medievale
IL VINO NEL MEDIOEVO
SULLA PRODUZIONE VITIVINICOLA TRA ETÀ
TARDO-ANTICA E XIV SECOLO
di Francesco Giannetti
In età tardo-antica il consumo del vino
in Italia si era ormai talmente diffuso
da divenire normale anche presso gli
schiavi. La coltivazione della vite non
si era però sviluppata prevalentemente
nelle regioni centro-meridionali della
Penisola – le più vocazionali per una
pianta tipicamente mediterranea che
predilige i climi temperati e i terreni
collinari, assolati e sassosi – ma nella
pianura padana, dove i terreni, in
prevalenza umidi e sciolti, avevano
consigliato la coltivazione alta, con le
viti «maritate» ad alberi tutori
(soprattutto olmi, ma anche pioppi,
platani e salici).
Il vino prodotto in queste zone era
sicuramente di bassa gradazione e spesso
di qualità scadente, ma ciò che allora
interessava non era tanto la qualità
quanto la quantità, dato che
l’amministrazione tardo-imperiale aveva
affidato alla pianura padana (la
cosiddetta «Italia annonaria») il
compito di rifornire di vino, oltre la
corte imperiale ormai stanziatasi a
Milano, anche gli eserciti stanziati
oltralpe. Ed era appunto un
impressionante fiume di vino – stando
alle testimonianze di Erodiano (III sec.
d.C.) – che da tutta la pianura padana
veniva convogliato verso Aquileia per
essere da qui esportato verso le regioni
germaniche, illiriche e danubiane.
Il paradosso della viticoltura italiana
d’età tardoromana (massimo della
produzione proprio nei territori
pedologicamente meno adatti) spiega bene
una delle caratteristiche peculiari
della viticoltura, la quale, richiedendo
un impegno specializzato, laborioso e
costante, è condizionata più che da
fattori climatici e ambientali, da
ragioni economiche, sociali,
demografiche, politiche, e persino
religiose.
Lo conferma il fatto che la viticoltura,
proprio in età medievale, finì con lo
scomparire pressoché totalmente dalle
regioni mediterranee di fede musulmana
(dato il divieto coranico che proibisce
tassativamente le bevande fermentate) e
si diffuse invece sino alle inospitali
isole britanniche, il margine climatico
estremo per la sua sopravvivenza,
facendo così coincidere il suo areale
produttivo con i confini stessi della
«Respublica Christiana», in altre parole
dell’Europa odierna.
Si può dunque, da subito, affermare che
la coltura della vite e il consumo del
vino furono ingredienti tipici e
costitutivi della «civiltà europea» e
comprendere il motivo per cui la
viticoltura conobbe la sua diffusione
più capillare in Italia e in Europa
proprio in età medievale, quando
l’inderogabile necessità di avere il
vino per le funzioni liturgiche si
scontrava con la difficoltà e l’alto
costo dei trasporti, consigliandone
quindi la produzione locale ai limiti
delle possibilità di sopravvivenza
climatiche e ambientali.
Fu appunto il Cristianesimo – che
proprio dalla vite e dal vino traeva i
riferimenti e le immagini più suggestive
per divulgare i suoi messaggi, per
spiegare i suoi misteri (la
«transustanziazione»), per alimentare i
suoi riti (il vino «sangue di Cristo») –
che si preoccupò di salvaguardare quanto
restava della viticoltura tardo-antica
in un’Italia dapprima sconvolta dalla
profonda recessione economica e
demografica del III e IV secolo d.C. e
poi dalle devastazioni belliche e dalle
desolazioni che accompagnarono e
seguirono la caduta dell’Impero romano.
Quella che sopravvisse al mondo antico
era comunque una viticoltura fortemente
ridimensionata, se pur amorevolmente
curata e protetta da una proprietà
ecclesiastica alla quale era
indispensabile, come si è detto, per le
pratiche liturgiche. La vite si ridusse
così, nel VI-VII secolo, in età
longobarda e bizantina, a essere
coltivata in orti o spazi ben cintati da
siepi (clausurae) ai margini dei
villaggi o all’interno stesso delle mura
di città ormai in gran parte diroccate e
semi spopolate.
Una vigorosa ripresa della viticoltura
si ebbe anche in Italia in età
carolingia per merito soprattutto del
ceto ecclesiastico. Furono dapprima i
vescovi a utilizzare ampiamente i
contratti enfiteutici con le clausole
«ad pastinandum» per incrementare la
diffusione dei vigneti nelle zone più
prossime alle loro città, ma furono poi
i monaci benedettini a dare un impulso
decisivo al riestendersi della
viticoltura anche in aperta campagna, là
dove sorgevano di preferenza le loro
abbazie e dove iniziarono massicci
lavori di diboscamento e dissodamento. «Templa,
domos, vites, oleas, pomeria struxit
(“Costruì palazzi e case e piantò viti,
olivi e alberi da frutto”)», è il
lapidario elogio che vien fatto
nell’iscrizione funebre di un abate
milanese del IX secolo e che potrebbe
essere esteso a tutti gli ecclesiastici
del tempo.
Alla viticoltura ecclesiastica
(episcopale, monastica, e in seguito
anche canonicale) si affiancò però ben
presto una viticoltura laica e
signorile, promossa inizialmente per
puri scopi alimentari e di prestigio (il
consumo del vino restò per tutto l’alto
medioevo un vero e proprio status
symbol) ma poi, dopo il Mille, anche
quale fonte di sicuro reddito economico.
Incastellamento e diffusione del vigneto
nelle campagne sono fenomeni così
correlati tra di loro nell’Italia del
X-XI secolo, da porre la vigna come
elemento costante ai piedi del castello
nel tipico paesaggio rurale d’età
feudale.
Ma una capillare diffusione del vigneto
– massiccio soprattutto nelle zone
suburbane – e un pressoché generalizzato
consumo del vino lo si ebbe in Italia
soltanto con l’affermarsi della civiltà
comunale. Nelle città-stato del XII-XIII
secolo i ceti emergenti dei mercanti e
degli artigiani trovarono proprio nel
consumo del vino uno dei segni più
tangibili della loro tumultuosa ascesa
economica e sociale e, disponendo, in
misura sempre maggiore, di capitale
liquido, lo investirono di preferenza
nell’acquisto di piccole vigne,
possibilmente non molto distanti dalla
città, e destinate a una produzione in
grado di soddisfare in prima istanza il
consumo familiare (l’autosufficienza
alimentare è un vero e proprio mito nel
medioevo) e poi, se possibile, al sempre
più ricettivo mercato cittadino.
Col passaggio del vino da consumo
riservato ai ceti sociali più elevati a
consumo popolare e generalizzato (almeno
nelle città, perché nelle campagne si
produceva sempre più vino, ma se ne
consumava molto poco, e solo di scadente
qualità, perché il colono preferisce
esitarlo sul mercato per acquistare
altri beni, arnesi e bestiame), quello
della vitivinicoltura divenne uno dei
settori produttivi maggiormente posto
sotto controllo dalle classi dirigenti
urbane, sempre vigili ai problemi
connessi all’approvvigionamento
cittadino, ma anche sensibili ai
consistenti introiti fiscali che
potevano derivare dal commercio e dal
consumo generalizzato del vino.
Sono chiara testimonianza di queste
preoccupazioni e di queste aspettative
gli statuti cittadini, sempre ricchi di
disposizioni rivolte sia alla difesa e
alla diffusione dei vigneti, sia ai
problemi connessi con i trasporti e la
vendita all’ingrosso o al minuto
dell’uva e del vino e non mancano
neppure norme precise e dettagliate sui
lavori che i coloni debbono svolgere nel
vigneto (propagginare le viti, potarle,
concimarle, zapparle, vendemmiare e poi
portare il prodotto pattuito, in genere
un terzo dell’uva o metà del mosto o del
vino, nelle cantine padronali, ecc.).
Una norma costantemente presente negli
statuti medievali italiani è quella
concernente la data d’inizio delle
vendemmie, data che doveva essere la
stessa per tutto il territorio e per
tutte le qualità di uva per impedire le
speculazioni dettate dall’aspettativa
che si aveva a quel tempo per il vino
novello, molto più apprezzato nel
medioevo del vino «vecchio», date le
ancora arretrate tecniche di
vinificazione e di conservazione dei
vini.
Una trasformazione importante subì
comunque la viticoltura italiana in età
medievale. Dal vigneto specializzato e
puntiforme d’età alto medievale (vinea)
si passò pian piano in età comunale alla
coltura promiscua della vite con altre
colture (terra vineata),
soprattutto cereali, ma anche prati,
olivi, querce, castagni. Il modello
colturale prevalente diverrà alla fine,
almeno in pianura e nelle basse zone
collinari, la cosiddetta «piantata» (un
terreno a cereali, e a rotazione a
prato, delimitato ai lati da filari di
alberi reggenti i festoni di vite).
In questa forma promiscua – più
redditizia, essendo in grado di
provvedere anche fogliame per gli
animali e legname da ardere – la vite è,
nel XIII secolo, ormai distribuita
capillarmente in tutta la penisola,
compresa la Sicilia recuperata al
Cristianesimo (e dunque alla
vitivinicoltura) dai conquistatori
normanni, e persino nelle zone paludose
della bassa pianura o nelle zone montane
sopra gli 800 metri, coprendo così un
ambito spaziale mai più raggiunto nei
secoli successivi.
È in questo senso che si è potuto, a
ragione, affermare che la coltura della
vite e del vino fu un coltura
tipicamente «medievale». Che il consumo
del vino – la cui precisa entità vedremo
più avanti – fosse ormai un fatto
generalizzato in età comunale, ce lo
confermano moltissime fonti, anche le
più insospettabili, come le agiografie,
dove ritorna di gran moda da parte dei
santi compiere il miracolo classico
della trasformazione dell’acqua in vino,
per rispondere a un’attesa frustrata da
contingenze avverse (carestie,
condizioni climatiche sfavorevoli,
eventi bellici, ecc.).
A ulteriore conferma dell’importanza e
dell’attenzione che in età comunale si
riserva alla vitivinicoltura, come del
resto alla produzione agraria in
generale, la si ha nella ricomparsa in
Occidente dei trattati agronomici, a
integrazione e in sostituzione di quei
manuali di agricoltura romani tramandati
perché ricopiati non certo
disinteressatamente nei monasteri
altomedievali.
È dunque, a suo modo, un evento
straordinario la redazione da parte del
giudice bolognese Pier de’ Crescenzi del
Liber ruralium commodorum che si
proponeva di descrivere tutte le
pratiche agrarie del suo tempo. L’opera,
scritta verso il 1307, mescola, com’è
noto, reminiscenze libresche desunte
dagli agronomi romani (Catone, Varrone,
Columella, Palladio) o dagli
enciclopedisti medievali (soprattutto
Alberto Magno) con osservazioni ed
esperienze dirette.
Se dunque da un lato vi si trovano
proposte pratiche agrarie del tutto
«libresche» e mistificanti quali gli
innesti impossibili del ciliegio sul
salice o della vite sul ciliegio, si
trovano anche spiegazioni «scientifiche»
e soluzioni tecniche di una sorprendente
modernità. La parte specifica dedicata
da Pier de’ Crescenzi alla
vitivinicoltura è forse la più
emblematica al riguardo. Un terzo dei 48
capitoli che la riguardano è presa pari
pari dalle enciclopediche Geoponica
bizantine (VII secolo) tradotte, proprio
per quanto riguarda la viticoltura e
l’enologia, in latino nel 1169 da
Burgundio da Pisa.
Molte altre osservazioni sono riprese
dal Palladio, ma del tutto originale è
la descrizione ampelografica dei vitigni
coltivati all’epoca dell’autore in varie
parti d’Italia e soprattutto nel
Bolognese. Vi si elencano una trentina
di vitigni, distinguendo metodicamente
le uve bianche da quelle nere, quelle
ottime da quelle mediocri, quelle adatte
alla vinificazione e quelle da tavola,
quelle che danno un vino adatto
all’invecchiamento e quelle che
producono un vino da consumare nel corso
dell’annata.
Riferimenti bibliografici:
S. De Siena, Il vino nel mondo
antico. Archeologia e cultura di una
bevanda speciale, Mucchi, 2012.
A.I. Pini, Vite e vino nel medioevo,
CLUEB, 1989. |