N. 111 - Marzo 2017
(CXLII)
IL
PROCESSO
DI
SOCRATE
UNA
CONDANNA
A
MORTE
“NECESSARIA”
-
PARTE I
di
Paola
Scollo
Sullo
sfondo
dell’Atene
del
IV
secolo
a.C.
Socrate
fu
chiamato
a
difendersi
dalla
duplice
accusa
di
empietà
e di
corruzione
dei
giovani.
Il
processo,
che
si
svolse
nel
399
a.C.,
si
concluse
-
come
è
ben
noto
-
con
la
condanna
a
morte
del
filosofo.
La sentenza, nel corso dei secoli, ha diviso le coscienze e
spesso
Socrate
è
stato
considerato
vittima
di
un
processo
ingiusto.
Ma
fu
davvero
così?
Numerosi
sono
gli
interrogativi
che
si
impongono
alla
nostra
attenzione
e a
cui,
non
sempre,
è
possibile
offrire
risposte
adeguate.
Ancor
prima
del
problema
relativo
alle
fonti
del
processo,
emergono
almeno
altre
due
questioni,
ovvero
la
“storicità”
del
filosofo
ateniese
e la
sua
“scelta”
di
non
lasciare
scritti.
A
ben
vedere,
una
quaestio
socratica
era
già
viva
all’interno
delle
scuole
cosidette
socratiche:
gli
allievi
del
filosofo,
infatti,
per
primi
avvertirono
la
difficoltà
di
“fissare”
in
modo
definito
e
definitivo
i
contenuti
dell’insegnamento
del
maestro.
Di
necessità,
anche
per
la
ricostruzione
delle
fasi
del
processo
siamo
costretti
a
dipendere
da
testimonianze
indirette.
Fondamentali sono anzitutto due dialoghi di Platone: l’Apologia
di
Socrate
e il
Critone.
Proprio
da
questi
due
testi
apprendiamo
che
il
processo
si
svolse
quando
il
filosofo
aveva
circa
70
anni
(Apologia
17 d
-
Critone
52
e).
Va
da
sé
che
lettura
di
queste
testimonianze
reca
inevitabili
rischi:
quella
che
ne
deriva,
infatti,
è
un’immagine
di
Socrate
filtrata
dal
pensiero
dell’allievo.
In
particolar
modo
nel
Critone,
come
è
stato
più
volte
rilevato
dalla
critica,
viene
tracciato
il
profilo
del
filosofo
ideale,
e
non
propriamente
quello
di
Socrate.
Pertanto,
è
impresa
destinata
al
fallimento
il
tentativo
di
tracciare
una
linea
di
demarcazione
netta
tra
il
pensiero
di
Platone
e
quello
del
maestro.
Ulteriori fonti utili alla ricostruzione del processo, nonostante
dipendano
da
Platone,
sono
l’Apologia
e i
quattro
libri
dei
Memorabili
di
Senofonte.
Infine,
sono
da
annoverare
i
cosiddetti
logoi
socratici,
scritti
in
forma
dialogica
attribuiti
a
Eschine
e ad
Antistene,
che
riproducono
i
discorsi
pronunciati
dal
maestro.
È
bene
ricordare
che
anche
questi
scritti,
alcuni
dei
quali
probabilmente
composti
quando
Socrate
era
ancora
in
vita,
avevano
funzione
apologetica,
cioè
quella
di
difendere
l’immagine
del
filosofo
dai
numerosi
detrattori,
eternandone
il
pensiero
e
l’insegnamento.
E
occorre
ancora
sottolineare
che
spesso
le
fonti
divergono,
per
cui
l’analisi
delle
stesse
si
configura,
in
buona
sostanza,
come
un
lavoro
di
comparazione
e di
selezione.
Qualsivoglia tentativo di analisi della vicenda processuale
di
Socrate
deve
prendere
le
mosse
da
una
riflessione
sui
contenuti
dell’insegnamento
socratico
e,
soprattutto,
sul
pensiero
e
sul
modus
vivendi
del
filosofo.
La
ricerca
di
una
precisione
scientifica
estranea
al
relativismo
dei
sofisti,
la
fiducia
nelle
potenzialità
della
dialettica,
l’aspirazione
alla
conoscenza,
l’indagine
etica
e
l’attenzione
alla
virtù
posero
inevitabilmente
Socrate
in
posizione
di
distanza
rispetto
all’indagine
speculativa
precedente.
A
tal
proposito
Senofonte
ricorda
che
Socrate
«trattava
sempre
questioni
inerenti
agli
uomini,
indagando
su
che
cosa
fosse
pio,
che
cosa
empio,
che
cosa
bello,
che
cosa
turpe,
che
cosa
giusto,
che
cosa
ingiusto,
che
cosa
la
saggezza,
che
cosa
la
pazzia,
che
cosa
il
coraggio,
che
cosa
la
viltà,
che
cosa
lo
Stato,
che
cosa
l’uomo
politico,
che
cosa
il
governo
degli
uomini
e
che
cosa
l’uomo
adatto
a
governare
gli
uomini
[…]»
(Mem.
I
1.16).
Lo slancio vitale del filosofo entrò così in conflitto con
le
norme
che
regolavano
la
vita
politica,
in
quanto
espressione
di
una
“diversità”
o,
meglio,
atipia
rispetto
alla
massa.
Pertanto,
benché
- a
detta
di
Platone
-
Socrate
avesse
consapevolezza
del
prorio
essere
atopos,
ossia
fuori
luogo,
si
trovò
coinvolto
nelle
vicende
della
polis
di
Atene.
Gomperz,
per
esempio,
ha
individuato
nel
processo
di
Socrate
un
conflitto
«storicamente
necessario,
tra
gli
ideali
della
polis
e i
nuovi
principi
cosmopolitici
che
avrebbero
trionfato
nell’epoca
seguente
[…]».
Timpanaro
ha
poi
indicato
la
complessità
di
valutazione
della
condanna
di
Socrate
«nel
fatto
che
Socrate
era
un
antidemocratico
razionalista
e
antitradizionalista,
mentre
i
suoi
avversari
erano
democratici
tradizionalisti
e
oscurantisti
[…]».
Alla luce delle considerazioni fin qui svolte, è legittimo
supporre
che
dietro
le
accuse
rivolte
a
Socrate
fossero
celati
i
timori
della
società
ateniese
nei
confronti
di
uno
spirito
libero
e di
un
metodo
di
indagine
critico.
In
effetti,
la
lettura
delle
pagine
di
Platone
induce
a
“leggere”
nella
condanna
di
Socrate
una
sorta
di
vendetta
nei
confronti
di
un
orizzonte
ideologico
percepito
come
pericoloso
e
destabilizzante.
Entriamo,
allora,
nei
dettagli
della
vicenda
processuale,
con
particolare
attenzione
alla
linea
difensiva
seguita
dal
filosofo,
secondo
le
fonti
in
nostro
possesso.
Anzitutto, Socrate non intende muovere a pietà i giudici.
Leggendo
Platone,
si
ha
la
percezione
che
le
argomentazioni
offerte
da
Socrate
non
fossero
finalizzate
a
ribadire
la
propria
innocenza,
ma a
sottolineare
il
profondo
valore
dei
suoi
insegnamenti.
A
ben
vedere,
anche
alcuni
passi
dell’Apologia
(23)
e
dei
Memorabili
(Iv
4.4)
di
Senofonte
contribuirebbero
a
corroborare
tale
idea.
Certo,
il
discorso
di
Socrate
è
fittamente
intessuto
di
topoi
retorici,
soprattutto
nel
riferimento
alla
fama
di
sapienza
dell’imputato
e ai
benefici
recati
all’umanità.
In
sintesi,
l’ironia
socratica
si
muove
nel
solco
delle
regole
di
una
“retorica
filosofica”
che
mira
a
esaltare
la
verità
dei
contenuti.
Ma
c’è
di
più.
Emerge
poi
una
evidente
frattura
tra
l’atteggiamento
di
sfida
di
Socrate
e
l’obbedienza
alla
legge,
fra
trasgressione
e
legalità,
fra
valori
morali
e
leggi
dello
Stato.
E
tale
frattura
non
poteva
che
essere
sanata
mediante
l’accettazione
della
morte,
atto
estremo
di
coerenza
con
un
ideale
di
vita
razionale.