N. 145 - Gennaio 2020
(CLXXVI)
ESPLORANDO IL nord del mondo
Il
Nord
Atlantico
nell’immaginario
degli
esploratori
europei
del
XVI
secolo
di
Filiberto
Ciaglia
Comprendere
quale
fosse
la
concezione
del
Nord
nell’Europa
del
XVI
secolo
vuol
dire,
in
qualche
modo,
entrare
nelle
menti
dei
grandi
esploratori
in
procinto
d’avventurarsi
tra
le
acque
e le
terre
ancora
custodite
dalla
parte
ignota
del
Nord
Atlantico.
La
cartografia
di
quella
latitudine
allora
a
disposizione
rifletteva
l’esito
di
traversate
ben
più
antiche,
molte
delle
quali
con
ogni
probabilità
non
ebbero
mai
luogo.
Se
si
dovesse
scegliere
un
primo
tentativo
di
ricerca
di
ciò
che
si
nascondesse
a
nord
del
mondo
conosciuto,
esso
deve
essere
quello
di
Pitea.
Egli
se
ne
partì
nella
seconda
metà
del
IV
secolo
a.C
e,
superato
lo
Stretto
di
Gibilterra,
si
diresse
a
nord
verso
le
isole
britanniche
che
furono
raggiunte
e
visitate
in
più
punti.
Fu
un’osservazione
in
particolare,
però,
che
suscitò
e
ancora
suscita
dei
dubbi
su
quali
terre
avesse
scorto
nella
sua
navigazione:
a
quanto
sembra,
il
marinaio
riportò
notizie
su
un’isola
a
nord
della
Scozia
con
particolari
condizioni
di
luce
e
masse
di
ghiaccio
nei
mari
circostanti.
La
chiamò
Thule.
Perduto
il
suo
resoconto
esplorativo,
sulle
cui
notizie
noi
abbiamo
le
testimonianze
di
esponenti
di
spicco
dell’età
antica,
il
riconoscimento
di
questa
terra
rimane
un
mistero
che
abbraccia
tra
le
varie
possibilità
l’Islanda,
le
Shetland
o
persino
le
coste
occidentali
della
Scandinavia.
Un’altra
nota
avventura
fu
quella
di
San
Brendano
e
dei
monaci
irlandesi.
Nella
tradizione
monastica
europea,
la
fondazione
dei
monasteri
si
inquadrava
in
un
allontanamento
dai
centri
abitati
verso
le
zone
più
estreme:
le
immense
foreste,
i
picchi
montuosi
o le
isole
deserte.
Brendano
salpò
verso
nord
proprio
in
conformità
a
tale
tradizione,
alla
ricerca
d’un
luogo
privo
di
tormenti
e
tentazioni.
Come
tutti
i
racconti
delle
fondazioni
monastiche
l’elemento
simbolico
agiografico
permea
le
narrazioni,
ed è
un
fattore
da
tener
presente
nel
tentativo
di
identificazione
dei
luoghi
raggiunti.
Nella
Navigatio,
che
è
l’opera
su
cui
i
viaggi
vennero
riportati
dal
santo,
furono
descritte
diverse
isole
difficili
da
riconoscere.
È
certo
che
raggiunsero
le
Faer
Oer
e
l’Islanda,
mentre
è
decisamente
improbabile
la
scoperta
delle
Americhe
che
in
molti
hanno
ipotizzato.
Quel
che
è
sicuro
invece,
è
che
nella
cartografia
europea
della
prima
età
moderna
l’influenza
della
Navigatio
si
rifletteva
nella
toponomastica
atlantica:
come
nella
mappa
del
cartografo
Bartolomeo
Pareto
del
1455,
al
tempo
al
servizio
di
papa
Niccolò
V,
dove
le
Insulae
Sancti
Brendani
erano
raffigurate
a
ovest
dello
Stretto
di
Gibilterra
e a
nord
dell’arcipelago
delle
Canarie.
L’esempio
della
mappa
di
Pareto
è
solo
uno
tra
i
tanti
che
si
avvicendarono
ben
oltre
il
XVI
secolo,
mano
a
mano
che
gli
spazi
si
svelavano
grazie
alle
spedizioni,
e
che
relegarono
in
posizioni
sempre
più
remote
le
isole
misteriose
scoperte
dal
santo.
Tornando
più
a
nord,
in
Islanda
la
comunità
di
monaci
era
cresciuta
nel
corso
degli
anni,
infoltita
da
altri
irlandesi
che
raggiungevano
l’isola
per
sfuggire
alle
scorrerie
vichinghe.
Erano
passati
tre
secoli
dall’approdo
islandese
di
San
Brendano,
quando
nella
seconda
metà
del
IX
secolo
d.C
i
Vichinghi,
a
bordo
delle
loro
caratteristiche
navi
lunghe
a
vela
quadra,
raggiunsero
l’isola
e la
colonizzarono
decretando
la
lenta
fine
della
presenza
irlandese.
Tuttavia
essi
si
spinsero
più
a
nord,
raggiungendo
la
Groenlandia
prima
e la
Terra
di
Baffin
poi,
discendendo
verso
sud
sulle
coste
dell’isola
di
Terranova.
Le
informazioni
a
proposito
di
questo
arrivo
precolombiano
nel
continente
americano,
oltre
a
essere
figlie
delle
saghe
che
i
Vichinghi
stessi
hanno
trasmesso,
furono
avvalorate
da
un’importante
scoperta
archeologica
negli
anni
Sessanta:
l’esploratore
Helge
Ingstad
e
sua
moglie
Anne
Stin,
archeologa,
scoprirono
un
villaggio
vichingo
nella
parte
settentrionale
dell’isola
di
Terranova.
Il
sito
fu
denominato
“L’Anse
aux
Meadows”
ed è
stato
incluso
dall’Unesco
nella
lista
dei
patrimoni
dell’umanità;
molti
storici
concordano
sul
fatto
che
il
villaggio
fu
fondato
da
Leif
Eriksson
e
popolato
per
tre
anni
prima
d’essere
abbandonato,
forse
a
causa
degli
scontri
con
gli
indiani.
E la
stessa
fine
toccò
ai
villaggi
più
affollati
della
costa
occidentale
della
Groenlandia,
che
contavano
diverse
migliaia
di
abitanti
norvegesi:
dal
XIII
secolo
i
contatti
con
l’Islanda
e
con
la
Norvegia
si
fecero
via
via
più
sporadici,
al
punto
da
preoccupare
i
pontefici
della
prima
età
moderna
sul
destino
dei
vescovi
groenlandesi
e
sui
fedeli
dell’isola.
Con
ogni
probabilità
l’ultimo
colono
vichingo
morì
in
uno
dei
villaggi
nel
XV
secolo,
completamente
dimenticato
dalla
propria
patria
e,
incredibilmente,
dai
navigatori
europei
che
si
avventurarono
in
Atlantico
dalla
fine
del
Quattrocento.
In
effetti,
se
per
quelli
di
San
Brendano
e
altri
viaggi
esiste
un
ricordo
che
si
riflesse
nella
cartografia
europea
e
guidò
gli
esploratori
a
partire
dalle
spedizioni
da
Colombo,
per
quanto
riguarda
la
scoperta
vichinga
il
silenzio
è
totale.
Tornando
alle
Insulae
Sancti
Brendani,
la
loro
presenza
nelle
mappe
non
rappresenta
un
unicum
nella
cartografia
del
cinquecento.
Esisteva
anche
l’isola
di
Hy
Brasil,
collocata
a
ovest
dell’Irlanda
e
leggendariamente
descritta
dai
miti
locali
quale
atollo
sommerso
che
riemerge
dai
mari
una
volta
ogni
sette
anni.
In
genere,
la
messa
a
punto
di
questa
e di
altre
isole
avvolte
dal
mito
negli
spazi
atlantici
serviva
a
rendere
l’ignoto
meno
insopportabile,
oltre
a
delineare
dei
luoghi
remoti
nei
quali
le
esistenze
erano
caratterizzate
dall’assenza
di
dolore.
Mi
soffermerei
infine
su
un’altra
questione
particolare,
una
navigazione
che
condizionò
i
viaggi
in
Nord
Atlantico.
Si
tratta
del
viaggio
dei
Fratelli
Zeno,
due
navigatori
veneziani
che
avrebbero
preso
il
mare
intorno
al
1380
riuscendo
a
raggiungere
non
solo
le
principali
isole
europee
del
Nord
Atlantico
ma
anche
la
Nuova
Scozia.
Il
resoconto
della
spedizione
fu
pubblicato
da
un
lontano
discendente
in
un
libro
nel
1558
dal
titolo
Dello
scoprimento
dell’isole
Frislanda,
Eslanda,
Engrouenlanda,
Estotilanda
e
Icaria
fatto
sotto
il
Polo
artico
da’due
fratelli
Zeni,
M.Nicolo
il
K. e
M.Antonio.
Nonostante
esista
una
minoranza
di
studiosi
che
ancora
sostiene
la
veridicità
dell’approdo
degli
Zeno
nel
Nuovo
Mondo,
i
più
ritengono
il
racconto
un’invenzione
del
discendente
dei
fratelli
abilmente
elaborata
in
un
periodo
nel
quale
mappe
e
resoconti
di
scoperta
non
mancavano
di
certo
per
avere
i
giusti
spunti.
In
ogni
caso,
quel
che
desta
un
interesse
notevole
è
l’influenza
che
il
contenuto
dell’opera
e
della
mappa
al
suo
interno
ebbero
sulle
spedizioni
dirette
a
nord
ovest
alla
fine
del
XVI
secolo.
Le
isole
inventate
sparse
per
il
Nord
Atlantico
comparvero
nelle
mappe
di
Ortelius,
di
Mercatore,
e
nei
resoconti
delle
prime
spedizioni
britanniche
in
cerca
del
Passaggio
di
Nord
Ovest.
La
mappa
del
Nord
Atlantico
di
Abraham
Ortelius,
che
è
uno
dei
più
autorevoli
geografi
dell’età
moderna,
riassume
tutte
le
credenze
cui
si è
fatto
cenno:
dalle
terre
visitate
dai
fratelli
Zeno
all’isola
di
Hy
Brasil,
con
il
caratteristico
fiume
d’acqua
che
ne
percorre
il
diametro
da
nord
a
sud,
mentre
a
ovest
e
più
o
meno
alla
stessa
latitudine
spicca,
isolata
rispetto
alla
mappa
di
Pareto
d’un
secolo
prima
e
spostata
di
migliaia
di
chilometri,
l’Isola
di
San
Brendano.
Con
un
tale
bagaglio
di
leggende
e
miti
che
solo
in
qualche
caso
presentavano
frammenti
di
autenticità,
l’Europa
che
guardò
a
Nord
prese
il
largo
a
partire
dal
XVI
secolo.
Le
terre
scorte
e le
genti
nelle
quali
gli
esploratori
s’imbatterono,
seppure
colte
in
ultima
analisi
nella
loro
totale
alterità
rispetto
al
vecchio
mondo
e
alle
immaginarie
geografie
di
partenza,
finirono
comunque
per
essere
contaminate
da
quello
che
nel
vecchio
mondo
s’era
scritto
e
detto
su
ciò
che,
da
sempre
fino
a
quel
momento,
l’orizzonte
gelosamente
aveva
custodito.
Riferimenti
bibliografici:
S.
Eliot
Morison,
Storia
della
scoperta
dell’America.
La
conquista
del
nord,
Res
Gestae,
1971.
T.J.
Oleson,
Zeno
Antonio,
in
Dictionary
of
Canadian
Biography,
Vol.
1,
1979.
R.
Hakluyt,
I
viaggi
inglesi
(1494-1600),
II
volume,
a
cura
di
Franco
Marenco,
1966.
S.
White,
A
cold
welcome.
The
little
Ice
Age
and
Europe’s
encounter
with
North
America,
Harvard
Press,
2017.