i
contesti
sopra
descritti,
possiamo
notare
che
la
maggior
parte
delle
proteste
non
sono
altro
che
una
condanna
diretta
alla
corruzione
e al
malgoverno
che
ha
afflitto
molti
di
questi
paesi
per
decenni
e
decenni.
Sebbene
le
varie
popolazioni
abbiano
creduto
che
talune
classi
politiche
avessero
potuto
migliorare
in
qualche
modo
le
proprie
condizioni
di
vita,
queste
aspettative
sono
state
completamente
disattese
dopo
anni
e
anni
di
sfruttamento
dei
più
deboli
per
arricchire
i
pochi
ai
vertici.
E
questo
è
stato
il
risultato
finale.
Nonostante
in
alcuni
dei
paesi
sopraelencati
la
situazione
sembra
essere
arrivata
a un
equilibrio
temporaneo,
non
è da
escludere
che,
analogamente
alla
prima
fase
di
proteste
avuta
in
Medio
Oriente
nel
2011,
anche
qui
si
possa
assistere
a un
“ritorno
di
fiamma”
tra
qualche
anno,
o
addirittura
tra
qualche
mese,
se i
governi
non
verranno
concretamente
incontro
ai
desideri
dei
cittadini.
In
conclusione,
quello
a
cui
stiamo
assistendo
è un
fenomeno
sociale
e
politico
di
dimensioni
storiche.
Mai
come
oggi
in
passato
tante
popolazioni
appartenenti
alle
più
disparate
aree
del
mondo
si
sono
alzate
e
hanno
lottato
tanto
veemente
per
i
propri
diritti.
Una
delle
chiavi
di
lettura
possibili
per
comprendere
queste
proteste
può
essere
la
crisi
dei
modelli
politici
e
amministrativi
ereditati
dal
Novecento,
ormai
difficilmente
applicabili
in
un
contesto
tanto
cangiante
e
caotico
come
è
l’attuale
sistema
internazionale.
Molti
analisti
ai
tempi
dissero
che
il
2011
sarebbe
stato
solo
l’inizio
di
un’ondata
di
manifestazioni
molto
più
ampia
e
oggi,
sia
per
il
Medio
Oriente
che
per
l’America
Latina,
ciò
si
può
reputare
quanto
mai
vero.
Un
difetto
tuttavia
di
questi
movimenti
sparsi
per
il
mondo
è
l’assenza
di
un’alternativa
valida
ai
regimi
o
governi
al
potere.
Infatti
da
un
lato
si
assiste
al
superamento
dei
modelli
politici,
occidentali
e
non,
considerati
essere
l’unica
via
possibile
da
attuare
nel
proprio
stato.
Dall’altro
non
vi è
un
obiettivo
chiaro
da
raggiungere
in
termini
politici,
ma
solamente
un
miglioramento
generico
delle
condizioni
di
vita
senza
ottenere
per
forza
una
stabilità
duratura
di
governo.
È
questo
il
passaggio
essenziale
che
manca
ancora
alle
piazze
sparse
tra
Medio
Oriente
e
Sud
America.
Tuttavia,
visti
i
progressi
e
soprattutto
le
conquiste
fatte
dal
2011
a
questa
parte,
non
è da
escludersi
che
il
processo
di
acquisizione
di
consapevolezza
da
parte
delle
popolazioni
in
questione
possa
avvenire
nell’arco
del
prossimo
decennio,
portando
così
a
una
reale
e
concreta
autodeterminazione
dei
popoli,
vero
cardine
di
un’identità
politica
odierna.