N. 79 - Luglio 2014
(CX)
LA PROPOSTA DI GIOVANNI PAPINI
SCUOLA e MEDIOCRITÀ
di Giuseppe Tramontana
“L’unico
testo
di
sincerità
nelle
scuole
è
la
parete
delle
latrine.”
(G.
Papini,
Chiudiamo
le
scuole)
“L’idea
di
massima
– mi
ha
detto
di
recente
una
collega
– è
che
si
debba
apprendere
senza
sforzo
e,
soprattutto,
senza
responsabilità.
L’attribuzione
della
responsabilità
e,
con
essa,
il
riconoscimento
della
realtà
e
delle
innegabili
difficoltà
che
nasconde
è
vissuta
come
un
trauma,
da
cui
bisogna
tutelare
lo
studente”.
Prima,
aggiungo
io,
lo
si
tutela
in
nome
della
tenera
età,
poi
per
la
crisi
adolescenziale
che
sta
attraversando,
dopo
in
nome
del
successo
formativo
ad
ogni
costo,
infine,
in
sede
di
esame,
per
non
incorrere
nei
ricorsi
al
TAR.
Fatto
sta
che,
alla
fine,
ciò
che
viene
fuori
è
qualcosa
di
tutt’altra
specie
rispetto
ad
un
individuo
preparato.
E
passi
che
a
pensarla
così
siano
gli
stessi
ragazzi
e i
loro
genitori,
ma
che
lo
sia
anche
qualche
insegnante,
questo
mi
pare
troppo!
Recentemente,
durante
gli
scrutini
post-esami,
una
mia
collega,
persona
equilibrata
e di
lunga
esperienza,
per
perorare
la
causa
di
un
100
ad
un
ragazzo
con
un
credito
di
‘soli’
22
punti
(il
massimo
è di
25),
non
ha
trovato
di
meglio
che
imputare
questo
credito
al
sottoscritto
(e
non
solo,
evidentemente,
ma
gli
altri
non
erano
presenti),
accusandomi
in
pratica
di
averlo
penalizzato
con
voti
non
altissimi.
Immediatamente,
le
colleghe
‘esternÈ
mi
hanno
difeso:
anche
nelle
loro
scuole
ben
difficilmente
vengono
assegnati
più
di
22
crediti,
mentre
il
presidente
aveva
fatto
notare
come
proprio
al
ragazzo
in
questione
era
stata
rivolta
solo
una
domanda
e,
per
giunta,
eccessivamente
accomodante,
cosa
che,
in
effetti,
lungi
dall’aiutarlo,
non
ne
aveva
fatto
apprezzare
la
preparazione.
Eppure,
la
sua
malafede
sarebbe
riemersa
da
lì a
poco
quando,
senza
tema
di
ridicolo,
un’altra
mia
collega
è
stata
da
lei
rimbrottata
per
aver
posto
domande
“eccessivamente
difficili”.
“Difficili?”,
ha
risposto
l’altra,
“i
miei
studenti
queste
cose
devono
saperle:
le
abbiamo
fatte,
sono
in
programma
e
devono
saperle!”
Come
darle
torto?
E
come
non
pensare
che
c’è
stato
qualcosa
di
non
cristallino
nella
sua
condotta
durante
i
colloqui?
Ma,
tornando
alla
questione
dei
voti
bassi:
che
accusa
è?
Si
potrebbe
facilmente
replicare
con
un
tranchant
“ma
perché
non
ti
fai
i
fatti
tuoi?”
Oppure,
con
la
mera,
banale
constatazione
che
i
voti
alti
vanno
a
chi
li
merita.
Ma
il
punto
vero
è un
altro.
L’episodio,
in
sé,
è la
spia
di
qualcosa
di
più
ampio
e
profondo,
che
si è
vieppiù
incistato:
la
visione
di
una
vita
facile
e
senza
turbamenti
per
i
ragazzi.
Vogliono
i
voti
alti,
ma
senza
sacrifici.
E,
ripeto,
passi
che
li
vogliano
studenti
e
genitori,
ma i
professori?
Forse
lo
fanno
con
il
lodevole
intento
di
non
bocciare
troppo,
evitando
le
fughe
dagli
istituti
e la
conseguente
diminuzione
delle
cattedre.
Eppure
è un
dato
di
fatto
che,
paradossalmente,
a
fronte
di
scuole
più
“lassiste”
che,
ciò
nonostante,
sono
costrette
a
raschiare
il
fondo
del
barile
delle
iscrizioni,
ve
ne
sono
altre
–
più
severe
–
che
scoppiano
di
iscritti
proprio
per
la
loro
fama
di
“scuole
difficili”e
nell’opinione
comune,
a
torto
o a
ragione,
“più
serie”.
Eh
già,
perché
per
molti,
piaccia
o
no,
difficile
equivale
a
serio
e
preparato.
E,
da
questo
punto
di
vista,
le
facoltà
di
Giurisprudenza,
Ingegneria
o
Medicina
della
nostra
città,
Padova,
apprezzate
proprio
perché
ostiche,
dovrebbero
rappresentare
degli
esempi.
Invece,
spesso
nelle
nostre
scuole
vige
ciò
che
chiamo
l’anatocismo
dei
voti.
Mi
spiego.
L’anatocismo
è
quel
fenomeno,
vietato
dal
codice
civile,
per
cui
scattano
gli
interessi
sugli
interessi.
Bene,
a
scuola,
molti
insegnanti,
soprattutto,
in
classi
e
con
studenti
da
loro
reputati
“in
gamba”,
attuano
una
politica
del
genere.
Prima
mettono
largheggiano
con
voti
alti,
poi
giustificano
i
successivi
voti
(alti)
con
i
voti
precedenti.
Fino
ad
arrivare
all’assurdo
che,
davanti
a
prove
di
esame
mediocri,
rivendicano
voti
comunque
eccellenti,
giustificandoli
con
una
carriera
scolastica
già
valutata
e
che
trova
nei
crediti
la
sua
concretizzazione.
Non
solo.
Spesso,
sono
gli
stessi
danno
vita
ad
un
fenomeno
particolarmente
odioso
tra
gli
studenti:
la
posizione
acquisita,
fenomeno
che
tutti
abbiamo
conosciuto
ed
esecrato.
Chi
solitamente
va
bene,
andrà
bene
anche
in
futuro,
anche
in
ogni
caso
di
prove
non
all’altezza:
a
loro
sono
assicurati
i
soliti
votoni.
Viceversa,
chi
solitamente
non
brilla,
nonostante
l’impegno
e la
fatica
per
rimettersi
in
carreggiata,
continuerà
a
essere
penalizzato:
voti
bassi
o
mediocri
e
via
andare.
Io
continuo
a
ripetere
che
ogni
prova
fa
storia
a
sé,
proprio
come
ogni
partita.
E
che
quindi
c’è
sempre,
per
tutti,
la
possibilità
di
fare
bene
(anche
per
lo
sciattone
di
turno)
o il
rischio
di
cadere
(anche
per
l’Einstein
della
scuola).
I
ragazzi
approvano,
molti
miei
colleghi
approvano,
ma
la
pratica,
che
io
sappia,
resta
ancora
molto
diffusa.
Ora,
qual
è il
punto?
Il
punto
è
che
questa
“nuova”
mentalità
(cioè
drogare
al
rialzo
i
voti,
ché
poi
ci
sono
i
test
all’università,
le
iscrizioni
future,
il
buon
nome
della
scuola…)
ha
una
genesi
precisa:
la
riforma
Berlinguer.
Fu
lui
il
primo
ad
equiparare
gli
studenti
a
clienti.
Mi
ricordo,
all’epoca,
di
un’intervista
a
Claudio
Magris.
Al
giornalista
che
gli
chiedeva
cosa
ne
pensasse
di
questa
equivalenza,
il
grande
scrittore
triestino
rispose:
“Veda,
di
solito
si
dice
che
il
cliente
ha
sempre
ragione.
Se
vado
in
un
ristorante
e
chiedo
lo
zucchero
sulla
pastasciutta
al
posto
del
formaggio,
il
cameriere
mi
accontenterà.
Se
io
invece
chiedo
chi
ha
scritto
la
Divina
Commedia
e lo
studente
mi
risponde
‘Manzoni’,
non
posso
dire:
‘beh,
di
solito
non
è
così,
ma
nel
suo
caso
posso
fare
un’eccezione!”.
Ecco,
qui
sta
il
nodo.
Uno
che
risponde
che
è
Manzoni
l’autore
della
Divina
Commedia,
sbaglia.
E
sbaglia
anche
se
prima
ha
risposto
esattamente
a
tutte
le
domande
di
fisica,
chimica,
biologia,
filosofia,
storia
e
ostrogoto
di
questo
mondo!
O
no?
Poi
se
ne
può
discutere,
ma
non
si
può
ignorare
il
fatto.
Invece
ignorare
è
diventato
uno
sport
nazionale.
Sorvoliamo
più
noi
che
lo
Zappelin,
accomodano
più
gli
insegnanti
che
i
calzolai,
giustifichiamo
più
noi
che
i
politici.
Quali
le
ripercussioni?
Gli
insegnanti
si
lamentano
della
scarsa
considerazione
che
riscuotono
a
livello
sociale:
non
sono
sicuro
che
atteggiamenti
del
genere
servano
per
risolverne
l’immagine
e la
credibilità.
Ma
soprattutto,
in
questo
modo,
come
giustamente
fa
notare
Giuseppe
Pipitone
in
un
articolo
sul
Fatto
del
3
luglio,
alimentiamo
la
mediocrità.
Sì,
la
mediocrità,
il
vero
male
del
nostro
Paese.
Alcuni
docenti
universitari
di
mia
conoscenza
si
lamentano
che
le
matricole
ignorano
alcune
nozioni-chiave
del
diritto
o
della
storia:
confondono
il
Presidente
del
Consiglio
con
il
Presidente
della
Repubblica,
credono
che
il
Pubblico
Ministero
sia
il
Ministro
della
Pubblica
Istruzione,
collocano
il
Rinascimento
nell’Ottocento,
sono
convinti
che
le
prime
forme
di
vita
sulla
terra
siano
stati
i
dinosauri
o
che
le
BR
siano
autrici
della
strage
di
Bologna.
E in
molti,
troppi
casi
si
tratta
di
studenti
che,
al
liceo,
inanellavano
voti
rispettabili.
Un
insegnante
a
cui
ho
raccontato
di
queste
lagnanze,
mi
ha
risposto
che
i
docenti
universitari
potrebbero
anche
evitare
simili
commenti.
Certo,
potrebbero,
ma
non
lo
fanno.
E,
allora,
forse
è il
caso,
da
parte
nostra,
di
porci
qualche
interrogativo.
Siamo
nelle
mani
di
gente
(Renzi)
che
cita
a
casaccio
Telemaco
e il
“selfie
dell’Europa”,
di
Berlusconi
che
faceva
le
corna
nelle
foto
ufficiali,
dava
del
kapò
a
Martin
Schultz
e si
reinventava
la
storia
di
Roma,
introducendo
un
fantomatico
“Remolo”.
E
che
dire
del
un
misterioso
“tunnel
sotto
il
Gran
Sasso”
della
Gelmini,
dell’uccello-lontra
della
De
Girolamo
e
degli
aerei
da
combattimento
F35
che,
nelle
intenzioni
del
Pd
Boccia,
dovrebbero
servire
per
spegnere
gli
incendi?
Lo
scorso
marzo,
nel
corso
di
una
trasmissione
televisiva,
un
gruppo
di
deputati
di
vari
partiti,
interrogato
sull’Italicum,
legge
sulla
quale
aveva
appena
votato,
dimostrò
di
non
conoscerla
per
nulla,
ignorando
persino
le
percentuali
di
sbarramento.
Gaffes
innocenti,
direte
voi:
possono
sempre
capitare.
Certo,
ma
ciò
che
allarma
è la
mancanza
di
senso
della
responsabilità
unita
alla
totale
assenza
di
curiosità
intellettuale,
all’assoluta
incapacità
di
rimboccarsi
le
maniche
per
sapere,
informarsi:
se
non
altro,
perché
sei
un
personaggio
pubblico
e –
pur
senza
arrivare
al
rispetto
per
gli
elettori
–
dovresti
evitare
di
fare
certe
figure.
Ma,
evidentemente,
hanno
un
concetto
non
molto
edificante
degli
italiani:
gente
superficiale
che
sopravvive
scataracchiando
beatamente
sulla
cultura.
Abbiamo
battuto
sul
tasto
dello
svecchiamento,
dei
giovani
alla
ribalta,
ma
siamo
sicuri
che
questi
giovani
siano
all’altezza
del
compito?
O
meglio,
la
società
italiana
è
davvero
in
grado
di
“fornire”
giovani
preparati?
Già,
perché
se è
vero,
come
dice
il
famoso
proverbio
arabo,
che
siamo
figli
più
dei
nostri
tempi
che
dei
nostri
genitori,
allora
dovrebbe
essere
la
società
ad
interrogarsi
sulla
“materia
prima”
che
fornisce
per
la
creazione
della
nuova
classe
dirigente.
E
qui
torniamo
al
punto
centrale.
Si
parla
tanto
di
meritocrazia,
ma –
diciamoci
la
verità
– si
vuole
solo
la
risultatocrazia:
non
importa
che
i
risultati
corrispondano
ad
un
reale
merito,
ma
che
si
possano
sbandierare
e
spendere.
È un
po’
il
famoso
discorso
del
“pezzo
di
carta”
da
conseguire
ad
ogni
costo.
Quel
“pezzo
di
carta”,
il
diploma,
la
laurea,
dovrebbe
attestare
le
abilità,
le
conoscenze,
la
preparazione
raggiunta
dal
suo
portatore.
In
Italia,
abbiamo
separato
la
forma
dalla
sostanza:
il
titolo
vale
di
per
sé:
l’importante
è
averlo.
Che,
poi,
non
attesti
un
bel
nulla,
quello
è un
problema
che
nemmeno
ci
si
pone:
si
supplirà
con
un
po’
di
pratica...
Questo
davvero,
come
dice
Giuseppe
Pipitone,
è un
Paese
che
ha
smarrito
la
propria
identità.
Questo
era
il
Paese
dello
stile,
del
talento,
dell’intellettuale
organico,
era
il
Paese
dell’Olivetti
lettera
22 e
di
Adriano
Olivetti
che
dava
lavoro
a
Paolo
Volponi,
era
il
Paese
di
Giò
Ponti,
di
Pasolini,
di
Sciascia
e
Calvino,
Guttuso
e
Fellini,
Antonioni
e
Rossellini,
era
il
paese
di
Mastroianni
e
Gassman,
di
Berlinguer
e
Pertini,
di
Spadolini
ed
Enrico
Mattei,
della
Vespa
e
della
lampada
di
Fontana,
di
Montanelli
e
Leo
Longanesi,
di
Flaiano
e
Vittorini,
di
Montale
e
Moravia,
della
Ferrari
e
della
Lamborghini,
era
il
Paese
del
generale
Angioni
e di
Oriana
Fallaci,
di
Luigi
Pintor
e
Armani,
di
Rivera
e
Mazzola,
Baggio
e
Scirea.
E
adesso
cosa
siamo?
Siamo
un
Paese
pieno
di
bugie
e
pressappochismo.
Bugie
scintillanti
e
pressappochismo
deprimente.
Siamo
un
paese
“di
slogan
e
hashtag,
di
repliche
e
video
virali,
della
caciara,
delle
foto
sfocate
su
facebook”.
Un
paese
ignorante,
friabile
e,
per
lo
più,
razzista
a
pelle.
E la
scuola,
che
ancora
alcuni
decenni
rappresentava
l’argine
ai
luoghi
comuni
e
alla
stupidità,
oggi
conduce
una
battaglia
di
retroguardia,
rincorrendo
quegli
stereotipi
che
prima
combatteva,
adeguandosi
ai
modelli
veicolati
da
una
società
in
cui
“le
insegne
luminose
attirano
gli
allocchi”.
Non
c’è
da
stupirsi
se
gli
studenti
migliori,
i
più
intelligenti
ed
attivi,
quelli
che
non
si
accontentano
di
vivere
e
morire
di
mediocrità
scappano
all’estero.
Nel
1919
Giovanni
Papini
diede
alle
stampe
un
pamphlet:
Chiudiamo
le
scuole,
si
intitolava.
Partendo
dalla
capziosa
constatazione
che
le
scuole
fanno
parte
di
quella
sorta
di
“sistema
concentrazionario”
statale
che
serve
per
annichilire
gli
animi,
auspicava
la
chiusura
definitiva
delle
scuole.
Questi
luoghi
–
anzi,
queste
prigioni
–
non
servivano
che
a
far
mangiare
“ispettori,
presidi,
bidelli,
preparatori,
assistenti,
editori,
librai,
cartolai”,
oltre
che
insegnanti.
Per
il
resto,
non
servono
a
nulla,
men
che
meno
a
quei
miti
della
“rettorica
progressista”
come
“le
ragioni
della
civiltà,
la
educazione
dello
spirito,
l’avanzamento
del
sapere...”.
Le
scuole,
invece,
“abitua
gli
uomini
a
ritenere
che
tutta
la
sapienza
del
mondo
consista
nei
libri
stampati,”
mentre
“non
insegna
ciò
che
un
uomo
debba
fare
effettivamente
nella
vita.”
Inoltre,
insegna
male
perché
insegna
a
tutti
le
stesse
cose
e,
in
quanto
tale
è
“antigeniale”:
chi
si
diploma
non
dovrà
far
altro
che
“rivomitare”
ciò
di
cui
si è
ingozzato.
I
ragazzi,
aggiunge,
hanno
bisogno
di
libertà:
“libertà
per
imparare
veramente
qualcosa
perché
non
s’impara
nulla
d’importante
dalle
lezioni
ma
soltanto
dai
grandi
libri
e
dal
contatto
personale
colla
realtà.”
A
parte
l’ottimistico
riferimento
ai
grandi
libri,
che
non
si
leggono
nemmeno
a
scuola,
il
resto,
in
fondo,
è
tanto
diverso
da
ciò
che
oggi
pensa
certa
parte
degli
italiani?
Quindi,
“bisogna
chiudere
le
scuole
–
tutte
le
scuole.
Dalla
prima
all’ultima,”
dice
Papini,
chiosando
che,
senza
scuole,
“ci
saranno
più
uomini
intelligenti
e
più
uomini
geniali;
la
vita
e la
scienza
andranno
innanzi
anche
meglio;
ognuno
se
la
caverà
da
sé e
la
civiltà
non
rallenterà
neppure
un
secondo.
Ci
sarà
più
libertà,
più
salute
e
più
gioia.”
Che
non
abbia
ragione
lui?
Di
certo,
molte
sono
le
strade
per
ammazzare
un’istituzione
(così
come
un
uomo)
e
una
di
queste
è
svilirne
autorevolezza
e
dignità.