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N. 76 - Aprile 2014 (CVII)

Gli studi sul linguaggio di Protagora e di Prodico
interpretare il Protagora

di Paola Scollo

 

Un interessante contributo per immaginare l’analisi svolta dai Sofisti sui testi giunge dalle pagine del Protagora di Platone, il cosiddetto “dialogo dei Sofisti”.

 

È qui presente una preziosa testimonianza di esegesi letteraria fra V e IV secolo a.C. su un testo poetico, l’encomio al sovrano della Tessaglia Scopas composto dal poeta lirico Simonide. Sul terreno dell’esegesi letteraria sono chiamati a sfidarsi Protagora, Prodico e Ippia.

 

Con ogni probabilità la conversazione avviene nel 423 a.C. presso la casa del facoltoso Callia. Dopo un preliminare scambio di battute tra Socrate e Ippocrate sul significato del termine sofista, la discussione verte sul tema dell’insegnabilità della virtù. Protagora sottopone all’attenzione degli interlocutori un carme di Simonide in cui ha rilevato contraddizioni. Ha dunque inizio la sequenza di critica letteraria di nostro interesse. Gli interventi dei singoli interlocutori, finalizzati a fornire una soluzione, lysis, all’argomento della ricerca, zetema, si pongono in perfetta sintonia con i metodi della loro attività speculativa. Osserviamoli puntualmente.

 

Protagora esordisce asserendo che una considerevole parte della formazione e dell’educazione, paideia, dell’individuo concerne l’abilità linguistica, ovvero la capacità di analizzare e valutare la correttezza delle espressioni utilizzate dai poeti (Prot. 338 e 6 - 339 a 3). Il filosofo di Abdera manifesta un evidente interesse di natura linguistica e grammaticale per i testi, che si sostanzia in una predominante attenzione per le singole espressioni rispetto al contesto e alle intenzioni dell’autore. Tale interesse viene peraltro confermato da altre fonti. Aristotele, ad esempio, nella Retorica (G 5 1407 b 6 - DK 80 A 27) attribuisce a Protagora la distinzione dei generi dei nomi in maschile, femminile e neutro.

 

Diogene Laerzio (IX 53 - DK 80 A 1) ritiene che Protagora sia stato il primo a distinguere quattro tipi di proposizione: preghiera, domanda, risposta, comando. È interessante sottolineare come in tutti questi passi il verbo adoperato per descrivere il lavoro critico svolto da Protagora sia sempre distinguere, separare. La critica letteraria di Protagora va in direzione di una distinzione, diairesis, tra le parole finalizzata all’esatto uso del linguaggio. In tale metodo acquista notevole risalto anche un intento di tipo normativo finalizzato a definire le proprietà morfologiche dei nomi sulla base della convenzionalità dell’uso linguistico. E un momento fondamentale di tale analisi risiede nell’esame comparato di singoli termini o di singole espressioni.

 

Protagora distingue il genere dei nomi per indagarne la sostanza. Ma c’è di più. La ricerca della correttezza non si applica solo ai singoli termini, ma è sistematicamente operante nel dominio della critica letteraria. Il sofista manifesta infatti l’esigenza di adeguare il linguaggio alla logica, quindi cerca di rilevare la correttezza nella struttura e nella composizione generale dell’opera. Una volta individuate le sezioni di un testo, occorre poi verificare la correttezza con cui sono connesse tra di loro.

 

Di qui le riflessioni sull’episodio successivo alla battaglia fra lo Xanto e Achille narrato nel XXI canto dell’Iliade (240). Nell’immagine di Protagora, l’episodio serviva a distinguere la battaglia affinché il poeta potesse passare allo scontro tra gli dèi, attribuendo ulteriore rilievo alla figura di Achille (DK 80 A 30).

 

Protagora non ricorre quindi all’allegoria per spiegare l’episodio, ma si avvale del criterio della correttezza, orthotes, per ricercare la connessione funzionale tra gli episodi. Tale principio di correttezza opera dunque sia a livello linguistico, ovvero grammaticale, sia a livello logico nella ricerca delle contraddizioni. Esiste pertanto una corrispondenza tra piano linguistico e ontologico, tra il genere dei nomi e la coerenza delle argomentazioni.

 

Secondo Burnet, Protagora si sofferma sull’uso corretto della lingua da parte del singolo parlante perché crede che la lingua sia legge, nomos, ossia prodotto della convenzione umana, non semplicemente espressione della natura, physis.

 

Sulla scia di Protagora, anche Prodico offre il proprio contributo all’interpretazione del carme di Simonide. Contemporaneo di Democrito e di Gorgia, Prodico è considerato un campione della tecnica sinonimica. Il sofista si dedica allo studio delle parole per individuarne sia l’origine sia l’esatto significato. Ed è proprio a questa arte che Socrate si appella per “riabilitare” Simonide.

 

Allo sforzo interpretativo di Prodico sul carme di Simonide è dedicata un’ampia sezione del Protagora (337 a 1 - 337 c 11). L’allievo di Protagora offre qui un esempio di applicazione dell’arte sinonimica all’esegesi poetica. Tale analisi si limita tuttavia a una pedante distinzione fra termini semanticamente affini. Prodico afferma infatti che bisogna essere in comune ad ascoltare, ma diversi nel giudicare, a seconda della sapienza degli interlocutori.

 

La lode aperta è in genere poco sincera, mentre l’approvazione è manifestata senza inganno. La gioia è provata da chi ha un’acquisizione culturale, il piacere da chi sperimenta un godimento sensoriale, fisico.

 

In sintesi la correttezza linguistica per Prodico consiste nella distinzione, diairesis, del significato dei sinonimi, requisito indispensabile per parlare bene. Ed è questa la presentazione che fa di se stesso. Secondo Brancacci, il metodo di analisi sinonimica proposto da Prodico prevede due fasi.

 

La prima consiste nell’analisi semantica del nome nel tentativo di rispondere alla domanda “che cosa significa x?”, laddove x rappresenta il termine sottoposto a indagine. La seconda fase consiste nel tentativo di rispondere all’interrogativo “in che cosa x si distingue, quanto al significato, da y?”. Tale fase mira a distinguere i sinonimi, classificandoli in classi contrapposte, per poi giungere alla correttezza dei nomi. Tale distinzione comporta una «sorta d’alternativa di ordine etico», volta a individuare sia un significato positivo sia uno negativo.

 

Alla luce di quanto emerso, è possibile scorgere un fitto intreccio tra sofisti e produzione letteraria. Secondo Pfeiffer, i sofisti non possono essere considerati veri e filologi: la loro indagine ermeneutica sui versi poetici è soltanto “esercizio mentale”. Va da sé che, talvolta, tale interesse si risolve a mero gioco verbale, virtuosismo retorico, sfoggio di vuota erudizione. Ma sa spingersi anche oltre, divenendo analisi sul linguaggio.

 

Per concludere, potremmo affermare che i sofisti svolgano un ruolo di mediazione nella storia della filologia: una sorta di anello di congiunzione fra un passato, con la sua pesante eredità letteraria, e un presente di piena consapevolezza, che guarda al futuro. Non ci troviamo ancora a un vero e proprio livello di critica letteraria, ma le basi per riflessioni più alte sono già poste.

 

I sofisti divengono il simbolo della dissacrazione e della demistificazione dell’antico, cristallizzato mondo di Atene. Con le loro dottrine e i loro insegnamenti si pongono in maniera critica nei confronti della tradizione, ponendo le basi per un nuovo corso. Per servirci delle parole di Pfeiffer, potremmo dire che i sofisti «ci costringono a guardare innanzi».



 

 

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