filosofia & religione
epimèleia heautoù
SUL CONCETTO DELLA CURA
DI SÉ STESSI
di Francesca Trapé
Nel mondo antico il concetto di epimèleia heautoù
rappresenta il processo di costruzione e
progresso personale volto al raggiungimento dello
stato ideale di saggezza. In particolare la parola
“cura”, individua un termine polisemico, con varie
sfumature di significato a seconda del contesto
d’applicazione. Se nella lingua italiana farebbe
pensare esclusivamente al tipo di terapia da attuare
in caso di necessità o malattia, nella storia del
pensiero antico, invece, sta a indicare l’insieme
dei precetti che, declinati in maniera diversa a
seconda della scuola di riferimento, permettono di
superare se stessi per realizzare la piena
riunificazione con la Totalità.
La dottrina del ritorno, secondo i neoplatonici,
prevede che le parti del tutto si riassemblino con
la Totalità e allo stesso tempo anche con se stesse,
in un processo, appunto, di auto-ritorno.
L’importanza dell’ascesi spirituale parte dal
presupposto che l’anima sia immortale e che tenda,
per sua natura, al ricongiungimento con il principio
primo.
Per raggiungere tale grado di elevazione e
affrancamento dalla materia, è necessario compiere
un percorso di purificazione dell’anima. Prendendo
come esempio il pensiero di Plotino, la cura di sé
rappresenta metaforicamente l’atto di scolpire la
propria statua togliendone il superfluo, praticando
il distacco da ciò che è quotidiano ed esteriore. La
statua preesiste nel blocco di marmo e soltanto
eliminando le parti superficiali l’anima ritrova la
sua vera natura nell’unità.
Il mito di Cura
Quello della cura di sé rappresenta, quindi, un tema
connaturato nell’essere umano e per questo viene
affrontato in più ambiti disciplinari. Un esempio
dal punto di vista letterario può essere la storia
di Cura e la creazione del primo uomo, narrata per
esteso dal solo Igino:
«Cura, nell’attraversare un fiume, vide del fango
argilloso, lo raccolse pensosa e cominciò a
modellare un uomo; mentre stava osservando ciò che
aveva fatto, arrivò Giove. Cura gli chiese di dar
vita alla statua e Giove la esaudì senza difficoltà;
ma quando Cura volle dargli il proprio nome, Giove
glielo proibì e disse che doveva dargli il suo.
Mentre Giove e Cura discutevano sul nome, intervenne
anche la Terra, dicendo che la creatura doveva avere
il suo nome, poiché era stata lei a dargli il corpo.
Elessero a giudice Saturno, che a quanto pare diede
un parere equo: “Tu, Giove, perché gli hai donato la
vita […] ne riceverai il corpo. Cura, poiché
per prima lo ha modellato, lo possegga finché vive;
ma visto che è sorta una controversia a proposito
del nome da dargli, lo si chiami uomo, poiché è
fatto di humus”».
Si tratta di un mito antropogonico di origine
latina, come testimonia l’etimologia della parola
utilizzata: humus / homo. Sono evidenti,
però, i numerosi richiami del mondo greco, in
particolare di Esiodo, come nel mito di Prometeo (la
formazione dell’uomo dall’argilla) e in quello di
Pandora (la statua animata). Si ritiene anche che il
racconto sia vicino alla tradizione stoica, come
testimoniato dal rapporto con un passo di Seneca (Epist.,
124, 14).
In questo mito la figura di Cura appare come
elemento originario e quindi imprescindibile
dell’esistenza umana. Inoltre le viene attribuito un
duplice valore: quello di angoscia da un lato e di
coscienza dall’altro. Entrambe queste sue
interpretazioni comportano un movimento interiore
molto dinamico, in continua tensione al di fuori di
sé. Nell’uomo quindi, viene ammessa la possibilità
di ricongiungimento e di elevazione al tutto, ma
solo attraverso l’esercizio spirituale che coinvolge
interamente lo psichismo umano, come afferma Hadot.
Nonostante quindi, sia evidente una sorta di
assimilazione dei motivi letterari tra le due
civiltà antiche, occorre specificare una differenza
di fondo riguardo la concezione culturale del mito.
Questa diversità si palesa già nella scelta del
titolo della raccolta latina, ovvero la parola “Fabulæ”,
e soprattutto nell’impianto schematico del volume
stesso, strutturato dall’erudito latino come mera
collezione di racconti. Inoltre, la semplicità e
l’accessibilità stilistiche fanno pensare a un
utilizzo didattico del testo, o comunque indirizzato
verso pratiche quali la memorizzazione e
l’esposizione orale. Qui il mito, infatti, appare
privato della capacità originaria di evocazione, e
si presenta, appunto, come quel genere di
descrizione superficiale tanto temuta da Platone.
Per i Greci infatti, il mito è sì una forma di
memoria culturale collettiva, ma soprattutto
rappresenta l’espressione del sistema religioso su
cui si basa l’intera società. La componente
immaginativa del racconto mitologico serve a
facilitare la comprensione delle questioni
invisibili agli occhi della Ragione, e la mitopoiesi
platonica in particolare, rappresenta compiutamente
l’intento psicagogico della filosofia, in quanto
attuato attraverso l’esercizio di memorizzazione e
meditazione.
Il contenuto narrativo, che rimanda a un’altra
dimensione, è funzionale al processo di costruzione
dell’atmosfera interiore del soggetto e della sua
rappresentazione del mondo. Seneca parla di
meraviglia di fronte alla scoperta del mondo, perché
si rende conto che il suo sguardo ha una visione
diversa quando supera l’esteriorità dei fenomeni.
Occorre quindi raggiungere un grado di percezione
che sia il più possibile distaccato, teso
verticalmente a ciò che muove veramente l’essere.
Nel caso del mito si tratta, spesso, di un racconto
narrato a voce, poiché soltanto l’oralità permette
di discutere attraverso un confronto dinamico,
capace di adattarsi ai bisogni del momento e
scandito dai tempi della parola. La pratica del
dialogo può essere rivolta sia all’esterno, verso un
ipotetico interlocutore che guida o che viene
guidato nel processo di formazione, ma il colloquio
può orientarsi anche all’interno. È il caso del
dialogo socratico, che invita all’esercizio
spirituale, poiché le domande poste obbligano a fare
attenzione a se stessi, a preoccuparsi di sé.
Da questo punto di vista, ogni esercizio spirituale
assume un carattere di tipo dialogico, in cui il
soggetto che lo compie è allo stesso tempo presente
a se stesso e agli altri. I dialoghi platonici,
invece,sono composizioni letterarie che immaginano
una conversazione reale. In essi viene tracciato
l’itinerario del pensiero che deve condurre
l’interlocutore a una determinata condizione
mentale.
Così facendo le dottrine filosofiche scaturiscono in
maniera spontanea attraverso lo sviluppo del
discorso, e l’utilizzo consapevole della retorica è
funzionale al raggiungimento della verità. Il
procedimento dialettico indirizza l’interlocutore in
maniera graduale verso il bene, e per tale motivo
deve essere considerato esercizio di formazione e
non di mera informazione. Si tratta di un percorso
di elevazione in cui l’anima si allontana dalla
dimensione del sensibile e raggiunge concretamente
il divino.
Simbologia ed Emanazione
Secondo il pensiero tardo-platonico altra pratica
efficace nella semplificazione di concetti oscuri è
l’uso della simbologia, che testimonia il contatto
perenne tra realtà divina e realtà materiale. Essa
coinvolge l’interpretazione mentale e va al di là
dei sensi.
Nel testo di Giamblico viene data particolare
importanza ai tre simboli egiziani considerati
indispensabili per l’avvicinamento dell’uomo al
mondo divino. Come prima immagine viene nominata
quella del dio che sta sopra il fango, seduto su un
fiore di loto. Questo simbolo tripartito sembra
richiamare la favola di Igino, poiché il limo su cui
si erge il dio rappresenta la stessa terra
generatrice da cui, nel mito latino, prende nome
l’essere umano. Qui, però, attraverso l’opera di
mediazione del fiore, viene messa in evidenza la
mancanza di contatto tra la dimensione divina e
quella materiale: il dio così, risulta trascendere
il livello della materia, pur mantenendo una forte
relazione con essa. In apparenza la separazione dei
due mondi sembra più netta, ma come afferma Abammone/Giamblico,
la divinità governa e presiede il tutto,
intrattenendo un vero rapporto di comunicazione con
la totalità degli esseri.
L’immagine tripartita segue la simbologia dei
concetti di manenza, processione e ritorno, espressa
dai neoplatonici in termini geometrici. In
particolare la figura del fiore di loto si rifà al
simbolo del cerchio, quindi alle idee di perfezione
e unità. Inoltre la distinzione simbolica tra le due
realtà conferma la configurazione gerarchica del
cosmo giamblicheo e ancor prima di quello plotiniano,
e testimonia la corruzione dell’anima umana a causa
della sua prigionia corporea.
Secondo la concezione neoplatonica, infatti, la
causalità è espressa in termini di emanazione, e per
rendere esplicito tale processo, Giamblico fa
riferimento al fluire inesauribile e continuo dei
principi superiori in relazione agli inferiori. Per
sua natura, infatti, ciò che è finito deve ascendere
all’infinito attraverso degli intermediari che
gradualmente ne catturano l’essenza. L’emanazione
viene interpretata anche come “estasi”, nozione che
ricorre in gran parte del pensiero medievale, ma che
in questo caso fa riferimento all’accezione pagana
del termine, che vuol dire “stare a parte”. Ciò
significa che, nel fluire da un piano superiore a
quello inferiore, poiché non esistono le coordinate
spazio-temporali, il principio primo produce gli
effetti senza perdere la sua potenza. Il mondo
spirituale, infatti, non appare né temporalmente né
spazialmente, definito.
Le metafore utilizzate per spiegare questo concetto
in termini di simultaneità sono sviluppate in
relazione ai sensi, specialmente quello della vista,
a partire dall’idea comune secondo cui le realtà
divine emettono luce verso il basso. Per quanto
riguarda, invece, il rapporto tra emanazione e senso
dell’olfatto è possibile ricondurre tale relazione
alle pratiche teurgiche cui fa riferimento anche lo
stesso Giamblico. Egli nomina alcuni oggetti che
risultano essere adatti a ricevere l’influenza
divina, in virtù della loro posizione alla fine di
un percorso discensionale causato da un dio
specifico. Allo stesso modo Psello (che sembra
conservare la dottrina di Proclo andata perduta)
conferma questa pratica teurgica spiegando che
ciascuna divinità possedeva un proprio odore.
L’utilizzo, invece, dei suoni della lingua greca con
funzione evocativa, sembra avere origine dai rituali
caldaici. Ciascun fono può essere assimilato a una
parte del cosmo ed è profondamente legato agli
elementi geometrici. Giamblico specifica che
l’impiego di determinati linguaggi, chiamati
“barbari” perché lontani dal greco, è utile ai fini
della connessione con le cose spirituali. Il greco
invece, essendo una lingua frutto di convenzione,
caratterizzata quindi da complessità e molteplicità,
non possiede la stessa capacità evocativa. Al
contrario, partendo dallo studio dei linguaggi
orientali, definiti come “naturali” perché non
compromessi dalla creazione di nuovi termini, è
possibile scoprire le verità divine.
Oltre la filosofia
La tarda antichità ha attribuito l’insieme di queste
dottrine filosofico-religiose riguardo la funzione
del linguaggio e la liberazione dell’anima dal
corporeo, alla figura mitica di Ermete Trismegisto,
considerato il dio Thoth degli antichi Egiziani.
Quando i Greci vennero a conoscenza di questa
divinità egiziana trovarono diverse analogie con il
loro Ermete (Mercurio) e per questo lo qualificarono
con l’appellativo “Tre volte grandissimo”.
Negli scritti appartenenti al gruppo del Corpus
Hermeticum, il dio supremo è concepito come
essere che si esplica in un numero infinito di
potenze e anche come forma archetipa, come principio
del principio che non ha fine. Anche qui l’anima
umana è soggetta a corruzione a causa della sua
caduta spirituale, e per compiere la riunificazione
nel divino deve liberarsi dai lacci materiali.
L’uomo deve innanzitutto conoscere se stesso per
riconoscere la sua parte divina come elemento
costitutivo del principio primo.
Secondo la visione tardo-platonica, quindi, per
provare a cogliere la realtà superiore, l’anima deve
farsi guidare da processi più immediati, che vanno
oltre il coinvolgimento del raziocinio. In questo
modo il contatto con ciò che è superiore avviene non
come forma di conoscenza, ma come processo di
identificazione. La conoscenza, invece, è attività
ambivalente perché nell’avvicinarsi al divino
oggettiva la sua essenza provocando divisioni. Già
in Plotino ritroviamo l’idea di metamorfosi e
conversione dell’Io al raggiungimento del Bene. In
quel momento vengono superate le divisioni prodotte
dall’attività del pensiero: non è più distinguibile
il soggetto dall’oggetto, e l’Io viene a coincidere
con l’Uno.
La ripresa di questa concezione avviene da parte di
Giamblico e dei suoi successori delle scuole
neoplatoniche pagane. In questo ambito il mondo
spirituale non è ordinato gerarchicamente soltanto
in termini di causalità, ma anche in base a una
gerarchia di gradi di cognizione. Se si considera
come scopo la riunificazione con il principio primo,
è necessaria soprattutto l’attività della credenza,
che trascende la cognizione e non è correlata
all’attività dell’intelletto, poiché supera i limiti
della descrizione razionale.
Per Proclo la credenza può essere descritta come
contatto o unione con l’ineffabile, ed essendo al di
là di ogni forma di attività razionale, deve essere
per forza collocata nel contesto del rituale
teurgico. Eppure non esiste una divisione netta tra
pensiero razionale e ineffabilità perché
quest’ultima compenetra lo stesso pensiero, dal
momento che è presente una quantità decrescente di
ineffabilità nei livelli inferiori. Nelle anime
convivono due attività differenti: la prima di tipo
intellettivo-intuitivo ancora soggetta alla
molteplicità, la seconda invece si riferisce alle
pratiche del silenzio, dell’iniziazione ai misteri e
della rinuncia al mondo inferiore. Ancora una volta,
quindi, viene sottolineata l’importanza delle
attività teurgiche come metodo speculativo e pratico
nel percorso di conversione di sé verso la realtà
superiore.
Ascesi teurgica e felicità
Tutte le scuole filosofiche (comprese quelle non
nominate direttamente, come l’epicureismo,
l’aristotelismo e lo stoicismo) concordano nel
riconoscere l’idea di fondo dietro al concetto di
cura di sé. Per il mondo pagano il fine ultimo della
pratica filosofica è la liberazione dallo stato di
angoscia che affligge l’essere umano in quanto
vittima della cura, delle passioni terrene, della
prigionia dell’anima. Allo stesso tempo, però, si
concede la possibilità di riscatto dalla situazione
di inquietudine che non gli permette di essere
veramente e pienamente se stesso.
Il bene ultimo è fondamento di felicità, perché in
esso le anime ritrovano quella serenità propria del
ricongiungimento spirituale. Attraverso
l’unificazione esse tornano alla loro essenza più
compiuta e non sono più soggette ai turbamenti della
vita materiale. Inoltre, poiché il Bene divino
trascende il pensiero, può essere raggiunto soltanto
per mezzo di attività che comportano la pura
intuizione.
Tra queste è contemplata la divinazione, considerata
come attività di predizione del futuro a partire dai
segni naturali. Giamblico sostiene che essa sia un
esercizio filosofico e non a carattere
soprannaturale, proprio perché parte da una diagnosi
su fenomeni naturali servendosi delle facoltà
razionali, e metaforicamente la paragona alla
pratica della semeiotica per quanto riguarda i
sintomi della febbre. Egli afferma che questa forma
di comunicazione ci rende partecipi del Bene ed essa
stessa è espressione della bontà divina. Infatti,
attraverso la previsione si riesce ad anticipare il
male e a conoscere preventivamente la maniera
migliore per esercitare la virtù.
In generale Giamblico sostiene che la teurgia sia in
grado e di preparare la mente umana alla
contemplazione divina e di unirla ad essa, ponendola
al fianco del demiurgo “creatore”. In questo modo
egli riesce a conciliare le pratiche
mistico-religiose con l’attività filosofica. La
teurgia quindi differisce dalla magia perché è
rivolta verso il Bene e non ha come intento quello
di piegare egoisticamente il volere divino al
desiderio umano.
Proprio per questo motivo, in epoca rinascimentale e
in ambiente cristiano, verrà data particolare
importanza agli scritti dei filosofi pagani come
Giamblico. Primo fra tutti Ficino, attraverso
l’opera di traduzione della “tradizione platonica” a
partire dagli scritti ermetici, riscoprì la
filosofia come “illuminazione” della mente. Egli
sosteneva l’esistenza dello “spirito” in quanto
sostanza materiale sottilissima presente sia sulla
terra, in ogni corpo, che in cielo. Questo spirito
rappresentava, secondo Ficino, l’elemento di
interazione tra l’anima e il corpo, ed era possibile
predisporlo alla comunicazione attraverso la
cosiddetta “magia naturale”, proprio perché
comprendeva l’utilizzo di oggetti naturali, spesso
accompagnato dalla musica. Ficino sosteneva anche
che la teurgia fosse vicina alla medicina, perché in
grado di captare gli influssi benevoli per curare lo
spirito.
La condizione dualistica dell’essere umano, diviso
tra anima e materia, viene superata nel momento in
cui l’uomo coglie in se stesso la parte
trascendente, e tenta di riportarla nel luogo di
origine. Soltanto ponendo attenzione su di sé l’uomo
può prendere coscienza dei propri limiti e mettersi
nella condizione di riuscire a valicarli. L’analisi
introspettiva e il percorso di formazione spirituale
sono parte integrante dell’attività filosofica. Non
può esserci separazione tra teoria e pratica, tanto
che gli antichi saggi predicavano la necessità di
vivere secondo i precetti della filosofia.
L’importanza data al vivere filosoficamente assurge
a elemento di connessione tra la filosofia e la
teurgia, entrambe volte all’elevazione dell’anima.
Il tentativo di riunificazione con il divino,
quindi, rende imprescindibile il concetto di cura di
sé, che si esplicita nel tempo come necessità di
migliorare se stessi per sentirsi pienamente
partecipi di una realtà superiore e indivisibile.
Riferimenti bibliografici:
Gersh Stephen, Da Giamblico a Eriugena. Origini e
sviluppi della tradizione pseudo-dionisiana,
edizione italiana a cura di Marialucrezia Leone e
Cristoph Helmig, Edizioni di Pagina, Bari 2009.
Giamblico, I misteri egiziani, Testo greco a
fronte e in appendice la versione latina di Marsilio
Ficino…, Bompiani, Milano 2013.
Hadot Pierre, Esercizi spirituali e filosofia
antica, Nuova edizione ampliata, a cura e con
una prefazione di Arnold I. Davidson, Piccola
Biblioteca Einaudi, Torino 2005.
Igino, Miti, a cura di Giulio Guidorizzi,
Adelphi Edizioni, Milano 2000.
Reale Giovanni, Antiseri Dario, Il pensiero
occidentale dalle origini ad oggi. Corso di
filosofia per i licei classici e scientifici, II,
Editrice La Scuola, Brescia 1983.
Stroumsa Guy G., La fine del sacrificio. Le
mutazioni religiose della tarda antichità,
introduzione di Giovanni Filoramo, Einaudi, Torino
2006. |