N. 132 - Dicembre 2018
(CLXIII)
SUI PROCESSI FARSA IN TURCHIA CONTRO GLI ACCADEMICI
FIRMI UNA PETIZIONE SULLA PACE? TI ACCUSO DI TERRORISMO
di
Leila
Tavi
Oltre
cinquecento
accademici
sono
sotto
processo
in
Turchia
per
aver
firmato
nel
2016
una
petizione
per
la
pace
tra
lo
Stato
turco
e la
minoranza
curda.
In
un
momento
di
forte
conflitto
tra
il
governo
e il
Partito
dei
Lavoratori
del
Kurdistan
(PKK
-
Partiya
Karkerên
Kurdistanê),
caratterizzato
da
una
repressione
indiscriminata
e da
una
violenta
persecuzione
dei
civili
di
etnia
curda,
la
petizione
degli
accademici
affermava
di
non
voler
essere
parte
di
un
tale
crimine
contro
i
diritti
umani,
chiedendo
di
porre
fine
a
tali
gravi
violazioni
dei
diritti
umani
e di
riprendere
i
colloqui
tra
le
parti
per
una
soluzione
pacifica
del
conflitto.
Le
autorità
turche
hanno
condannato
la
posizione
degli
accademici
per
una
risoluzione
pacifica
con
la
minoranza
curda
nel
loro
Paese
come
«un
sostegno
alla
violenza»
e,
ai
sensi
dell’articolo
7/2
della
legge
antiterrorismo
turca,
tutti
i
firmatari
sono
stati
accusati
di
propaganda
terroristica.
Alcuni
dei
docenti
sotto
processo
sono
stati
addirittura
accusati,
ai
sensi
dell’articolo
301
del
codice
penale,
di
«insultare
la
nazione
e lo
Stato
turco».
Al
momento
sono
stati
emessi
centocinque
verdetti,
di
cui
sessantuno
per
pene
detentive.
Il
format
dei
processi
è
quello
a
cui
siamo
stati
abituati
con
le
accuse
a
carico
dei
giornalisti,
si
tratta
di
processi
farsa,
con
procedura
extra
legem,
se
non
contra
legem,
in
cui
giudici
anonimi,
dalle
toghe
nere
con
alti
colletti
di
colore
rosso
e
oro,
fanno
finta
di
ascoltare
le
arringhe
degli
avvocati
e le
dichiarazioni
degli
imputati.
Si
nascondono
dietro
ai
loro
computer,
oppure
sono
chini
sui
loro
cellulari,
senza
mai
alzare
lo
sguardo
sugli
imputati
o
sui
loro
difensori.
Non
prestano
la
minima
attenzione
chi
è al
banco
della
difesa
sotto
di
loro,
onesti
cittadini
messi
alla
berlina
e
sotto
accusa
solo
per
aver
fatto
appello
alla
Costituzione
del
popolo
e al
rispetto
fondamentale
diritto
di
libertà
di
parola.
Un
procuratore
durante
uno
dei
processi
si è
addirittura
addormentato.
Sembra
inutile
pertanto
difendersi,
poiché
tutto
è
già
deciso
prima
ancora
che
il
processo
inizi.
Così,
quando
arriva
il
turno
del
procuratore,
quest’ultimo
legge
semplicemente
una
dichiarazione,
ritagliata
e
incollata
dalla
documentazione
di
un
processo
precedente,
in
cui
si
afferma
che
la
firma
della
petizione
è
senza
ombra
di
dubbio
un
sostegno
al
terrorismo.
Non
c’è
nemmeno
la
pretesa
di
fornire
motivazioni
legali
o
probatorie
a
sostegno
della
domanda.
Stesso
copione
per
il
giudice
che
deve
leggere
la
sentenza,
un
copia
incolla
reiterato
che,
a
volte,
ha
rivelato
una
sciatta
attenzione
perfino
nel
modificare
il
nome
dell’imputato,
così
da
leggere
sentenze
per
persone
assenti,
già
condannate.
L’ISPP,
la
Società
Internazionale
di
Psicologia
Politica
turca,
ha
lanciato
un
appello
per
delle
donazioni
online
al
fine
di
poter
sostenere
le
spese
legali
degli
accademici
sotto
processo
o
sostenere
una
ricerca
libera
in
Turchia;
l’onorario
di
un
valido
avvocato
penalista
corrisponde
circa
a
mille
dollari,
mentre
per
un’ora
di
consulenza
legale
servono
settanta
dollari.
Il
26
dicembre
il
presidente
Erdoğan
ha
dichiarato
che
lo
Stato
turco
è
riuscito
finalmente
a
salvare
le
università
dalla
fanatica
mentalità
dei
divieti
e
che
in
Turchia
le
rivolte
studentesche,
che
per
decenni
hanno
animato
le
sedi
accademiche,
il
divieto
del
velo
a
lezione
e il
sostegno
alle
organizzazioni
terroristiche
appartengono
ormai
alla
storia.
Proseguono
inoltre
i
processi
agli
oppositori
politici
e ai
giornalisti.
All’inizio
di
dicembre
le
forze
dell’ordine
hanno
fatto
irruzione
nel
quartier
generale
del
Partito
Democratico
dei
Popoli
(HDP
-
Halkların
Demokratik
Partisi)
a
Diyarbakır,
nel
sud-est
della
Turchia,
arrestando
ventitré
attiviste
del
TJA
(Free
Women’s
Movement),
che
avevano
iniziato
uno
sciopero
della
fame
per
solidarietà
con
una
loro
deputata,
Leyla
Güven,
in
attesa
di
processo
in
carcere,
che
da
oltre
cinquanta
giorni
sta
facendo
uno
sciopero
della
fame
per
protestare
contro
le
ingiuste
accuse
nei
suoi
confronti.
Un
altro
caso
giudiziario
attualmente
in
corso
vede
coinvolti
il
portavoce
del
Parlamento
turco,
Binali
Yıldırım,
e i
suoi
figli,
che
hanno
aperto
un
processo
contro
la
giornalista
freelance
Pelin
Ünker,
corrispondete
per
«Deutsche
Welle
Türkçe»,
per
la
sua
copertura
dei
ParadisePapers
e la
sua
collaborazione
con
il
Consorzio
internazionale
dei
giornalisti
investigati.
Il
suo
processo
in
primo
grado
è in
corso
di
svolgimento
nel
Tribunale
di
Istanbul
Çağlayan.
Infine,
la
giornalista
del
«Cumhuriyet»
Işıl
Özgentürk
è
stata
recentemente
condannata
a
cinque
mesi
di
reclusione
per
due
articoli
da
lei
scritti
Nel
buio
del
chador
e
Religione
e
socialisti,
che
sono
stati
considerati
dalle
autorità
turche
un
insulto
ai
valori
religiosi
della
società.
Accademici,
giornalisti
e
intellettuali
continuano
nella
loro
strenua
lotta
per
la
libertà
di
manifestazione
del
pensiero,
una
libertà
a
cui
la
Dichiarazione
universale
dei
diritti
dell’uomo
del
1948
dedica
due
articoli,
sottolineando
come
ogni
individuo
abbia
diritto
alla
libertà
di
opinione
e di
espressione,
incluso
il
diritto
a
non
essere
molestato
per
la
propria
opinione.
La
libertà
di
espressione
è
sancita
anche
dall’art.
10
della
Convenzione
europea
per
la
salvaguardia
dei
diritti
dell’uomo
e
delle
libertà
fondamentali,
che
tutela
il
diritto
alla
libertà
di
espressione,
includendo
la
libertà
di
opinione
e la
libertà
di
ricevere
o di
comunicare
informazioni
o
idee
senza
che
vi
possa
essere
ingerenza
da
parte
delle
autorità
pubbliche
e
senza
limiti
di
frontiera.
La
libertà
dei
media
e il
loro
pluralismo
devono
inoltre
essere
rispettati.
La
Turchia
è un
Paese
ferito
da
una
grave
frattura
tra
l’élite
politica
e la
società
civile,
mentre
i
politici
al
potere
sono
in
preda
all’oscurantismo,
al
fanatismo
religioso
e a
una
deriva
autoritaria,
la
cittadinanza
è
spaccata
tra
coloro
che
coraggiosamente
cercano
di
difendere
i
diritti
fondamentali
come
baluardo
di
un
processo
di
democratizzazione,
foriero
di
progresso
e di
pace,
e
coloro
che
si
arroccano
in
posizioni
estremiste
e
d’intolleranza.
Il
trend
politico
lo
dimostra,
considerato
che
le
previsioni
di
voto
per
le
prossime
amministrative
che
svolgeranno
domenica
31
marzo
2019
vedono
il
partito
di
maggioranza,
il
Partito
per
la
Giustizia
e lo
Sviluppo
(AKP
-
Adalet
ve
Kalkınma
Partisi)
perdere
ancora
elettori
nei
confronti
dell’alleato
partito
nazionalista
di
estrema
destra,
Partito
del
Movimento
Nazionalista
(MHP
-
Milliyetçi
Hareket
Partisi)
e
nei
confronti
del
principale
partito
popolare
di
opposizione,
il
Partito
Popolare
Repubblicano
(CHP
-
Cumhuriyet
Halk
Partisi).
Kemal
Özkiraz,
presidente
dell’Eurasia
Public
Opinion
Research
Centre
(AKAM),
ha
dichiarato
in
una
recente
intervista
al
quotidiano
turco
indipendente
online
«Diken»
che
il
partito
del
presidente
Erdoğan
ha
perso
la
sua
capacità
di
‘connettersi’
con
il
grande
pubblico.
Il
legame
con
la
società
civile
dell’AKP,
trasformato
in
un
partito
di
Stato
burocratizzato,
si è
indebolito
molto
rispetto
al
MHP.
I
sondaggi
fanno
una
stima
del
38%
dei
voti
per
l’AKP,
mentre
la
CHP
dovrebbe
ricevere
il
33%
di
sostegno,
riducendo
il
divario
tra
il
governo
turco
e il
principale
partito
di
opposizione.
Per
Özkiraz
tale
previsione
rispecchia
l’«improvvisa
inversione
di
marcia
in
nazionalismo»
dell’AKP
rispetto
all’idea
di
una
comunità
musulmana
universale,
l’ummah,
di
cui
Erdoğan
è
professato
leader
da
molti
esponenti
del
suo
partito
in
campagna
elettorale.
Tale
ripensamento
da
parte
del
governo
turco
nei
confronti
di
una
comunità
globale
musulmana
è
stato
sicuramente
causato
dall’arrivo
in
Turchia
di
tre
milioni
e
mezzo
di
rifugiati
siriani,
facendo
della
Turchia
un
altro
Paese
in
cui
le
migrazioni
di
massa
creano
un’irrazionale
diffidenza
e
isteria
popolare.