[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

187 / LUGLIO 2023 (CCXVIII)


filosofia & religione

epimèleia heautoù
SUL CONCETTO DELLA CURA DI SÉ STESSI

di Francesca Trapé

 

Nel mondo antico il concetto di epimèleia heautoù rappresenta il processo di costruzione e progresso personale volto al raggiungimento dello stato ideale di saggezza. In particolare la parola “cura”, individua un termine polisemico, con varie sfumature di significato a seconda del contesto d’applicazione. Se nella lingua italiana farebbe pensare esclusivamente al tipo di terapia da attuare in caso di necessità o malattia, nella storia del pensiero antico, invece, sta a indicare l’insieme dei precetti che, declinati in maniera diversa a seconda della scuola di riferimento, permettono di superare se stessi per realizzare la piena riunificazione con la Totalità.

 

La dottrina del ritorno, secondo i neoplatonici, prevede che le parti del tutto si riassemblino con la Totalità e allo stesso tempo anche con se stesse, in un processo, appunto, di auto-ritorno. L’importanza dell’ascesi spirituale parte dal presupposto che l’anima sia immortale e che tenda, per sua natura, al ricongiungimento con il principio primo.

 

Per raggiungere tale grado di elevazione e affrancamento dalla materia, è necessario compiere un percorso di purificazione dell’anima. Prendendo come esempio il pensiero di Plotino, la cura di sé rappresenta metaforicamente l’atto di scolpire la propria statua togliendone il superfluo, praticando il distacco da ciò che è quotidiano ed esteriore. La statua preesiste nel blocco di marmo e soltanto eliminando le parti superficiali l’anima ritrova la sua vera natura nell’unità.

 

Il mito di Cura

Quello della cura di sé rappresenta, quindi, un tema connaturato nell’essere umano e per questo viene affrontato in più ambiti disciplinari. Un esempio dal punto di vista letterario può essere la storia di Cura e la creazione del primo uomo, narrata per esteso dal solo Igino:

 

«Cura, nell’attraversare un fiume, vide del fango argilloso, lo raccolse pensosa e cominciò a modellare un uomo; mentre stava osservando ciò che aveva fatto, arrivò Giove. Cura gli chiese di dar vita alla statua e Giove la esaudì senza difficoltà; ma quando Cura volle dargli il proprio nome, Giove glielo proibì e disse che doveva dargli il suo. Mentre Giove e Cura discutevano sul nome, intervenne anche la Terra, dicendo che la creatura doveva avere il suo nome, poiché era stata lei a dargli il corpo. Elessero a giudice Saturno, che a quanto pare diede un parere equo: “Tu, Giove, perché gli hai donato la vita […] ne riceverai il corpo. Cura, poiché per prima lo ha modellato, lo possegga finché vive; ma visto che è sorta una controversia a proposito del nome da dargli, lo si chiami uomo, poiché è fatto di humus”».

 

Si tratta di un mito antropogonico di origine latina, come testimonia l’etimologia della parola utilizzata: humus / homo. Sono evidenti, però, i numerosi richiami del mondo greco, in particolare di Esiodo, come nel mito di Prometeo (la formazione dell’uomo dall’argilla) e in quello di Pandora (la statua animata). Si ritiene anche che il racconto sia vicino alla tradizione stoica, come testimoniato dal rapporto con un passo di Seneca (Epist., 124, 14).

 

In questo mito la figura di Cura appare come elemento originario e quindi imprescindibile dell’esistenza umana. Inoltre le viene attribuito un duplice valore: quello di angoscia da un lato e di coscienza dall’altro. Entrambe queste sue interpretazioni comportano un movimento interiore molto dinamico, in continua tensione al di fuori di sé. Nell’uomo quindi, viene ammessa la possibilità di ricongiungimento e di elevazione al tutto, ma solo attraverso l’esercizio spirituale che coinvolge interamente lo psichismo umano, come afferma Hadot.

 

Nonostante quindi, sia evidente una sorta di assimilazione dei motivi letterari tra le due civiltà antiche, occorre specificare una differenza di fondo riguardo la concezione culturale del mito. Questa diversità si palesa già nella scelta del titolo della raccolta latina, ovvero la parola “Fabulæ”, e soprattutto nell’impianto schematico del volume stesso, strutturato dall’erudito latino come mera collezione di racconti. Inoltre, la semplicità e l’accessibilità stilistiche fanno pensare a un utilizzo didattico del testo, o comunque indirizzato verso pratiche quali la memorizzazione e l’esposizione orale. Qui il mito, infatti, appare privato della capacità originaria di evocazione, e si presenta, appunto, come quel genere di descrizione superficiale tanto temuta da Platone.

 

Per i Greci infatti, il mito è sì una forma di memoria culturale collettiva, ma soprattutto rappresenta l’espressione del sistema religioso su cui si basa l’intera società. La componente immaginativa del racconto mitologico serve a facilitare la comprensione delle questioni invisibili agli occhi della Ragione, e la mitopoiesi platonica in particolare, rappresenta compiutamente l’intento psicagogico della filosofia, in quanto attuato attraverso l’esercizio di memorizzazione e meditazione.

 

Il contenuto narrativo, che rimanda a un’altra dimensione, è funzionale al processo di costruzione dell’atmosfera interiore del soggetto e della sua rappresentazione del mondo. Seneca parla di meraviglia di fronte alla scoperta del mondo, perché si rende conto che il suo sguardo ha una visione diversa quando supera l’esteriorità dei fenomeni. Occorre quindi raggiungere un grado di percezione che sia il più possibile distaccato, teso verticalmente a ciò che muove veramente l’essere.

 

Nel caso del mito si tratta, spesso, di un racconto narrato a voce, poiché soltanto l’oralità permette di discutere attraverso un confronto dinamico, capace di adattarsi ai bisogni del momento e scandito dai tempi della parola. La pratica del dialogo può essere rivolta sia all’esterno, verso un ipotetico interlocutore che guida o che viene guidato nel processo di formazione, ma il colloquio può orientarsi anche all’interno. È il caso del dialogo socratico, che invita all’esercizio spirituale, poiché le domande poste obbligano a fare attenzione a se stessi, a preoccuparsi di sé.

 

Da questo punto di vista, ogni esercizio spirituale assume un carattere di tipo dialogico, in cui il soggetto che lo compie è allo stesso tempo presente a se stesso e agli altri. I dialoghi platonici, invece,sono composizioni letterarie che immaginano una conversazione reale. In essi viene tracciato l’itinerario del pensiero che deve condurre l’interlocutore a una determinata condizione mentale.

 

Così facendo le dottrine filosofiche scaturiscono in maniera spontanea attraverso lo sviluppo del discorso, e l’utilizzo consapevole della retorica è funzionale al raggiungimento della verità. Il procedimento dialettico indirizza l’interlocutore in maniera graduale verso il bene, e per tale motivo deve essere considerato esercizio di formazione e non di mera informazione. Si tratta di un percorso di elevazione in cui l’anima si allontana dalla dimensione del sensibile e raggiunge concretamente il divino.

 

Simbologia ed Emanazione

Secondo il pensiero tardo-platonico altra pratica efficace nella semplificazione di concetti oscuri è l’uso della simbologia, che testimonia il contatto perenne tra realtà divina e realtà materiale. Essa coinvolge l’interpretazione mentale e va al di là dei sensi.

 

Nel testo di Giamblico viene data particolare importanza ai tre simboli egiziani considerati indispensabili per l’avvicinamento dell’uomo al mondo divino. Come prima immagine viene nominata quella del dio che sta sopra il fango, seduto su un fiore di loto. Questo simbolo tripartito sembra richiamare la favola di Igino, poiché il limo su cui si erge il dio rappresenta la stessa terra generatrice da cui, nel mito latino, prende nome l’essere umano. Qui, però, attraverso l’opera di mediazione del fiore, viene messa in evidenza la mancanza di contatto tra la dimensione divina e quella materiale: il dio così, risulta trascendere il livello della materia, pur mantenendo una forte relazione con essa. In apparenza la separazione dei due mondi sembra più netta, ma come afferma Abammone/Giamblico, la divinità governa e presiede il tutto, intrattenendo un vero rapporto di comunicazione con la totalità degli esseri.

 

L’immagine tripartita segue la simbologia dei concetti di manenza, processione e ritorno, espressa dai neoplatonici in termini geometrici. In particolare la figura del fiore di loto si rifà al simbolo del cerchio, quindi alle idee di perfezione e unità. Inoltre la distinzione simbolica tra le due realtà conferma la configurazione gerarchica del cosmo giamblicheo e ancor prima di quello plotiniano, e testimonia la corruzione dell’anima umana a causa della sua prigionia corporea.

 

Secondo la concezione neoplatonica, infatti, la causalità è espressa in termini di emanazione, e per rendere esplicito tale processo, Giamblico fa riferimento al fluire inesauribile e continuo dei principi superiori in relazione agli inferiori. Per sua natura, infatti, ciò che è finito deve ascendere all’infinito attraverso degli intermediari che gradualmente ne catturano l’essenza. L’emanazione viene interpretata anche come “estasi”, nozione che ricorre in gran parte del pensiero medievale, ma che in questo caso fa riferimento all’accezione pagana del termine, che vuol dire “stare a parte”. Ciò significa che, nel fluire da un piano superiore a quello inferiore, poiché non esistono le coordinate spazio-temporali, il principio primo produce gli effetti senza perdere la sua potenza. Il mondo spirituale, infatti, non appare né temporalmente né spazialmente, definito.

 

Le metafore utilizzate per spiegare questo concetto in termini di simultaneità sono sviluppate in relazione ai sensi, specialmente quello della vista, a partire dall’idea comune secondo cui le realtà divine emettono luce verso il basso. Per quanto riguarda, invece, il rapporto tra emanazione e senso dell’olfatto è possibile ricondurre tale relazione alle pratiche teurgiche cui fa riferimento anche lo stesso Giamblico. Egli nomina alcuni oggetti che risultano essere adatti a ricevere l’influenza divina, in virtù della loro posizione alla fine di un percorso discensionale causato da un dio specifico. Allo stesso modo Psello (che sembra conservare la dottrina di Proclo andata perduta) conferma questa pratica teurgica spiegando che ciascuna divinità possedeva un proprio odore.

 

L’utilizzo, invece, dei suoni della lingua greca con funzione evocativa, sembra avere origine dai rituali caldaici. Ciascun fono può essere assimilato a una parte del cosmo ed è profondamente legato agli elementi geometrici. Giamblico specifica che l’impiego di determinati linguaggi, chiamati “barbari” perché lontani dal greco, è utile ai fini della connessione con le cose spirituali. Il greco invece, essendo una lingua frutto di convenzione, caratterizzata quindi da complessità e molteplicità, non possiede la stessa capacità evocativa. Al contrario, partendo dallo studio dei linguaggi orientali, definiti come “naturali” perché non compromessi dalla creazione di nuovi termini, è possibile scoprire le verità divine.

 

Oltre la filosofia

La tarda antichità ha attribuito l’insieme di queste dottrine filosofico-religiose riguardo la funzione del linguaggio e la liberazione dell’anima dal corporeo, alla figura mitica di Ermete Trismegisto, considerato il dio Thoth degli antichi Egiziani. Quando i Greci vennero a conoscenza di questa divinità egiziana trovarono diverse analogie con il loro Ermete (Mercurio) e per questo lo qualificarono con l’appellativo “Tre volte grandissimo”.

 

Negli scritti appartenenti al gruppo del Corpus Hermeticum, il dio supremo è concepito come essere che si esplica in un numero infinito di potenze e anche come forma archetipa, come principio del principio che non ha fine. Anche qui l’anima umana è soggetta a corruzione a causa della sua caduta spirituale, e per compiere la riunificazione nel divino deve liberarsi dai lacci materiali. L’uomo deve innanzitutto conoscere se stesso per riconoscere la sua parte divina come elemento costitutivo del principio primo.

 

Secondo la visione tardo-platonica, quindi, per provare a cogliere la realtà superiore, l’anima deve farsi guidare da processi più immediati, che vanno oltre il coinvolgimento del raziocinio. In questo modo il contatto con ciò che è superiore avviene non come forma di conoscenza, ma come processo di identificazione. La conoscenza, invece, è attività ambivalente perché nell’avvicinarsi al divino oggettiva la sua essenza provocando divisioni. Già in Plotino ritroviamo l’idea di metamorfosi e conversione dell’Io al raggiungimento del Bene. In quel momento vengono superate le divisioni prodotte dall’attività del pensiero: non è più distinguibile il soggetto dall’oggetto, e l’Io viene a coincidere con l’Uno.

 

La ripresa di questa concezione avviene da parte di Giamblico e dei suoi successori delle scuole neoplatoniche pagane. In questo ambito il mondo spirituale non è ordinato gerarchicamente soltanto in termini di causalità, ma anche in base a una gerarchia di gradi di cognizione. Se si considera come scopo la riunificazione con il principio primo, è necessaria soprattutto l’attività della credenza, che trascende la cognizione e non è correlata all’attività dell’intelletto, poiché supera i limiti della descrizione razionale.

 

Per Proclo la credenza può essere descritta come contatto o unione con l’ineffabile, ed essendo al di là di ogni forma di attività razionale, deve essere per forza collocata nel contesto del rituale teurgico. Eppure non esiste una divisione netta tra pensiero razionale e ineffabilità perché quest’ultima compenetra lo stesso pensiero, dal momento che è presente una quantità decrescente di ineffabilità nei livelli inferiori. Nelle anime convivono due attività differenti: la prima di tipo intellettivo-intuitivo ancora soggetta alla molteplicità, la seconda invece si riferisce alle pratiche del silenzio, dell’iniziazione ai misteri e della rinuncia al mondo inferiore. Ancora una volta, quindi, viene sottolineata l’importanza delle attività teurgiche come metodo speculativo e pratico nel percorso di conversione di sé verso la realtà superiore.

 

Ascesi teurgica e felicità

Tutte le scuole filosofiche (comprese quelle non nominate direttamente, come l’epicureismo, l’aristotelismo e lo stoicismo) concordano nel riconoscere l’idea di fondo dietro al concetto di cura di sé. Per il mondo pagano il fine ultimo della pratica filosofica è la liberazione dallo stato di angoscia che affligge l’essere umano in quanto vittima della cura, delle passioni terrene, della prigionia dell’anima. Allo stesso tempo, però, si concede la possibilità di riscatto dalla situazione di inquietudine che non gli permette di essere veramente e pienamente se stesso.

 

Il bene ultimo è fondamento di felicità, perché in esso le anime ritrovano quella serenità propria del ricongiungimento spirituale. Attraverso l’unificazione esse tornano alla loro essenza più compiuta e non sono più soggette ai turbamenti della vita materiale. Inoltre, poiché il Bene divino trascende il pensiero, può essere raggiunto soltanto per mezzo di attività che comportano la pura intuizione.

 

Tra queste è contemplata la divinazione, considerata come attività di predizione del futuro a partire dai segni naturali. Giamblico sostiene che essa sia un esercizio filosofico e non a carattere soprannaturale, proprio perché parte da una diagnosi su fenomeni naturali servendosi delle facoltà razionali, e metaforicamente la paragona alla pratica della semeiotica per quanto riguarda i sintomi della febbre. Egli afferma che questa forma di comunicazione ci rende partecipi del Bene ed essa stessa è espressione della bontà divina. Infatti, attraverso la previsione si riesce ad anticipare il male e a conoscere preventivamente la maniera migliore per esercitare la virtù.

 

In generale Giamblico sostiene che la teurgia sia in grado e di preparare la mente umana alla contemplazione divina e di unirla ad essa, ponendola al fianco del demiurgo “creatore”. In questo modo egli riesce a conciliare le pratiche mistico-religiose con l’attività filosofica. La teurgia quindi differisce dalla magia perché è rivolta verso il Bene e non ha come intento quello di piegare egoisticamente il volere divino al desiderio umano.

 

Proprio per questo motivo, in epoca rinascimentale e in ambiente cristiano, verrà data particolare importanza agli scritti dei filosofi pagani come Giamblico. Primo fra tutti Ficino, attraverso l’opera di traduzione della “tradizione platonica” a partire dagli scritti ermetici, riscoprì la filosofia come “illuminazione” della mente. Egli sosteneva l’esistenza dello “spirito” in quanto sostanza materiale sottilissima presente sia sulla terra, in ogni corpo, che in cielo. Questo spirito rappresentava, secondo Ficino, l’elemento di interazione tra l’anima e il corpo, ed era possibile predisporlo alla comunicazione attraverso la cosiddetta “magia naturale”, proprio perché comprendeva l’utilizzo di oggetti naturali, spesso accompagnato dalla musica. Ficino sosteneva anche che la teurgia fosse vicina alla medicina, perché in grado di captare gli influssi benevoli per curare lo spirito.

 

La condizione dualistica dell’essere umano, diviso tra anima e materia, viene superata nel momento in cui l’uomo coglie in se stesso la parte trascendente, e tenta di riportarla nel luogo di origine. Soltanto ponendo attenzione su di sé l’uomo può prendere coscienza dei propri limiti e mettersi nella condizione di riuscire a valicarli. L’analisi introspettiva e il percorso di formazione spirituale sono parte integrante dell’attività filosofica. Non può esserci separazione tra teoria e pratica, tanto che gli antichi saggi predicavano la necessità di vivere secondo i precetti della filosofia.

 

L’importanza data al vivere filosoficamente assurge a elemento di connessione tra la filosofia e la teurgia, entrambe volte all’elevazione dell’anima. Il tentativo di riunificazione con il divino, quindi, rende imprescindibile il concetto di cura di sé, che si esplicita nel tempo come necessità di migliorare se stessi per sentirsi pienamente partecipi di una realtà superiore e indivisibile.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Gersh Stephen, Da Giamblico a Eriugena. Origini e sviluppi della tradizione pseudo-dionisiana, edizione italiana a cura di Marialucrezia Leone e Cristoph Helmig, Edizioni di Pagina, Bari 2009.

Giamblico, I misteri egiziani, Testo greco a fronte e in appendice la versione latina di Marsilio Ficino…, Bompiani, Milano 2013.

Hadot Pierre, Esercizi spirituali e filosofia antica, Nuova edizione ampliata, a cura e con una prefazione di Arnold I. Davidson, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 2005.

Igino, Miti, a cura di Giulio Guidorizzi, Adelphi Edizioni, Milano 2000.

Reale Giovanni, Antiseri Dario, Il pensiero occidentale dalle origini ad oggi. Corso di filosofia per i licei classici e scientifici, II, Editrice La Scuola, Brescia 1983.

Stroumsa Guy G., La fine del sacrificio. Le mutazioni religiose della tarda antichità, introduzione di Giovanni Filoramo, Einaudi, Torino 2006.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]