[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

169 / GENNAIO 2022 (CC)


attualità

LE PROTESTE IN KAZAKISTAN

IL CUORE DELL’ASIA TREMA

di Gian Marco Boellisi

 

Il 2022 non si è aperto nel più pacifico dei modi, tutt’altro. All’alba del nuovo anno violente proteste hanno scosso il lontanissimo quanto importantissimo Kazakistan, paese posto nel cuore dell’Asia e al giorno d’oggi vitale per innumerevoli equilibri mondiali, siano essi economici o politici.

 

Tanto forte è stato il vigore delle proteste che per un momento si è temuto l’avvento di un’altra rivoluzione colorata ai confini meridionali della Russia, con tutto ciò che questo avrebbe potuto comportare. Tuttavia nell’arco di pochi giorni la situazione sembra essere ritornata alla normalità, sebbene con delle riserve con i veri ideatori delle proteste. Al netto di tutto, questa crisi ha evidenziato la grave debolezza del sistema kazako, il quale per anni ha goduto di una velata aura di invincibilità attirando così a sé i fondi di innumerevoli investitori esteri e la fiducia dei partner internazionali.

 

Risulta quindi interessante analizzare nel dettaglio le dinamiche delle proteste del paese asiatico e cercare di comprendere il motivo per cui il Kazakistan è ritenuto uno dei tasselli più delicati per il mantenimento degli equilibri globali.

 

Partiamo dal dire che quella a cui si è assistito è stata senza dubbio la più grave crisi della storia moderna kazaka. Tutto è iniziato il 2 gennaio 2022 nella regione Sud-occidentale di Mangystau, nelle città di Aktau e in quella di Jañaözen, dove gli automobilisti e i cittadini sono scesi in piazza per protestare contro l’aumento del prezzi del GPL, il principale carburante usato nella nazione. A fronte di un aumento del prezzo da 0,12$/L a 0,27$/L, quella che inizialmente sembrava una protesta locale e facilmente contenibile si è dimostrata essere nell’arco di 48 ore una contestazione a livello nazionale. Infatti già il 4 gennaio le manifestazioni coinvolgevano Almaty, la città più popolosa del paese, assumendo le dimensioni di una rivolta anti-governativa vera e propria.

 

La cosa che è balzata subito all’occhio degli analisti è stata in primis la velocità di diffusione delle proteste, le quali hanno coinvolto interamente la nazione nell’arco di pochissime ore. Per quanto il tema dell’aumento dei prezzi del carburante fosse molto sentito, è altamente improbabile che l’intera popolazione si sia riuscita a organizzare in tempistiche così brevi. Altro aspetto che ha caratterizzato le manifestazioni sin da subito è stato un notevole apparato logistico dei protestanti, con una progressiva escalation di violenza che ha prodotti danni ingenti a molte strutture governative e non solo. A un certo punto è stato palese che una parte dei manifestanti fosse dotata di armi da fuoco e avesse una certa praticità nell’usarle, motivo per cui il governo è ricorso abbastanza presto alla forza contro le varie manifestazioni.

 

Per cercare di sedare le proteste e riportare pace per le strade, il presidente kazako Toqaev ha adottato una serie di misure molto diverse tra loro. La prima e forse la più efficace è stata quella di richiedere l’intervento delle truppe del CSTO, Russia in primis, per dar manforte alle proprie forze di sicurezza nelle strada. Di questa misura si parlerà in seguito, tuttavia è innegabile che senza il supporto delle forze speciali russe la situazione avrebbe richiesto molto più tempo e probabilmente molto più sangue per essere risolta.

 

A valle di una pacificazione delle strade, il presidente ha ripristinato i prezzi del GPL vigenti negli scorsi mesi, ha preteso le dimissioni del primo ministro e ha espulso forzatamente il “Padre della Nazione”, Nursultan Nazarbaev, ovvero il primo (e unico) presidente del Kazakistan post-sovietico dal Consiglio di Sicurezza. Nonostante queste mosse politiche, è interessante notare come lo stato di emergenza sia stato prolungato fino al 19 gennaio, probabilmente per permettere alle forze di sicurezza di riprendere il controllo del territorio tramite un ferreo coprifuoco e un relativo controllo dello spostamento della popolazione. Attualmente i bilanci non sono ancora chiari, ma si parla di centinaia di vittime, contando sia le forze di sicurezza sia i manifestanti, di migliaia di feriti e di decine di milioni di dollari di danni.

 

Vista la grande organizzazione dei protestanti e la loro anche troppa rapida diffusione a livello nazionale, è ormai opinione comune che non si sia trattato di una semplice protesta per il rincaro dei carburanti, ma di un tentato colpo di stato. La domanda a cui tuttavia nessuno ha risposto è stata chi sia stato il mandante. Tra le varie ipotesi avanzate nelle scorse settimane, quella più originale e allo stesso tempo più probabile riguarda il “Padre della Nazione”, Nursultan Nazarbayev.

 

Per quanto molti abbiano pensato che questa non sia stato altro che l’ennesimo tentativo delle potenze occidentali di rovesciare un governo amico di Mosca e di Pechino (ipotesi da non scartare nella sua interezza), dalle manovre successive alle proteste è lecito pensare che il tutto si sia trattato di un regolamento di conti interno ai vari centri di potere kazaki, in eterna lotta per avere una fetta della torta in più.

 

Nonostante l’ormai 81enne Nazarbayev si fosse dimesso nel 2019 dopo una presidenza durata 30 anni, ancora oggi gode di una forte influenza all’interno del paese. Oltre all’eredità politica si deve però considerare anche quella economica. A quanto pare infatti una larga fetta dell’economia kazaka, che per inciso risulta essere la più grande e stabile dell’Asia Centrale, è controllata dalla sua famiglia e dai suoi affiliati.

 

Figlio di un pastore con studi ingegneristici in gioventù, Nazarbayev scalò presto i ranghi del partito comunista fino a diventarne il segretario kazako nel 1989. A seguito della dissoluzione dell’Unione Sovietica divenne presidente del nuovo stato, riottenendo risultati plebiscitari in tutte le consultazioni fino al 2019. Per quanto il suo governo sia sempre rimasto in bilico tra autoritarismo dispotico e sviluppo a tutti i costi, un merito che si può riconoscere a Nazarbayev è stato quello di aver mantenuto in pace tra loro le decine di etnie presenti nell’immenso territorio kazako, specie all’indomani della caduta dell’U.R.S.S., dove nessun equilibrio pre-esistente poteva essere dato per scontato. Oltre a questo è sicuramente degno di nota la grande opera di modernizzazione effettuata in tutto il paese, sebbene anche qui con enormi contraddizioni e differenze tra piccoli e grandi centri e spesso anche a scapito dell’ambiente.

 

La sua uscita dallo scenario politico è stata attentamente calcolata nel 2019, tanto è vero che il potere è passato al suo fedelissimo Qasym-Jomart Kemelūly Toqaev. Prima delle proteste, il ruolo di presidente del Consiglio di Sicurezza garantiva a Nazarbayev un ruolo costituzionalmente riconosciuto di alto livello, grazie al quale aveva il potere di determinare le linee guida delle politiche del Kazhakistan e di avere voci in capitolo sulle più importanti decisioni statali. Non ultimo era il beneficio dell’avere l’immunità da qualsiasi procedimento giudiziario a suo carico, beneficio che allo stato attuale sembrerebbe essere decaduto.

 

Per quanto non vi siano state accuse formali da parte di Toqaev al “Padre della Nazione”, la sua rimozione dal Consiglio di Sicurezza così come anche l’epurazione dei vertici dei servizi segreti a lui vicini fa intuire che vi è qualcosa di non detto alle conferenze stampa internazionali. Che le proteste siano state un avvertimento da parte del clan Nazarbayev al nuovo establishment politico o che sia stato un vero e proprio tentato colpo di stato, quello che sembra essere in atto al momento è una sorta di repulisti generale dei vertici collusi con i rivoltosi, inclusi polizia, esercito e servizi segreti, e di quelli vicini a Nazarbayev.

 

Nei giorni della protesta emerse dal nulla la figura dell’ex banchiere Mukhtar Ablyazov, il quale trovandosi in esilio a Parigi affermò di essere il leader dei rivoltosi e di coordinare attivamente le proteste dall’estero, invitando inoltre l’Occidente a intervenire così da evitare l’avvicinamento ulteriore il Cremlino e il Kazakistan. Per quanto questo avvenimento in sé sembrò portare alla pista straniera delle proteste, la teoria fu presto accantonata vista l’insignificanza del personaggio a livello politico.

 

Una considerazione interessante in quei giorni arrivò da Konstantin Kosachev, presidente della commissione Esteri del Consiglio federale della Federazione russa, secondo il quale le forze di sicurezza kazake si stavano confrontando con “gruppi di miliziani armati provenienti dal Medio Oriente”, il tutto confermato abbastanza presto da video degli scontri nelle strade. Ciò, unitamente all’alta organizzazione delle milizie, i loro armamenti e la loro velocità di intervento, accreditò ancora di più la pista straniera.

 

Questa è rimasta la teoria più battuta dagli analisti fino a quando non è iniziata la scrematura dei vertici di governo e l’espulsione di Nazarbayev dal Consiglio di Sicurezza. Da qui l’ipotesi che le milizie siano state richiamate dall’estero dai “golpisti kazaki”, e non invece da qualche nazione avversaria, in maniera da non sporcare le mani direttamente con forze reclutate sul luogo. Il dubbio se questi golpisti avessero legami o meno con potenze straniere viene fatto intendere spesso dalle dichiarazioni ufficiali del presidente Toqaev delle ultime settimane, ma che sia vero o no purtroppo non è di facile attribuzione.

 

Tra i cambiamenti ai vertici vi è stata la nomina di Alikhan Smailov a primo ministro in sostituzione di Karim Masimov. Tra i primi annunci del governo post-pacificazione vi è stato quello di varare a breve un piano di ripresa che coinvolgerà tutto il 2022 e si prolungherà anche negli anni successivi. Al di là delle spinte politiche esterne che hanno alimentato la protesta, il tutto è nato da un diffuso malcontento che ha covato nella popolazione kazaka da lungo tempo. Il grande sviluppo kazako infatti non sarebbe stato possibile se non a scapito dei cittadini delle periferie e dei centri più lontani, i quali hanno visto loro negate le opportunità derivanti dalle grandi opere statali e dagli investimenti esteri. Proprio per questo l’obiettivo del governo è varare al più presto un piano di ricostruzione e sviluppo che coinvolga tutte le fasce della popolazione, senza escludere nessuno. Per quanto sia un mirabile proposito, è da vedere se e come esso verrà realizzato.

 

Nonostante le varie considerazioni politiche a corredo delle proteste, la crisi non si sarebbe mai potuta risolvere se non fossero intervenute le forze armate russe. Il Kazakistan oggi deve l’esistenza in senso stretto del proprio stato grazie a Mosca e al suo supporto. Il 6 gennaio infatti il governo russo ha approvato e inviato paracadutisti e personale militare specializzato nell’ambito dell’operazione di peacekeeping del Collective Security Treaty Organization (CSTO).

 

Questa altro non è che un’alleanza difensiva formata il 15 maggio del 1992 da Russia, Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan. Il ministro degli esteri kazako ha richiesto formalmente l’intervento della Russia, denunciando la crisi in atto come “aggressione armata da parte di gruppi terroristici addestrati fuori del Paese”. Per il CSTO la crisi kazaka è stata la prima volta in cui è stato attivato l’articolo 4 su richiesta di un paese membro.

 

Per quanto riguarda l’intervento in sé, le forze russe hanno dato prova di grande abilità tecnica. Con una mobilitazione fulminea e un dispiegamento in campo altrettanto rapido, le forze di sicurezza kazake unite a quelle russe hanno iniziato ad aver ragione dei protestanti fin da subito, riuscendo a riportare la situazione alla normalità nell’arco di pochissimi giorni. Dal punto di vista politico questo è stato un chiaro messaggio da parte del Cremlino. Infatti l’immagine che si è voluta comunicare al mondo è quello della legittimità internazionale e dell’azione come un blocco di paesi unito da un fronte comune, piuttosto che da una singola superpotenza che fa il bello e il cattivo tempo nel proprio giardino di casa.

 

Oltre all’efficienza dell’operato di Mosca, quello che ha colpito maggiormente è stato il tempo di risposta russo. Comparabili con le migliori forze armate del mondo, le truppe di Mosca hanno eseguito un’azione da manuale riportando l’ordine in pochi giorni in uno stato sull’orlo del collasso. Ciò è stato accuratamente pianificato anche per dimostrare alle potenze avversarie le proprie capacità, soprattutto nell’ottica della crisi ucraina dove le minacce reciproche e le prove di forza abbondano in maniera particolare negli ultimi mesi.

 

Proprio in relazione a quest’area di crisi, è veramente singolare la coincidenza dello scoppio della crisi kazaka giusto nelle settimane di massima tensione tra Russia, Ucraina e Stati Uniti, come si volesse distrarre l’attenzione della Russia dal suo confine Ovest per concentrarlo su quello Sud. Ovvio che queste sono solo supposizioni, tuttavia il tempismo esige da parte degli analisti quanto meno una riflessione approfondita in merito.

 

Nonostante non sia oggetto dei telegiornali di tutti i giorni, il Kazakistan fino a poche settimane fa godeva della reputazione di paese tra i più stabili di tutta l’Asia, motivo per il quale era riuscito ad attirare decine di miliardi di investimenti da parte di partner esteri. È infatti importante ricordare come il Kazakistan, oltre a essere uno dei più grandi produttori di petrolio e gas naturale del mondo, risulti essere un ricco estrattore di minerali preziosissimi per le filiere produttive mondiali, quali uranio, rame, alluminio e zinco. Visti i volumi di produzione, la stabilità dei prezzi di queste materie prime a livello mondiale dipende anche da ciò che accade a livello politico in questo paese.

 

Oltre alle considerazioni a livello economico, il Kazakistan è essenziale per gli equilibri di varia natura dell’Asia Centrale. Lo è dal punto di vista dei flussi delle persone, essendo una terra composta da decine di etnie diverse e permeabile attraverso i suoi infiniti confini da parte di tutte le altre genti presenti nella regione. È essenziale anche dal punto di vista politico per la riuscita dell’Unione Economica Euroasiatica o per il faraonico progetto cinese della Belt and Road Initiative, di cui fa parte a pieno titolo.

 

Dulcis in fundo, il Kazakistan è un alleato essenziale per i giganti dell’Asia, Russia e Cina, i quali sia per i propri interessi economici sia per quelli politici (basti pensare che la base per tutte le missioni spaziali russe si trova in Kazakistan) sono disposti a ogni mezzo, convenzionale e non, a garantire la sicurezza dello stato dell’Asia Centrale, come peraltro dimostrato dalle azioni di Mosca.

In conclusione, quella che doveva essere la rivolta kazaka è stata stroncata nell’arco di pochi giorni. Che sia stato un tentativo di golpe da parte di forze interne al Kazakistan stesso o che siano state potenze esterne a manipolare il tutto, a oggi quello che conta è il risultato al netto delle proteste. Infatti quella che doveva essere una ulteriore fonte di preoccupazione per la Russia in queste settimane di alta tensione è diventata un’occasione per mostrare la propria preparazione militare e la solidità della propria influenza nella regione.

 

Dopo gli innumerevoli smacchi subiti negli anni nel proprio cortile di casa (Ucraina, Georgia, Republiche Baltiche), la Russia ha voluto lanciare un segnale molto importante ai propri rivali strategici: niente più intromissioni nello spazio post-sovietico. Un altro aspetto importante emerso dalle proteste è il ventre molle del Kazakistan, dipinto da anni come il paradiso al centro dell’Asia nonché uno dei posti più sicuri al mondo.

 

La verità è che, nonostante i tanto decantati indici di benessere tra i più alti d’Asia, il Kazakistan è un paese che basa le proprie fondamenta su infinite contraddizioni e debolezze strutturali che la dittatura Nazarbayev è riuscita solo a tamponare o addirittura a nascondere negli ultimi 30 anni. Il corso politico del Kazakistan odierno non è molto diverso da quello del Kazakistan di ieri, ne è solo cambiato il timoniere. E questo altro non è che un bene per quelle 2 potenze mondiali che, partendo dall’Asia, hanno bisogno di un ponte stabile tra di loro per poter proiettare la propria influenza anche al di fuori di questo immenso continente.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]