N. 52 - Aprile 2012
(LXXXIII)
il primato italiano nel Risorgimento
storia di un’invenzione - parte II
di Roberto Rota & Giovanni Piglialarmi
Il
mito
del
primato
italiano
cambierà
di
pari
passo
con
le
circostanze
politiche,
se
per
il
Cuoco
esso
si
inseriva
nelle
vicende
dell’occupazione
francese
e
nella
necessità
di
un’emancipazione
autoctona,
la
situazione
cambia
a
cavallo
degli
anni
‘30
e
‘40.
Dopo
il
fallimento
delle
stagioni
rivoluzionarie
del
1820-21
e
del
1830-31
è
sempre
più
evidente
che
la
situazione
italiana
non
potrà
cambiare
senza
la
collaborazione
della
diplomazia
internazionale.
Le
forze
interne,
soprattutto
carbonari
e
liberali,
sono
troppo
deboli
dinanzi
all’intervento
delle
potenze
straniere
che
difendono
gli
equilibri
della
Santa
Alleanza,
quindi
solo
un
cambiamento
degli
assetti
europei
avrebbe
potuto
cambiare
la
situazione.
Paradossalmente
l’evidenza
della
necessità
dell’ausilio
straniero
fa
crescere
la
boria
nazionale
e le
speculazioni
circa
il
primato
degli
italiani.
Espressione
di
questa
nuova
stagione
di
sciovinismo
e
fanatismo
nazionale
saranno
le
speculazioni
di
Vincenzo
Gioberti.
Le
novità
del
sacerdote-filosofo
torinese
saranno
molte
rispetto
al
Cuoco,
in
primis
egli
non
si
soffermerà
esclusivamente
sull’origine
della
filosofia
italica
ma
guarderà
alla
Scolastica
come
al
culmine
della
speculazione
nostrana.
Gioberti
condivide
l’idea
dell’esistenza
di
un
primitivo
popolo
italico
(i
pelasgi)
i
quali,
già
descritti
nel
Timeo
platonico
con
il
mito
di
Atlantide,
avrebbero
colonizzato
la
Grecia
e
quindi
sarebbero
stati
essi
i
veri
fondatori
della
civiltà
occidentale.
La
vera
novità,
però,
dell’opera
giobertiana
è
racchiusa
nella
sua
opera
più
nota:
Del
primato
morale
e
civile
degli
Italiani
(1843).
Come
suggerisce
il
titolo,
egli
sostiene
l’esistenza
di
un’effettiva
superiorità
morale
dell’Italia
in
quanto,
oltre
al
mito
pelasgico,
essa
è
stata
scelta
come
sede
del
papato
e
quindi
evidentemente
eletta
ad
esser
guida
degli
altri
popoli.
Egli
sostiene
che
la
vera
sapienza
è
data
dall’unione
della
filosofia
e
della
teologia
in
quanto
entrambe
discendenti
all’unico
Verbo,
ma
la
divisione
tra
i
popoli
e la
moltiplicazione
delle
lingue
ha
portato
al
distacco
delle
due
discipline,
separazione
completa
in
occidente,
a
causa
delle
filosofie
barbariche,
incompleta
in
oriente
che
è
riuscito
a
conservare
una
qual
certa
unione
grazie
al
mito
e al
simbolismo.
La
nuova
e
vera
comunione
è
avvenuta,
però,
solo
grazie
alla
religione
cristiana
ed
in
particolare
ai
Padri
della
Chiesa
e
alla
Scolastica
la
quale
è
riuscita,
attraverso
il
“principio
supremo
di
creazione”
(L’ente
crea
l’esistente,
l’esistente
ritorna
all’ente),
a
ricongiungere
filosofia
e
teologia
senza
cadere
nel
panteismo
(come
i
tedeschi)
o
nel
dualismo
assoluto
(come
i
francesi,
per
esempio
Cartesio).
La
filosofia
del
Gioberti,
partendo
dalla
critica
al
nominalismo
speculativo
e
politico
(secondo
cui
devono
essere
le
idee
a
condizionare
le
istituzioni,
come
nel
contrattualismo)
esalta
il
realismo
ideale
(l’effettiva
esistenza
delle
idee),
secondo
cui
“l’essenza
della
cognizione
non
[è]
nel
soggetto
ma
nella
semplice
apprensione
dell’oggetto”.
Essendo
la
verità
racchiusa
nell’oggetto,
le
istituzioni
politiche
non
devono
nascere
dalle
speculazioni
filosofiche
ma
bensì
dall’effettività
del
reale:
cosa
ci
dice
la
realtà
italiana?
Che
l’unica
forza
in
grado
di
dare
nuovamente
lustro
alla
penisola
è il
papato
il
quale
dovrebbe
esser
messo
a
capo
di
una
confederazione
di
principi.
Questo
è il
progetto
politico
denominato
“neoguelfo”
che,
come
abbiamo
visto,
non
nasce
da
considerazioni
politiche
o
pragmatiche
ma,
bensì,
da
speculazioni
filosofiche
molto
astratte
le
quali
ci
dicono,
in
nome
del
realismo
ideale,
che
l’Ente
è
evidente
o
meglio
che
l’oggettività
della
storia
italiana
è
evidente
e ci
suggerisce
che
la
migliore
prospettiva
è
quella
della
confederazione
papale.
Il
primato
della
filosofia
italiana
risiede
nel
fatto
che
essa
è la
custode
di
quella
“protologia”
cioè
di
quella
“prima
scienza”
superiore
a
tutte
le
altre
che
altro
non
è
che
il
Principio
di
Creazione,
il
quale
permette
di
non
cadere
nei
due
errori
del
panteismo
e
del
dualismo
assoluto.
Anche
per
Gioberti
le
caratteristiche
di
questa
filosofia
erano
già
racchiuse
nel
pensiero
di
Pitagora
fautore
di
un
realismo
filosofico
(e
quindi
delle
idee)
e
politico.
La
vena
speculativa
italiana,
vero
vanto
della
nostra
filosofia,
è
stata
oscurata
dall’Impero
Romano,
per
poi
riaffiorare
nella
Scolastica;
essa
passa
di
nuovo
in
secondo
piano
con
il
Rinascimento
e
con
il
naturalismo
per
ritornare
con
le
riflessioni
di
Vico
anche
se è
nuovamente
abbandonata
dagli
italiani
che
cercano
di
farsi
imitatori
degli
stranieri
con
il
sensismo,
il
cartesianesimo
e la
filosofia
tedesca
(Kant).
Quindi,
in
definitiva,
cercando
di
ripercorrere
il
canone
degli
autori
italiani,
Gioberti
vuole
definire
(o
meglio
riscoprire)
il
nucleo
della
superiore
filosofia
italica,
base
del
suo
primato,
che
si
può
riassumere
nei
due
concetti
del
principio
creativo
e
del
realismo
ideale.
A
differenza
degli
altri
tentativi,
però,
la
prospettiva
giobertiana,
mettendo
in
connessione
la
questione
nazionale
e
quella
papale
tocca
un
tasto
particolarmente
sentito
dalla
popolazione,
soprattutto
dopo
la
salita
al
soglio
pontifico
di
Pio
IX
da
molti
considerato,
almeno
all’inizio,
un
papa
liberale.
Quindi
la
sua
dottrina
del
primato
avrà
uno
straordinario
successo
anche
perché,
intorno
alla
prospettiva
della
confederazione
papale,
egli
riuscirà
a
cementare
gran
parte
dei
liberali
italiani
i
quali
abbandoneranno
tale
prospettiva
solo
dopo
il
fallimento
dei
moti
del
1848
e il
“tradimento”
di
Pio
IX.
Dagli
anni
‘40
in
poi
il
mito
del
primato
si
concentrerà
sempre
meno
sulla
questione
delle
origini
(per
esempio
il
mito
italico
degli
etruschi
o
dei
pelasgi)
e
sempre
di
più
sull’eccellenza
della
filosofia
italiana,
quindi
si
esalterà
più
la
tradizione
e la
continuità
che
l’antichità
e la
primogenitura.
Per
esempio
Terenzio
Mamiani
celebrerà
quel
“metodo
naturale”
simbolo
ed
esclusività
dell’eccellenza
della
filosofia
italiana.
Mamiani
sottolinea
che
essendo
Una
la
verità
Uno
è il
metodo
sia
per
la
filosofia
che
per
le
scienze
e
questa
è
stata
la
grande
scoperta
italiana,
inoltre
prende
in
rassegna
i
grandi
autori
italiani
artefici
di
questo
metodo
unitario
tra
cui
Archimede
(il
primo),
Telesio
(il
primo
ad
utilizzarlo
nelle
scienze
fisiche),
Campanella
(il
primo
nelle
scienze
morali)
e
soprattutto
Galilei.
Partendo
dalla
sua
critica
proprio
a
Mamiani,
il
filosofo
e
sacerdote
Antonio
Rosmini
contribuisce
anch’egli
alla
dottrina
del
primato.
Tra
le
sue
varie
speculazioni
egli
afferma
“la
verità
[…]
rimanda
ad
enti
intelligibili
(le
idee)
che
determinano
la
condizione
di
conoscibilità
del
mondo
fenomenico.
A
loro
volta
la
natura
di
tali
enti
implica,
oltre
che
l’esistenza
di
un
primum
che
li
ponga
e
pensi,
la
loro
assoluta
unità”.
Partendo
da
tali
verità
Rosmini
sostiene
che
è
merito
della
tradizione
italica
l’aver
scoperto
che
la
conoscenza
è
possibile
solo
grazie
all’esistenza
delle
idee
e
che
queste
sono
immutabili
ed
esistenti
di
per
se,
tutto
ciò
è
dimostrabile
guardando
ai
filosofi
del
passato:
l’unità
pitagorica
o il
monismo
parmenideo
altro
non
erano
che
anticipazione
del
concetto
di
immutabilità
ed
unità
delle
idee.
Altro
merito
italiano
è
quello
di
aver
distinto
tra
scienza
(che
deriva
dalle
idee)
ed
opinione
la
quale,
basandosi
sul
mondo
esterno
e
non
sugli
immutabili,
non
è
verità.
Negli
anni
‘60,
ad
unità
ormai
avvenuta,
gli
intellettuali
possono,
ormai,
guardare
orgogliosi
al
passato
italiano
ed
esaltarne
la
continuità
del
primato
nel
lungo
cammino
che
ha
portato
all’unificazione.
Tra
tutte
le
esaltazioni,
quella
che
si
distingue,
per
originalità
e
per
estensione
argomentativa
è
sicuramente
quella
del
napoletano
Bertrando
Spaventa.
Il
filosofo
hegeliano
napoletano
si
allontana,
durante
gli
anni
‘50,
dalla
filosofia
di
Hegel
per
portare
avanti
un
pensiero
non
ortodosso
che
possiamo
definire
“critico”.
In
particolare
partendo
dalla
volontà
di
riallacciare
la
filosofia
italiana,
che
dal
‘600
non
è
più
al
passo
coi
tempi,
con
la
filosofia
tedesca
di
Hegel
egli
dimostrerà
l’esistenza
di
un
continuum
nella
filosofia
nostrana
che
può
essere
visto
come
premessa
e
parallelo
dello
sviluppo
tedesco.
Spaventa
sostiene
che
la
filosofia
italiana
per
poter
risorgere
ha
bisogno
di
coniugare
il
suo
contenuto
del
‘500
con
la
forma
della
filosofia
germanica
(la
dialettica
hegeliana
e la
fenomenologia)
ma
la
sua
indagine
sfocerà
nell’esaltazione
di
un
percorso
esclusivamente
autoctono
della
speculazione
nostrana.
La
sua
indagine
comincia
dalle
figure
di
Giordano
Bruno
e
Tommaso
Campanella,
il
primo
considerato
il
predecessore
di
Spinoza
mentre
il
secondo
di
Cartesio.
Bruno,
con
la
sua
identità
del
dio
sopra
le
cosa
con
il
dio
dentro
le
cose
(e
quindi
DIO=NATURA)
anticipa
il
Deus
sive
Natura
(dio
ovvero
la
nauta)
di
Spinoza
e
tutti
quei
filosofi
che
considereranno
Dio
come
infinito
reale
e
vivente
nel
mondo,
non
separato
ma
neanche
identico
alla
natura.
Se
l’unità
proposta
da
Bruno
è
quella
tra
Dio
e
Natura,
l’immanenza
per
Campanella
è
radicata
nella
mente
umana
per
cui,
a
differenza
di
quello
che
sosteneva
la
Scolastica,
vi è
unità
tra
PENSIERO-PENSATO.
Da
ciò
deriva
che
il
pensiero
è
principio
di
se
stesso,
autonomo
e
misura
di
ogni
cosa
e,
quindi,
la
ragione
è la
base
della
filosofia.
Tale
concezione,
che
pone
nella
soggettività
(Principio
di
Soggettività)
le
basi
della
conoscenza,
è la
base
e la
premessa
sia
dell’empirismo
sia
del
razionalismo
anche
se
il
limite
di
Campanella
deriva
dalla
sua
convinzione
che
la
vera
sapienza
è
fondata
sui
sensi.
All’io
come
senso
che
pone
la
certezza
nella
forma
dell’intuizione
sensibile
seguirà
l’io
come
pensiero
che
pone
la
certezza
nell’evidenza
intellettuale,
questo
sarà
l’esito
perfezionato
a
cui
giungerà
Cartesio
la
cui
strada,
però,
è
stata
aperta
da
Campanella
vero
fondatore
del
Principio
della
Soggettività
(cioè
dell’autonomia
dello
spirito
a
cui
si
ispireranno
anche
altri
pensatori
come
Francis
Bacon
e
Locke).
Se
in
un
primo
momento
Spaventa
fa
terminare
qui
la
stagione
filosofica
italiana
oscurata,
poi,
dalla
Controriforma,
e
guarderà
al
presente
della
situazione
tedesca
come
ad
una
fonte
a
cui
gli
italiani
dovranno
attingere
per
recuperare
la
dignità
delle
loro
speculazioni,
in
un
secondo
momento
la
cronologia
degli
autori
italiani
si
allarga.
Precursore
della
figura
di
Kant
diverrà
Giambattista
Vico
il
quale
sostituirà
il
Dio
concepito
come
natura
(Bruno)
il
Dio
concepito
come
storia
e
spirito.
Fondatore
della
metafisica
della
mente
egli
anticiperà
anche
Hegel
in
quanto
vede
“l’universale
(il
vero)
svolgersi
nella
storia
(e
non,
cartesianamente,
nel
soggetto)
attraverso
la
concretezza
delle
determinazioni
positive
(il
fatto)”,
per
il
Vico
il
“vero”
è
sempre
“ideale”,
in
questo
modo
comincia
a
intravedere
quell’identificazione
tra
universale
e
particolare
portato
a
compimento
da
Kant
nella
sua
dottrina
della
conoscenza
(secondo
cui
pensare=essere)
e
poi
da
Hegel
nella
sua
fenomenologia.
Secondo
gli
hegeliani
napoletani
la
storia
della
filosofia
italiana
continua
parallelamente
a
quella
tedesca.
In
particolare
se
Kant
aveva
bisogno
dell’io
assoluto
di
Fichte
per
completare
l’unione
tra
idea
e
realtà,
la
figura
italiana
che
compie
tale
passaggio
è
quella
di
Rosmini,
omologo
quindi
dello
stesso
Fichte.
Il
filosofo
italiano,
però,
pone
come
primum
del
pensiero
un
“puro
essere”
astratto
che,
non
essendo
indeterminato
ma
definito
dalla
sua
astrattezza
di
riduce
semplicemente
a
massima
astrazione
della
mente
e
non
a
primo
principio
(Dio).
I
limiti
di
Fichte
sono
i
limiti
di
Rosmini
e
mentre
il
primo
sarà
perfezionato
(completato)
da
Schelling
e
Hegel,
che
introdurranno
il
concetto
di
Spirito,
il
sacerdote
italiano
troverà
il
suo
degno
successore
in
Gioberti,
in
quale
emancipando
il
“puro
essere”
dalla
mente
umana,
lo
solleverà
da
semplice
astrazione
della
mente
e lo
renderà,
come
in
Hegel,
Spirito
(Ente
nella
sua
autonomia).
Muovendo
dalla
volontà
di
riconciliare
la
filosofia
italiana
del
‘500
con
quella
tedesca
dell’800,
Spaventa
si
ridurrà
ad
esaltare
un’autonoma
linea
filosofica
italiana
che,
grazie
alla
sua
autoctona
dignità,
non
ha
bisogno
di
ispirarsi
a
quella
tedesca
anzi
si
presenta
come
precorritrice
di
tutte
le
correnti
straniere.
Tale
trasformazione
della
linea
spaventiana
sebbene
sia
frutto
soprattutto
di
ricerche
e
studi
prettamente
filosofici
si
inserisce
nelle
vicende
storiche
dell’unità
italiana,
unità,
per
l’appunto,
che
ha
bisogno
di
un
forte
nucleo
filosofico-culturale
per
poter
cementare
lo
spirito
nazionale.
Possiamo
concludere
quindi
che
l’invenzione
del
primato
italico
(e
della
filosofia
italiana)
si
inserisce
pienamente
nel
contesto
risorgimentale
soprattutto
all’interno
degli
ambienti
liberal-moderati
e
conservatori.
Tale
creazione
culturale
è
funzionale
alla
difesa
degli
interessi
della
classe
borghese
in
quanto,
permette
di
conciliare
quelle
che
sono
le
aspirazioni
alla
modernità
(unità
statale
e
sviluppo
economico)
con
i
progetti
di
conservatorismo
sociale
che
solo
il
riferimento
alla
tradizione
poteva
assicurare,
senza
il
pericolo
di
alimentare
le
richieste
e le
aspirazioni
delle
nuove
classi
lavoratrici
che
cominciavano,
per
la
prima
volta,
a
reclamare
i
propri
diritti
magari
sostenendo
il
sogno
repubblicano
di
Mazzini.