attualità
LE PROTESTE IN KAZAKISTAN
IL CUORE DELL’ASIA TREMA
di Gian Marco Boellisi
Il 2022 non si è aperto nel più pacifico
dei modi, tutt’altro. All’alba del nuovo
anno violente proteste hanno scosso il
lontanissimo quanto importantissimo
Kazakistan, paese posto nel cuore
dell’Asia e al giorno d’oggi vitale per
innumerevoli equilibri mondiali, siano
essi economici o politici.
Tanto forte è stato il vigore delle
proteste che per un momento si è temuto
l’avvento di un’altra rivoluzione
colorata ai confini meridionali della
Russia, con tutto ciò che questo avrebbe
potuto comportare. Tuttavia nell’arco di
pochi giorni la situazione sembra essere
ritornata alla normalità, sebbene con
delle riserve con i veri ideatori delle
proteste. Al netto di tutto, questa
crisi ha evidenziato la grave debolezza
del sistema kazako, il quale per anni ha
goduto di una velata aura di
invincibilità attirando così a sé i
fondi di innumerevoli investitori esteri
e la fiducia dei partner internazionali.
Risulta quindi interessante analizzare
nel dettaglio le dinamiche delle
proteste del paese asiatico e cercare di
comprendere il motivo per cui il
Kazakistan è ritenuto uno dei tasselli
più delicati per il mantenimento degli
equilibri globali.
Partiamo dal dire che quella a cui si è
assistito è stata senza dubbio la più
grave crisi della storia moderna kazaka.
Tutto è iniziato il 2 gennaio 2022 nella
regione Sud-occidentale di Mangystau,
nelle città di Aktau e in quella di
Jañaözen, dove gli automobilisti e i
cittadini sono scesi in piazza per
protestare contro l’aumento del prezzi
del GPL, il principale carburante usato
nella nazione. A fronte di un aumento
del prezzo da 0,12$/L a 0,27$/L, quella
che inizialmente sembrava una protesta
locale e facilmente contenibile si è
dimostrata essere nell’arco di 48 ore
una contestazione a livello nazionale.
Infatti già il 4 gennaio le
manifestazioni coinvolgevano Almaty, la
città più popolosa del paese, assumendo
le dimensioni di una rivolta
anti-governativa vera e propria.
La cosa che è balzata subito all’occhio
degli analisti è stata in primis la
velocità di diffusione delle proteste,
le quali hanno coinvolto interamente la
nazione nell’arco di pochissime ore. Per
quanto il tema dell’aumento dei prezzi
del carburante fosse molto sentito, è
altamente improbabile che l’intera
popolazione si sia riuscita a
organizzare in tempistiche così brevi.
Altro aspetto che ha caratterizzato le
manifestazioni sin da subito è stato un
notevole apparato logistico dei
protestanti, con una progressiva
escalation di violenza che ha prodotti
danni ingenti a molte strutture
governative e non solo. A un certo punto
è stato palese che una parte dei
manifestanti fosse dotata di armi da
fuoco e avesse una certa praticità
nell’usarle, motivo per cui il governo è
ricorso abbastanza presto alla forza
contro le varie manifestazioni.
Per cercare di sedare le proteste e
riportare pace per le strade, il
presidente kazako Toqaev ha adottato una
serie di misure molto diverse tra loro.
La prima e forse la più efficace è stata
quella di richiedere l’intervento delle
truppe del CSTO, Russia in primis, per
dar manforte alle proprie forze di
sicurezza nelle strada. Di questa misura
si parlerà in seguito, tuttavia è
innegabile che senza il supporto delle
forze speciali russe la situazione
avrebbe richiesto molto più tempo e
probabilmente molto più sangue per
essere risolta.
A valle di una pacificazione delle
strade, il presidente ha ripristinato i
prezzi del GPL vigenti negli scorsi
mesi, ha preteso le dimissioni del primo
ministro e ha espulso forzatamente il
“Padre della Nazione”, Nursultan
Nazarbaev, ovvero il primo (e unico)
presidente del Kazakistan post-sovietico
dal Consiglio di Sicurezza. Nonostante
queste mosse politiche, è interessante
notare come lo stato di emergenza sia
stato prolungato fino al 19 gennaio,
probabilmente per permettere alle forze
di sicurezza di riprendere il controllo
del territorio tramite un ferreo
coprifuoco e un relativo controllo dello
spostamento della popolazione.
Attualmente i bilanci non sono ancora
chiari, ma si parla di centinaia di
vittime, contando sia le forze di
sicurezza sia i manifestanti, di
migliaia di feriti e di decine di
milioni di dollari di danni.
Vista la grande organizzazione dei
protestanti e la loro anche troppa
rapida diffusione a livello nazionale, è
ormai opinione comune che non si sia
trattato di una semplice protesta per il
rincaro dei carburanti, ma di un tentato
colpo di stato. La domanda a cui
tuttavia nessuno ha risposto è stata chi
sia stato il mandante. Tra le varie
ipotesi avanzate nelle scorse settimane,
quella più originale e allo stesso tempo
più probabile riguarda il “Padre della
Nazione”, Nursultan Nazarbayev.
Per quanto molti abbiano pensato che
questa non sia stato altro che
l’ennesimo tentativo delle potenze
occidentali di rovesciare un governo
amico di Mosca e di Pechino (ipotesi da
non scartare nella sua interezza), dalle
manovre successive alle proteste è
lecito pensare che il tutto si sia
trattato di un regolamento di conti
interno ai vari centri di potere kazaki,
in eterna lotta per avere una fetta
della torta in più.
Nonostante l’ormai 81enne Nazarbayev si
fosse dimesso nel 2019 dopo una
presidenza durata 30 anni, ancora oggi
gode di una forte influenza all’interno
del paese. Oltre all’eredità politica si
deve però considerare anche quella
economica. A quanto pare infatti una
larga fetta dell’economia kazaka, che
per inciso risulta essere la più grande
e stabile dell’Asia Centrale, è
controllata dalla sua famiglia e dai
suoi affiliati.
Figlio di un pastore con studi
ingegneristici in gioventù, Nazarbayev
scalò presto i ranghi del partito
comunista fino a diventarne il
segretario kazako nel 1989. A seguito
della dissoluzione dell’Unione Sovietica
divenne presidente del nuovo stato,
riottenendo risultati plebiscitari in
tutte le consultazioni fino al 2019. Per
quanto il suo governo sia sempre rimasto
in bilico tra autoritarismo dispotico e
sviluppo a tutti i costi, un merito che
si può riconoscere a Nazarbayev è stato
quello di aver mantenuto in pace tra
loro le decine di etnie presenti
nell’immenso territorio kazako, specie
all’indomani della caduta dell’U.R.S.S.,
dove nessun equilibrio pre-esistente
poteva essere dato per scontato. Oltre a
questo è sicuramente degno di nota la
grande opera di modernizzazione
effettuata in tutto il paese, sebbene
anche qui con enormi contraddizioni e
differenze tra piccoli e grandi centri e
spesso anche a scapito dell’ambiente.
La sua uscita dallo scenario politico è
stata attentamente calcolata nel 2019,
tanto è vero che il potere è passato al
suo fedelissimo Qasym-Jomart Kemelūly
Toqaev. Prima delle proteste, il ruolo
di presidente del Consiglio di Sicurezza
garantiva a Nazarbayev un ruolo
costituzionalmente riconosciuto di alto
livello, grazie al quale aveva il potere
di determinare le linee guida delle
politiche del Kazhakistan e di avere
voci in capitolo sulle più importanti
decisioni statali. Non ultimo era il
beneficio dell’avere l’immunità da
qualsiasi procedimento giudiziario a suo
carico, beneficio che allo stato attuale
sembrerebbe essere decaduto.
Per quanto non vi siano state accuse
formali da parte di Toqaev al “Padre
della Nazione”, la sua rimozione dal
Consiglio di Sicurezza così come anche
l’epurazione dei vertici dei servizi
segreti a lui vicini fa intuire che vi è
qualcosa di non detto alle conferenze
stampa internazionali. Che le proteste
siano state un avvertimento da parte del
clan Nazarbayev al nuovo establishment
politico o che sia stato un vero e
proprio tentato colpo di stato, quello
che sembra essere in atto al momento è
una sorta di repulisti generale dei
vertici collusi con i rivoltosi, inclusi
polizia, esercito e servizi segreti, e
di quelli vicini a Nazarbayev.
Nei giorni della protesta emerse dal
nulla la figura dell’ex banchiere
Mukhtar Ablyazov, il quale trovandosi in
esilio a Parigi affermò di essere il
leader dei rivoltosi e di coordinare
attivamente le proteste dall’estero,
invitando inoltre l’Occidente a
intervenire così da evitare
l’avvicinamento ulteriore il Cremlino e
il Kazakistan. Per quanto questo
avvenimento in sé sembrò portare alla
pista straniera delle proteste, la
teoria fu presto accantonata vista
l’insignificanza del personaggio a
livello politico.
Una considerazione interessante in quei
giorni arrivò da Konstantin Kosachev,
presidente della commissione Esteri del
Consiglio federale della Federazione
russa, secondo il quale le forze di
sicurezza kazake si stavano confrontando
con “gruppi di miliziani armati
provenienti dal Medio Oriente”, il tutto
confermato abbastanza presto da video
degli scontri nelle strade. Ciò,
unitamente all’alta organizzazione delle
milizie, i loro armamenti e la loro
velocità di intervento, accreditò ancora
di più la pista straniera.
Questa è rimasta la teoria più battuta
dagli analisti fino a quando non è
iniziata la scrematura dei vertici di
governo e l’espulsione di Nazarbayev dal
Consiglio di Sicurezza. Da qui l’ipotesi
che le milizie siano state richiamate
dall’estero dai “golpisti kazaki”, e non
invece da qualche nazione avversaria, in
maniera da non sporcare le mani
direttamente con forze reclutate sul
luogo. Il dubbio se questi golpisti
avessero legami o meno con potenze
straniere viene fatto intendere spesso
dalle dichiarazioni ufficiali del
presidente Toqaev delle ultime
settimane, ma che sia vero o no
purtroppo non è di facile attribuzione.
Tra i cambiamenti ai vertici vi è stata
la nomina di Alikhan Smailov a primo
ministro in sostituzione di Karim
Masimov. Tra i primi annunci del governo
post-pacificazione vi è stato quello di
varare a breve un piano di ripresa che
coinvolgerà tutto il 2022 e si
prolungherà anche negli anni successivi.
Al di là delle spinte politiche esterne
che hanno alimentato la protesta, il
tutto è nato da un diffuso malcontento
che ha covato nella popolazione kazaka
da lungo tempo. Il grande sviluppo
kazako infatti non sarebbe stato
possibile se non a scapito dei cittadini
delle periferie e dei centri più
lontani, i quali hanno visto loro negate
le opportunità derivanti dalle grandi
opere statali e dagli investimenti
esteri. Proprio per questo l’obiettivo
del governo è varare al più presto un
piano di ricostruzione e sviluppo che
coinvolga tutte le fasce della
popolazione, senza escludere nessuno.
Per quanto sia un mirabile proposito, è
da vedere se e come esso verrà
realizzato.
Nonostante le varie considerazioni
politiche a corredo delle proteste, la
crisi non si sarebbe mai potuta
risolvere se non fossero intervenute le
forze armate russe. Il Kazakistan oggi
deve l’esistenza in senso stretto del
proprio stato grazie a Mosca e al suo
supporto. Il 6 gennaio infatti il
governo russo ha approvato e inviato
paracadutisti e personale militare
specializzato nell’ambito
dell’operazione di peacekeeping del
Collective Security Treaty Organization
(CSTO).
Questa altro non è che un’alleanza
difensiva formata il 15 maggio del 1992
da Russia, Armenia, Bielorussia,
Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan.
Il ministro degli esteri kazako ha
richiesto formalmente l’intervento della
Russia, denunciando la crisi in atto
come “aggressione armata da parte di
gruppi terroristici addestrati fuori del
Paese”. Per il CSTO la crisi kazaka è
stata la prima volta in cui è stato
attivato l’articolo 4 su richiesta di un
paese membro.
Per quanto riguarda l’intervento in sé,
le forze russe hanno dato prova di
grande abilità tecnica. Con una
mobilitazione fulminea e un
dispiegamento in campo altrettanto
rapido, le forze di sicurezza kazake
unite a quelle russe hanno iniziato ad
aver ragione dei protestanti fin da
subito, riuscendo a riportare la
situazione alla normalità nell’arco di
pochissimi giorni. Dal punto di vista
politico questo è stato un chiaro
messaggio da parte del Cremlino. Infatti
l’immagine che si è voluta comunicare al
mondo è quello della legittimità
internazionale e dell’azione come un
blocco di paesi unito da un fronte
comune, piuttosto che da una singola
superpotenza che fa il bello e il
cattivo tempo nel proprio giardino di
casa.
Oltre all’efficienza dell’operato di
Mosca, quello che ha colpito
maggiormente è stato il tempo di
risposta russo. Comparabili con le
migliori forze armate del mondo, le
truppe di Mosca hanno eseguito un’azione
da manuale riportando l’ordine in pochi
giorni in uno stato sull’orlo del
collasso. Ciò è stato accuratamente
pianificato anche per dimostrare alle
potenze avversarie le proprie capacità,
soprattutto nell’ottica della crisi
ucraina dove le minacce reciproche e le
prove di forza abbondano in maniera
particolare negli ultimi mesi.
Proprio in relazione a quest’area di
crisi, è veramente singolare la
coincidenza dello scoppio della crisi
kazaka giusto nelle settimane di massima
tensione tra Russia, Ucraina e Stati
Uniti, come si volesse distrarre
l’attenzione della Russia dal suo
confine Ovest per concentrarlo su quello
Sud. Ovvio che queste sono solo
supposizioni, tuttavia il tempismo esige
da parte degli analisti quanto meno una
riflessione approfondita in merito.
Nonostante non sia oggetto dei
telegiornali di tutti i giorni, il
Kazakistan fino a poche settimane fa
godeva della reputazione di paese tra i
più stabili di tutta l’Asia, motivo per
il quale era riuscito ad attirare decine
di miliardi di investimenti da parte di
partner esteri. È infatti importante
ricordare come il Kazakistan, oltre a
essere uno dei più grandi produttori di
petrolio e gas naturale del mondo,
risulti essere un ricco estrattore di
minerali preziosissimi per le filiere
produttive mondiali, quali uranio, rame,
alluminio e zinco. Visti i volumi di
produzione, la stabilità dei prezzi di
queste materie prime a livello mondiale
dipende anche da ciò che accade a
livello politico in questo paese.
Oltre alle considerazioni a livello
economico, il Kazakistan è essenziale
per gli equilibri di varia natura
dell’Asia Centrale. Lo è dal punto di
vista dei flussi delle persone, essendo
una terra composta da decine di etnie
diverse e permeabile attraverso i suoi
infiniti confini da parte di tutte le
altre genti presenti nella regione. È
essenziale anche dal punto di vista
politico per la riuscita dell’Unione
Economica Euroasiatica o per il
faraonico progetto cinese della Belt and
Road Initiative, di cui fa parte a pieno
titolo.
Dulcis in fundo, il Kazakistan è un
alleato essenziale per i giganti
dell’Asia, Russia e Cina, i quali sia
per i propri interessi economici sia per
quelli politici (basti pensare che la
base per tutte le missioni spaziali
russe si trova in Kazakistan) sono
disposti a ogni mezzo, convenzionale e
non, a garantire la sicurezza dello
stato dell’Asia Centrale, come peraltro
dimostrato dalle azioni di Mosca.
In conclusione, quella che doveva essere
la rivolta kazaka è stata stroncata
nell’arco di pochi giorni. Che sia stato
un tentativo di golpe da parte di forze
interne al Kazakistan stesso o che siano
state potenze esterne a manipolare il
tutto, a oggi quello che conta è il
risultato al netto delle proteste.
Infatti quella che doveva essere una
ulteriore fonte di preoccupazione per la
Russia in queste settimane di alta
tensione è diventata un’occasione per
mostrare la propria preparazione
militare e la solidità della propria
influenza nella regione.
Dopo gli innumerevoli smacchi subiti
negli anni nel proprio cortile di casa
(Ucraina, Georgia, Republiche Baltiche),
la Russia ha voluto lanciare un segnale
molto importante ai propri rivali
strategici: niente più intromissioni
nello spazio post-sovietico. Un altro
aspetto importante emerso dalle proteste
è il ventre molle del Kazakistan,
dipinto da anni come il paradiso al
centro dell’Asia nonché uno dei posti
più sicuri al mondo.
La verità è che, nonostante i tanto
decantati indici di benessere tra i più
alti d’Asia, il Kazakistan è un paese
che basa le proprie fondamenta su
infinite contraddizioni e debolezze
strutturali che la dittatura Nazarbayev
è riuscita solo a tamponare o
addirittura a nascondere negli ultimi 30
anni. Il corso politico del Kazakistan
odierno non è molto diverso da quello
del Kazakistan di ieri, ne è solo
cambiato il timoniere. E questo altro
non è che un bene per quelle 2 potenze
mondiali che, partendo dall’Asia, hanno
bisogno di un ponte stabile tra di loro
per poter proiettare la propria
influenza anche al di fuori di questo
immenso continente. |