[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

174 / GIUGNO 2022 (CCV)


medievale

IL VINO NEL MEDIOEVO

SULLA PRODUZIONE VITIVINICOLA TRA ETÀ TARDO-ANTICA E XIV SECOLO

di Francesco Giannetti

 

In età tardo-antica il consumo del vino in Italia si era ormai talmente diffuso da divenire normale anche presso gli schiavi. La coltivazione della vite non si era però sviluppata prevalentemente nelle regioni centro-meridionali della Penisola – le più vocazionali per una pianta tipicamente mediterranea che predilige i climi temperati e i terreni collinari, assolati e sassosi – ma nella pianura padana, dove i terreni, in prevalenza umidi e sciolti, avevano consigliato la coltivazione alta, con le viti «maritate» ad alberi tutori (soprattutto olmi, ma anche pioppi, platani e salici).

 

Il vino prodotto in queste zone era sicuramente di bassa gradazione e spesso di qualità scadente, ma ciò che allora interessava non era tanto la qualità quanto la quantità, dato che l’amministrazione tardo-imperiale aveva affidato alla pianura padana (la cosiddetta «Italia annonaria») il compito di rifornire di vino, oltre la corte imperiale ormai stanziatasi a Milano, anche gli eserciti stanziati oltralpe. Ed era appunto un impressionante fiume di vino – stando alle testimonianze di Erodiano (III sec. d.C.) – che da tutta la pianura padana veniva convogliato verso Aquileia per essere da qui esportato verso le regioni germaniche, illiriche e danubiane.

 

Il paradosso della viticoltura italiana d’età tardoromana (massimo della produzione proprio nei territori pedologicamente meno adatti) spiega bene una delle caratteristiche peculiari della viticoltura, la quale, richiedendo un impegno specializzato, laborioso e costante, è condizionata più che da fattori climatici e ambientali, da ragioni economiche, sociali, demografiche, politiche, e persino religiose.

 

Lo conferma il fatto che la viticoltura, proprio in età medievale, finì con lo scomparire pressoché totalmente dalle regioni mediterranee di fede musulmana (dato il divieto coranico che proibisce tassativamente le bevande fermentate) e si diffuse invece sino alle inospitali isole britanniche, il margine climatico estremo per la sua sopravvivenza, facendo così coincidere il suo areale produttivo con i confini stessi della «Respublica Christiana», in altre parole dell’Europa odierna.

 

Si può dunque, da subito, affermare che la coltura della vite e il consumo del vino furono ingredienti tipici e costitutivi della «civiltà europea» e comprendere il motivo per cui la viticoltura conobbe la sua diffusione più capillare in Italia e in Europa proprio in età medievale, quando l’inderogabile necessità di avere il vino per le funzioni liturgiche si scontrava con la difficoltà e l’alto costo dei trasporti, consigliandone quindi la produzione locale ai limiti delle possibilità di sopravvivenza climatiche e ambientali.

 

Fu appunto il Cristianesimo – che proprio dalla vite e dal vino traeva i riferimenti e le immagini più suggestive per divulgare i suoi messaggi, per spiegare i suoi misteri (la «transustanziazione»), per alimentare i suoi riti (il vino «sangue di Cristo») – che si preoccupò di salvaguardare quanto restava della viticoltura tardo-antica in un’Italia dapprima sconvolta dalla profonda recessione economica e demografica del III e IV secolo d.C. e poi dalle devastazioni belliche e dalle desolazioni che accompagnarono e seguirono la caduta dell’Impero romano.

 

Quella che sopravvisse al mondo antico era comunque una viticoltura fortemente ridimensionata, se pur amorevolmente curata e protetta da una proprietà ecclesiastica alla quale era indispensabile, come si è detto, per le pratiche liturgiche. La vite si ridusse così, nel VI-VII secolo, in età longobarda e bizantina, a essere coltivata in orti o spazi ben cintati da siepi (clausurae) ai margini dei villaggi o all’interno stesso delle mura di città ormai in gran parte diroccate e semi spopolate.

 

Una vigorosa ripresa della viticoltura si ebbe anche in Italia in età carolingia per merito soprattutto del ceto ecclesiastico. Furono dapprima i vescovi a utilizzare ampiamente i contratti enfiteutici con le clausole «ad pastinandum» per incrementare la diffusione dei vigneti nelle zone più prossime alle loro città, ma furono poi i monaci benedettini a dare un impulso decisivo al riestendersi della viticoltura anche in aperta campagna, là dove sorgevano di preferenza le loro abbazie e dove iniziarono massicci lavori di diboscamento e dissodamento. «Templa, domos, vites, oleas, pomeria struxit (“Costruì palazzi e case e piantò viti, olivi e alberi da frutto”)», è il lapidario elogio che vien fatto nell’iscrizione funebre di un abate milanese del IX secolo e che potrebbe essere esteso a tutti gli ecclesiastici del tempo.

 

Alla viticoltura ecclesiastica (episcopale, monastica, e in seguito anche canonicale) si affiancò però ben presto una viticoltura laica e signorile, promossa inizialmente per puri scopi alimentari e di prestigio (il consumo del vino restò per tutto l’alto medioevo un vero e proprio status symbol) ma poi, dopo il Mille, anche quale fonte di sicuro reddito economico. Incastellamento e diffusione del vigneto nelle campagne sono fenomeni così correlati tra di loro nell’Italia del X-XI secolo, da porre la vigna come elemento costante ai piedi del castello nel tipico paesaggio rurale d’età feudale.

 

Ma una capillare diffusione del vigneto – massiccio soprattutto nelle zone suburbane – e un pressoché generalizzato consumo del vino lo si ebbe in Italia soltanto con l’affermarsi della civiltà comunale. Nelle città-stato del XII-XIII secolo i ceti emergenti dei mercanti e degli artigiani trovarono proprio nel consumo del vino uno dei segni più tangibili della loro tumultuosa ascesa economica e sociale e, disponendo, in misura sempre maggiore, di capitale liquido, lo investirono di preferenza nell’acquisto di piccole vigne, possibilmente non molto distanti dalla città, e destinate a una produzione in grado di soddisfare in prima istanza il consumo familiare (l’autosufficienza alimentare è un vero e proprio mito nel medioevo) e poi, se possibile, al sempre più ricettivo mercato cittadino.

 

Col passaggio del vino da consumo riservato ai ceti sociali più elevati a consumo popolare e generalizzato (almeno nelle città, perché nelle campagne si produceva sempre più vino, ma se ne consumava molto poco, e solo di scadente qualità, perché il colono preferisce esitarlo sul mercato per acquistare altri beni, arnesi e bestiame), quello della vitivinicoltura divenne uno dei settori produttivi maggiormente posto sotto controllo dalle classi dirigenti urbane, sempre vigili ai problemi connessi all’approvvigionamento cittadino, ma anche sensibili ai consistenti introiti fiscali che potevano derivare dal commercio e dal consumo generalizzato del vino.

 

Sono chiara testimonianza di queste preoccupazioni e di queste aspettative gli statuti cittadini, sempre ricchi di disposizioni rivolte sia alla difesa e alla diffusione dei vigneti, sia ai problemi connessi con i trasporti e la vendita all’ingrosso o al minuto dell’uva e del vino e non mancano neppure norme precise e dettagliate sui lavori che i coloni debbono svolgere nel vigneto (propagginare le viti, potarle, concimarle, zapparle, vendemmiare e poi portare il prodotto pattuito, in genere un terzo dell’uva o metà del mosto o del vino, nelle cantine padronali, ecc.).

 

Una norma costantemente presente negli statuti medievali italiani è quella concernente la data d’inizio delle vendemmie, data che doveva essere la stessa per tutto il territorio e per tutte le qualità di uva per impedire le speculazioni dettate dall’aspettativa che si aveva a quel tempo per il vino novello, molto più apprezzato nel medioevo del vino «vecchio», date le ancora arretrate tecniche di vinificazione e di conservazione dei vini.

 

Una trasformazione importante subì comunque la viticoltura italiana in età medievale. Dal vigneto specializzato e puntiforme d’età alto medievale (vinea) si passò pian piano in età comunale alla coltura promiscua della vite con altre colture (terra vineata), soprattutto cereali, ma anche prati, olivi, querce, castagni. Il modello colturale prevalente diverrà alla fine, almeno in pianura e nelle basse zone collinari, la cosiddetta «piantata» (un terreno a cereali, e a rotazione a prato, delimitato ai lati da filari di alberi reggenti i festoni di vite).

 

In questa forma promiscua – più redditizia, essendo in grado di provvedere anche fogliame per gli animali e legname da ardere – la vite è, nel XIII secolo, ormai distribuita capillarmente in tutta la penisola, compresa la Sicilia recuperata al Cristianesimo (e dunque alla vitivinicoltura) dai conquistatori normanni, e persino nelle zone paludose della bassa pianura o nelle zone montane sopra gli 800 metri, coprendo così un ambito spaziale mai più raggiunto nei secoli successivi.

 

È in questo senso che si è potuto, a ragione, affermare che la coltura della vite e del vino fu un coltura tipicamente «medievale». Che il consumo del vino – la cui precisa entità vedremo più avanti – fosse ormai un fatto generalizzato in età comunale, ce lo confermano moltissime fonti, anche le più insospettabili, come le agiografie, dove ritorna di gran moda da parte dei santi compiere il miracolo classico della trasformazione dell’acqua in vino, per rispondere a un’attesa frustrata da contingenze avverse (carestie, condizioni climatiche sfavorevoli, eventi bellici, ecc.).

 

A ulteriore conferma dell’importanza e dell’attenzione che in età comunale si riserva alla vitivinicoltura, come del resto alla produzione agraria in generale, la si ha nella ricomparsa in Occidente dei trattati agronomici, a integrazione e in sostituzione di quei manuali di agricoltura romani tramandati perché ricopiati non certo disinteressatamente nei monasteri altomedievali.

 

È dunque, a suo modo, un evento straordinario la redazione da parte del giudice bolognese Pier de’ Crescenzi del Liber ruralium commodorum che si proponeva di descrivere tutte le pratiche agrarie del suo tempo. L’opera, scritta verso il 1307, mescola, com’è noto, reminiscenze libresche desunte dagli agronomi romani (Catone, Varrone, Columella, Palladio) o dagli enciclopedisti medievali (soprattutto Alberto Magno) con osservazioni ed esperienze dirette.

 

Se dunque da un lato vi si trovano proposte pratiche agrarie del tutto «libresche» e mistificanti quali gli innesti impossibili del ciliegio sul salice o della vite sul ciliegio, si trovano anche spiegazioni «scientifiche» e soluzioni tecniche di una sorprendente modernità. La parte specifica dedicata da Pier de’ Crescenzi alla vitivinicoltura è forse la più emblematica al riguardo. Un terzo dei 48 capitoli che la riguardano è presa pari pari dalle enciclopediche Geoponica bizantine (VII secolo) tradotte, proprio per quanto riguarda la viticoltura e l’enologia, in latino nel 1169 da Burgundio da Pisa.

 

Molte altre osservazioni sono riprese dal Palladio, ma del tutto originale è la descrizione ampelografica dei vitigni coltivati all’epoca dell’autore in varie parti d’Italia e soprattutto nel Bolognese. Vi si elencano una trentina di vitigni, distinguendo metodicamente le uve bianche da quelle nere, quelle ottime da quelle mediocri, quelle adatte alla vinificazione e quelle da tavola, quelle che danno un vino adatto all’invecchiamento e quelle che producono un vino da consumare nel corso dell’annata.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

S. De Siena, Il vino nel mondo antico. Archeologia e cultura di una bevanda speciale, Mucchi, 2012.

A.I. Pini, Vite e vino nel medioevo, CLUEB, 1989.

RUBRICHE


attualità

ambiente

arte

filosofia & religione

storia & sport

turismo storico

 

PERIODI


contemporanea

moderna

medievale

antica

 

ARCHIVIO

 

COLLABORA


scrivi per instoria

 

 

 

 

PUBBLICA CON GBE


Archeologia e Storia

Architettura

Edizioni d’Arte

Libri fotografici

Poesia

Ristampe Anastatiche

Saggi inediti

.

catalogo

pubblica con noi

 

 

 

CERCA NEL SITO


cerca e premi tasto "invio"

 


by FreeFind

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

 

[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]