filosofia & religione
DONUM PROMETHEI
L’UOMO CONTEMPORANEO NELL’ABISSO DELLA
TECNICA
di Federico Fracassi
Nel secondo dei tre imperativi
categorici che Kant (1724-1804)
definisce costituenti la vera
morale, è da ritrovare l’auspicio
costantemente disatteso dell’età
contemporanea: «agisci in modo da
trattare l’uomo così in te come negli
altri sempre anche come fine, non mai
solo come mezzo». Non a caso infatti
il destino di quella che i Greci
chiamavano techne è argomento
esemplarmente frequentato da gran parte
dei Dialoghi platonici in tono
paideutico, già allora volto a mettere i
cittadini della polis sull’avviso
riguardo ai rischi a esso connessi.
Per il potente mezzo del mito di
Prometeo ed Epimeteo, nel Protagora
Platone narra una genesi dell’uomo in
cui è cardinale la Tecnica. È qui
interessante notare come l’etimologia
dei nomi di questi due personaggi dia al
lettore traccia del loro ruolo: dal
greco si possono tradurre
rispettivamente in “colui che riflette
prima” e “colui che riflette dopo” su
come svolgere il compito assegnato dagli
dèi: distribuire caratteristiche e
facoltà adatte alla sopravvivenza alle
“stirpi mortali” per cui era tempo di
venire al mondo.
Epimeteo volle occuparsi di tale
distribuzione, lasciando a Prometeo
l’impegno finale di controllare il
lavoro svolto: fornì gli animali di
forza fisica, artigli, spesse corazze o
mantelli e la possibilità di nutrirsi
dei frutti spontanei della terra o di
altri animali più riproduttivi per
impedire squilibri tra le specie. Ma
lasciò improvvidamente per ultima
l’umanità, alla quale non aveva più
risorse divine da assegnare. Prometeo
osservò gli umani indifesi alla mercé
delle fiere e delle intemperie, così
decise di compiere il fatale gesto di
pietà che gli valse la collera di Zeus e
il confinamento nelle profondità del
Tartaro: rubò agli dèi il fuoco e le
arti meccaniche per donarle agli uomini
nel tentativo di salvarli dalla
distruzione.
Tuttavia Zeus vide che il sacrilegio di
Prometeo non fu sufficiente, perché gli
uomini non sapevano collaborare e si
offendevano a vicenda finendo per
separarsi e quindi a esporsi nuovamente
al pericolo e alla morte. Ordinò dunque
a Hermes di fornire loro i sentimenti di
Giustizia e Pudore, componenti della
virtù politica, cosicché potessero
organizzarsi in città difese, aiutarsi
nel soddisfacimento dei bisogni
fondamentali e condurre una vita
associata.
A millenni di distanza, la forza del
mito non si smentisce. L’orrenda
punizione di Prometeo e l’indefesso
rapporto dialettico di Platone con la
Tecnica sono sufficienti a evidenziare
con quanto anticipo uno spirito magno
del pensiero greco avesse paventato ciò
di cui i grandi del pensiero
contemporaneo hanno dato ragione. Ma per
capire cos’è oggi la Tecnica non basta
più il pur imprescindibile strumento
“pedagogico” della mitologia classica.
Il tedesco Martin Heidegger (1889-1976),
la cui vastissima analitica esistenziale
ha a cuore la questione dell’Essere,
riprende da Aristotele il binomio
physis/techne (natura/tecnica) per
denunciare la tendenza dell’uomo
contemporaneo a cadere
nell’alienazione e nell’inautenticità,
poiché ha perso – anche a causa di
una smodata concezione della tecnica –
la capacità di relazionarsi a ciò che è
“naturalmente”, o «innanzitutto e per lo
più», abituato ormai a considerare l’ente
come tale solo quando è artefatto o
prodotto per uno scopo conoscibile e
condivisibile.
La condizione in cui versa l’umanità
nell’Età della Tecnica, Heidegger la
considera apertis verbis una
condizione patologica a cui il
Neokantismo, la Fenomenologia e
l’Esistenzialismo – in cui egli si formò
– non davano un’adeguata risposta. Tale
condizione è l’”oblio dell’Essere”. Ma
il fiore all’occhiello dell’opera
heideggeriana sta nella sua dimensione
“pratica”, cioè nella sua volontà di
riconfigurare una forma di pensiero in
cui l’ente privilegiato da cui
prendere le mosse per indagare l’Essere
sia proprio l’uomo, con l’obiettivo di
orientarlo al suo “modo d’essere più
proprio”, sottraendolo al vaniloquio,
alla mortificazione e all’immiserimento
del pensiero favoriti dal volto
barbarico dell’incombente società di
massa.
La Tecnica è disposizione di una ragione
ben lontana da quella in cui Kant, da
egregio illuminista, trovava l’unico
dato e affidabile cemento con cui
edificare etica e morale. Essa è da
tenere a bada perché intende tutto
l’essente come mero strumento, allarga
il divario tra natura e cultura, si è
smarcata dalla capacità dell’uomo di
entrare in risonanza emotiva con il
prossimo e si evolve senza limiti,
isolatamente rispetto all’intelligenza
sociale e quindi a detrimento di essa.
Una qualsiasi scienza, peraltro, finisce
spesso per snaturarsi al servizio della
Tecnica: si trasforma da metodo
in dogma dal momento che non
stabilisce né percepisce più un fine
al di fuori del proprio solido
avanzamento. In molti casi, non tiene
conto che la capacità di sopportazione
del pianeta e della stessa specie umana
sono incompatibili col paradigma
della crescita infinita (a es.
tecnologica) e supera con
facilità impedimenti di carattere
giuridico o religioso, finendo per
servirsi della politica anziché
sottostarle. Questo modello era già un
importante concorrente alla
svalutazione dei valori annunciata
da Nietzsche – cruciale conoscitore
delle insidie della Tecnica – come
fenomeno prodromico al Nichilismo,
laddove almeno l’Europa non era più
terreno adatto alla formazione di nuovi
valori, o alla “comparsa di nuovi dèi”
che fossero predicabili di
trascendenza.
La Scienza assoggettata dalla Tecnica
dimentica, ad esempio, il principio di
falsificabilità esposto dal filosofo
Karl Popper (1902-1994), che
l’enciclopedia Treccani così sintetizza:
«[…] teoria della concezione in base
alla quale un’ipotesi o una teoria ha
carattere scientifico soltanto quando è
suscettibile di essere smentita dai
fatti dell’esperienza», poiché non
c’è fatto o esperienza che scalfisca il
carattere trascendentale del dogma. Più
in generale, se la scienza diviene
dogma, quella che prima era fiducia
nel “progresso” ora si trasforma in una
fede, sfociando facilmente in un
fanatismo in grado di equivalere ai più
accaniti fondamentalismi religiosi.
Il Ventesimo secolo offre i più estremi
esempi di scienza corrotta dallo
sciovinismo tecnico, spogliata della sua
originaria dimensione umanistica. Per
citarne solo alcuni tra i più
tristemente famosi: l’eugenetica nazista
e la bomba atomica di Oppenheimer.
Ma vi è lucida follia perfino in quelli
che sembrano dettagli tra i gesti
di morte del Novecento, come la scelta
di chiamare Necessary Evil
l’aereo militare USA che sganciò la
prima bomba atomica su Hiroshima nel
1956, il ché ha indotto a sospettare che
non siano tanto gli uomini della storia
a deliberare consapevolmente
sull’implementazione di certi mezzi,
bensì la disponibilità stessa di tali
mezzi al culmine della razionalità
tecnica, la quale si autodichiara
necessaria, ponendosi come un
distorto “deus vult”.
È utile alla comprensione del vasto
argomento, soprattutto in merito alla
vicenda italiana, la distinzione tra
progresso e sviluppo offerta da
Pierpaolo Pasolini (1922-1975) in
Scritti Corsari, edito post mortem
nel 1975. Qui il cineasta filosofo pone
l’accento su come la categoria del
progresso sia «opposta e addirittura
inconciliabile» a quella dello
sviluppo, su come la percezione della
parola “progresso” cambi radicalmente a
seconda dell’estrazione sociale e
(almeno al suo tempo) della parte
politica. La categoria dello sviluppo è
attribuita da Pasolini alla «destra
economica» e non alla «destra
ideologica» e consiste
nell’interesse a produrre tutto il
producibile, rovinando nella produzione
di «beni superflui», non
considerando che ciò toglie attenzione e
risorse alla produzione dei «beni
necessari» al comune benessere,
quella in cui i lavoratori individuavano
il progresso e che costituiva –
virtualmente – l’obiettivo della
sinistra.
Ma la tendenza alla separazione della
politica dalla morale e uno
strumentale travisamento del
machiavellismo politico, estendibili
grosso modo all’intero occidente
contemporaneo, hanno sdoganato
nell’immaginario comune il già citato
paradigma della crescita infinita.
Almeno a partire dalla caduta del Muro
di Berlino, questi viene consultato
senza contemplare serie alternative.
Per esempio, anche di fronte
all’evidente incompatibilità ecologica o
all’aumento delle disparità socio
economiche, negli anni Settanta un motto
riferito alla disciplina economica
neoliberale angloamericana tuonava «there
is no alternative», poiché anch’essa
si andava delineando di fatto come
figlia del dogma della Tecnica.
James Hillman (1926-2011), autorità
mondiale in materia di psicologia,
utilizza una metafora mordace per
criticare la pessima ricezione sociale
di questo andamento, riferendosi
contemporaneamente all’aumento
esponenziale della popolazione mondiale:
«l’unica cosa che cresce nel corpo
umano oltre un certo limite è il cancro».
Forse è nel recupero delle antiche
nozioni greche di “limite” e di “misura”
– provenienti addirittura dal pensiero
presocratico – che risiede una
possibilità di salvezza dell’uomo
contemporaneo dalla rovinosa deriva
della techne, unitamente alla
restaurazione di un rapporto dialettico
adeguato dell’uomo moderno con essa,
quindi alla capacità di ammettere un
errore epocale e ripensarsi come un
essere limitato, ma non per
questo infelice.
Certo è che non esiste ancora, nella
storia della filosofia né in quella
della scienza, un prontuario sicuro da
seguire per riscattare una volta per
tutte l’umanità dalla «vergogna
prometeica».
«L’umanità che tratta il mondo come
un mondo da buttar via, finirà per
trattare se stessa come un’umanità da
buttar via». Gunther Anders
(1902-1992). |