Un
secolo difficile
Era il 26 maggio 1592 quando il
filosofo sedette per la prima volta
al banco degli imputati
dell’Inquisizione,
in quel di Venezia. Qui prese il via
un processo che si rivelerà lungo e
complesso, come complessa era stata
la vita dell’imputato. Giordano
Bruno, all’anagrafe
Filippo, era nato nel 1548 a Nola,
vicino Napoli, nel mezzo di
un secolo cruciale nella storia
della Chiesa. Questa era stata
spaccata in due dalla Riforma
luterana, a cui era seguita la
Controriforma cattolica lanciata dal
Concilio di Trento, inaugurato nel
1545. Due anni prima, Paolo III
aveva istituito l’Inquisizione
romana (o Santo Uffizio) e nel 1559
Paolo IV creerà l’Indice dei
libri proibiti. La Chiesa
cattolica si dotò così di due
strumenti persecutori di cui Bruno,
suo malgrado, farà presto
conoscenza.
Inquieto peregrinare
La
carriera monastica di
Giordano Bruno
iniziò nel convento di
San Domenico a Napoli, dove entrò a
17 anni. Giovane dall’animo
irrequieto,
fu investito dalla prima denuncia
quando era ancora novizio, reo di
aver tolto dalla propria cella le
immagini dei santi. Successivamente,
nel 1576, un confratello lo accusò
di eresia per aver espresso dei
dubbi sulla dottrina della Trinità.
«L’accusa era difficile da provare,
ma in un eventuale processo si
sarebbe sommata alla precedente
denuncia, che rimarcava il poco
rispetto che Bruno aveva del culto
dei santi», racconta Anna Foa,
docente di Storia moderna alla
Sapienza di Roma e autrice del
saggio Giordano Bruno (il
Mulino). Il rischio di una condanna
era dunque consistente, e così Bruno
lasciò Napoli riparando a Roma.
Dovette però fuggire anche da qui,
perché accusato ingiustamente
dell’omicidio di un frate. Iniziò
quindi un periodo di peregrinazioni
in tutta Europa, dove, spogliatosi
degli abiti domenicali, vagabondò di
città in città avvicinandosi a ogni
confessione cristiana, desideroso di
allargare i propri orizzonti di
studio e le proprie riflessioni
filosofiche. A Ginevra aderì al
calvinismo, in Germania entrò in
contatto con i luterani e in
Inghilterra con gli anglicani,
distinguendosi tra l’altro per una
serie di lezioni “poco gradite”
sulla
teoria eliocentrica di Copernico, di
cui era
sostenitore. Questa e altre
sue convinzioni irritarono però le
varie gerarchie ecclesiastiche e
Bruno si ritrovò così scomunicato
praticamente da tutte le Chiese
cristiane europee, cattoliche o
riformate che fossero. Con tale
curriculum,
nel
1592 fece ritorno
in
Italia.
L’inizio del calvario
Nel marzo
1592 si stabilì a Venezia, chiamato
da tal Giovanni Mocenigo, un nobile
ansioso di apprenderne le cosiddette
“arti magiche” e in particolare la
“mnemotecnica”, un efficace metodo
di memorizzazione che lo stesso
Bruno aveva ideato, rimarcando però
come tale tecnica derivasse “non
dalla magia, ma dalla scienza”. Quel
soggiorno veneziano fu l’inizio
della sua fine. Quando infatti il
filosofo riferì l’intenzione di
riprendere i suoi viaggi, Mocenigo,
irritato dal suo comportamento,
corse a denunciarlo per eresia.
Le
accuse
Bruno fu
arrestato la sera del 23 maggio
1592, e tre giorni dopo fu mandato a
processo. Ma quali erano i capi
d’accusa? Mocenigo aveva sostenuto,
tra le altre cose, che Bruno fosse
una specie di stregone, che non
credesse nella verginità di Maria,
che fosse un lussurioso e che
volesse fondare una nuova setta.
Dalle accuse emerse poi uno degli
elementi centrali del pensiero di
Bruno: la presenza di un universo
infinito e di infiniti mondi, idea
inaccettabile per l’epoca, che
andava oltre persino la teoria
copernicana. «Le accuse, per quanto
gravi, provenivano tuttavia dal solo
Mocenigo ed erano piuttosto confuse,
motivo per cui il processo veneziano
poteva anche finire con
un’assoluzione o una condanna
lieve», spiega l’esperta. A quel
punto giunse però una richiesta di
estradizione da Roma, dove Bruno fu
trasferito il 27 febbraio 1593. Alle
accuse del Mocenigo si erano intanto
aggiunte quelle di fra’ Celestino da
Verona, che con Bruno aveva
condiviso la detenzione veneziana.
«I nuovi capi d’accusa, simili a
quelli del Mocenigo, furono avallati
da altri quattro compagni di cella
di Bruno, e alla fine emerse
l’immagine distorta di un uomo senza
religione, pronto a burlarsi di ogni
credenza», continua la storica.
Processo romano
Della
fase romana del processo non è
sopravvissuto alcun verbale, ma
esiste un Sommario compilato
tra il 1597 e il 1598. Tale
documento, basato sugli atti
veneziani e su quelli romani, è
stato scoperto nel 1940 e reso
pubblico solo di recente. Quel che
sappiamo è che il tribunale raccolse
un totale di 31 capi d’imputazione,
che ricoprivano praticamente ogni
aspetto della vita di Bruno, dalla
sua condotta morale, alle credenze
teologiche e filosofiche. L’iter
processuale si protrasse in ogni
caso per anni, tra interrogatori,
sospensioni e, forse, un episodio di
tortura nel 1597. Fu solo
l’intervento del cardinale gesuita
Roberto Bellarmino, pezzo grosso del
Sant’Uffizio, implicato anche nel
caso Galileo, a
sbloccare la situazione. Bellarmino
sottopose a Bruno otto proposizioni
da abiurare, poiché eretiche.
«L’abiura era un elemento
fondamentale nei processi di tal
genere: se un eretico rinnegava le
proprie opinioni, otteneva infatti
un trattamento mite, ma per Bruno
rinunciare alle sue verità
significava sottomettersi a
un’autorità, quella dei giudici e
dei teologi dell’Inquisizione, che
lui non riconosceva», commenta Foa.
La posizione dell’imputato,
all’inizio “tentennate”, si fece
sempre più ferma, e il 21 dicembre
1599, nell’ultimo interrogatorio,
dichiarò di non aver nulla da
ritrattare. In sostanza, Bruno
rigettò l’accusa di eresia in quanto
non si considerava un teologo, bensì
un filosofo che andava,
semplicemente, alla ricerca della
verità. Ma agli occhi della Chiesa,
negando l’abiura, confermava di
essere un “eretico impenitente,
pertinace e ostinato”, come recitava
la sentenza di condanna espressa l’8
febbraio 1600. Il 17 dello stesso
mese, quel pensatore fuori dal
comune fu zittito per sempre,
avvolto dalle fiamme.
Anticipatore
L’impatto
di Giordano Bruno sulle posizioni
della Chiesa, specie in ambito
scientifico, fu sconvolgente, ma
tuttora la Santa Sede, pur avendo
espresso “profondo rammarico” per la
sua morte, non ne ha riabilitato il
pensiero. Eppure Bruno, figlio di
un’era ancora “prescientifica”
(ossia precedente l’introduzione del
metodo sperimentale di Galileo
Galilei), è stato capace di
intuizioni straordinarie. Nello
scritto La cena de le ceneri
(1584) espresse per esempio il
principio di relatività del moto,
anticipando lo stesso Galileo.
Inoltre, con la sua teoria sulla
presenza di “mondi innumerevoli e
innumerabili”, cioè immaginando che
l’universo ospiti un numero
illimitato di stelle-soli, Bruno
ipotizzò l’esistenza di pianeti
extrasolari (confermata solo nel
1995) anticipando persino la teoria
del “multiverso”. Complesse teorie
scientifiche a parte, Giordano Bruno
sarà ricordato per sempre come
simbolo universale della libertà di
pensiero. Da difendere anche a costo
della vita.