N. 51 - Marzo 2012
(LXXXII)
il primato italiano nel risorgimento
storia di un'invenzione - parte I
di Roberto Rota & Giovanni Piglialarmi
La “costruzione” degli stati moderni non è il frutto, semplicemente, di vicende politico-diplomatiche che portarono pochi uomini alla conquista del potere e all’organizzazione delle istituzioni, per poter esistere e sopravvivere, uno stato-nazione ha bisogno di una propria identità culturale. Le vicende e le casualità storiche posso portare alla formazione di nuove entità politico statuarie, come nel caso italiano, ma affinché un paese sopravviva nel tempo è necessario che crei una propria identità atta a cementare e giustificare la propria esistenza, in poche parole c’è bisogno di una tradizione che dia valore e legittimità allo stato.
Da
questo
punto
di
vista,
quindi,
sebbene
le
origini
dello
stato
moderno
debbano
primariamente
ricercarsi
nello
sviluppo
economico
e
nella
caduta
dell’ancien
regime,
che
portarono
allo
stravolgimento
degli
antichi
equilibri
di
potere
e
aprirono
la
società
alla
partecipazione
di
nuove
classi
(soprattutto
la
borghesia),
la
preesistenza
di
una
comune
eredità
culturale
resta
un
prerequisito
indispensabile
alla
costruzione
di
un’identità
comune.
Ne
va
da
sé
che
quando
tale
comune
eredità
non
esiste
o
non
è
ben
definita,
può
essere
facilmente
inventata
attraverso
la
trasfigurazione
narrativa
della
memoria
storica
condivisa.
Fu
Michel
de
Certeau,
nell’opera
La
scrittura
della
storia
(1975),
a
sottolineare
il
fatto
che
nell’età
moderna
la
storia,
sostituendosi
alle
antiche
cosmogonie
e
teologie,
si
trasforma
in
mito
ed
esprime
una
particolare
identità
sociale
che
da
senso
e
valore
ad
una
cultura.
Nella
storia,
quindi,
è
possibile
rintracciare
quell’identità
culturale
che
la
realtà
può
facilmente
celare
dietro
le
divisioni
e i
conflitti
politico-territoriali,
tale
storia,
però,
lungi
dall’essere
filologicamente
provata,
si
rifugia
in
età
arcaiche
e
mitiche
per
poter
avvalorare
e
legittimare
popoli
la
cui
unità,
in
verità,
non
è
mai
stata
provata
o,
nei
casi
più
estremi,
non
è
mai
esistita.
Si
tratta
di
un
uso
strumentale
che
si
afferma
nel
‘700
quando,
per
esempio,
lo
scozzese
James
Macpherson
cercò,
con
i
suoi
Canti
di
Ossian
(1760),
di
giustificare
la
discendenza
dai
mitici
Caledoni
delle
popolazioni
scozzesi.
Tra
il
‘700
e
l’800,
quindi,
la
narrazione
storica
diventa
strumento
essenziale
per
la
legittimazione
dei
nuovi
stati
che
si
stanno
creando
in
quanto,
sebbene
frutto
dello
sviluppo
economico
e di
casualità
diplomatiche,
essi
hanno
bisogno
di
una
narrazione
(preferibilmente
mitica
in
quanto
non
confutabile)
che
rafforzi
lo
spirito
nazionale,
soprattutto
a
livello
popolare.
Da
questo
punto
di
vista,
quindi,
risulta
evidente
che
gli
stati
moderni
cercano
di
costruire
il
proprio
passato
e in
questo
fanno
capo,
paradossalmente,
ad
una
storia
recente
(poiché
frutto
di
una
costruzione
moderna
ad
hoc)
e ad
una
pratica
antica
(il
ricorso
al
mito).
Essi
sono
poco
moderni
nelle
pratiche
che
utilizzano,
ma
la
loro
storia
è
frutto
di
speculazioni
recentissime.
La
memoria
storica,
quindi,
inventata
o
meno,
diventa
elemento
essenziale
per
la
costruzione
dello
stato
moderno
ma
essa
si
inserisce
in
un
contesto
identitario
più
vasto,
che
l’antropologo
Carlo
Tullio
Altan
definisce
ethnos
ovvero
come
quel
nucleo
simbolico
che
è
alla
base
di
un’identità,
quell’insieme
di
valori
e
simboli
condivisi
che
caratterizzano
una
data
cultura.
Tale
nucleo,
a
sua
volta,
può
essere
diviso
rispetto
all’ambito
simbolico
a
cui
fa
riferimento,
possiamo
quindi
distinguere:
l’ethos
cioè
quell’insieme
di
norme
e
istituzione
di
un
certo
gruppo
sociale
che
“vengono
trasfigurate
in
valori
e
vengono
assunte
come
qualcosa
che
dà
significato
alla
vita
collettiva,
la
coordina
e dà
il
senso
di
appartenere
a
qualcosa
di
nobile,
a
qualche
cosa
che,
non
solo
è
necessario
per
vivere,
ma
per
vivere
secondo
una
norma
e un
valore
fondante”.
L’epos
cioè
la
trasfigurazione
narrativa
della
memoria
storica
condivisa,
tale
trasfigurazione
ha
il
compito
di
dare
dignità
e
senso
al
proprio
passato,
“l'epos,
diventa
ciò
in
cui
un
popolo
si
riconosce
e in
un
certo
senso
si
nobilita.
Abbiamo
degli
esempi
illustri
di
questo
modo
di
rappresentare
il
passato
come
un
valore.
Tutta
l'epoca
omerica,
l'epopea
omerica,
rientra
in
questa
tematica,
così
come
i
contenuti
stessi
del
testo
biblico,
che
proiettano,
in
una
dimensione
divina
e
trascendente,
la
natura,
la
funzione
e la
storia
del
popolo
d'Israele”.
Abbiamo
poi
il
logos,
cioè
quell’insieme
simbolico
che
rende
possibile
la
comunicazione
sociale
(tra
cui,
ma
non
solo,
la
lingua);
il
genos
cioè
l’insieme
simbolico
dei
rapporti
di
parentela,
delle
discendenze
e
dei
lignaggi
(anche
quello
dinastico
legato
al
potere)
che
da
significato
concreto
e
dignità
al
rapporto
con
le
origini
e
con
i
propri
avi;
il
topos
cioè
la
trasfigurazione
della
propria
terra
in
madre-patria,
bene
a
cui
si è
legati
profondamente
e
per
il
quale
si è
disposti
a
combattere
e
morire
(per
difenderla
e
per
liberarla
dall’occupazione
straniera).
Proprio
questo
patrimonio
simbolico
descritto
da
Carlo
Tullio
Altan
rappresenta
quell’insieme
di
valori
sul
quale
si è
costruito
lo
stato
moderno,
al
di
la,
chiaramente,
delle
vicende
economiche
e
politico
diplomatiche,
e
proprio
da
tali
considerazioni
risulta
che
lo
stato
moderno,
nelle
sue
tecniche
di
formazione,
è
molto
meno
moderno
di
quello
che
può
sembrare.
Da
questo
punto
di
vista
essenziali
sono
state
le
riflessione
di
Eric
Hobsbawm,
in
opere
come
L'invenzione
della
tradizione
(1983)
o
Nazioni
e
nazionalismo
dal
1780.
Programma,
mito,
realtà
(1991).
Secondo
lo
storico
britannico
le
nazioni
nascono
da
precisi
intenti
politico-culturali
portati
avanti
dalle
classi
dominanti,
da
questo
punto
di
vista
la
classe
che
contribuì
maggiormente,
nell’800,
al
nation-building
fu
la
borghesia.
Le
classi
dominanti
non
solo
intenzionalmente
portano
alla
creazione
della
nazione
ma
ne
costituirono
le
premesse
fondandone,
spesso
ex
novo,
le
tradizioni
che
altro
non
sono
che
“pratiche
dotate
di
una
natura
rituale
o
simbolica,
che
si
propongono
di
inculcare
determinati
valori
e
norme
di
comportamento
ripetitive
nelle
quali
automaticamente
implicita
la
continuità
con
il
passato”
(Giulio
Albarani).
Nella
creazione
di
tali
tradizioni
fondative
è
implicito
il
rispecchiamento
della
Weltanschauung
delle
classi
dominanti,
cioè
la
loro
visione
del
mondo,
in
questo
modo
tali
classi
creeranno
esclusivamente
tradizioni
e
narrazioni
che
non
contrastino
ma
che
anzi
favoriscano
i
loro
interessi
(per
esempio
il
mito
del
primato
di
una
classe
di
proprietari
terrieri
che
paternalisticamente
guidino
lo
stato).
Hobsbawm
differenzia,
però,
un
primo
momento
in
cui
affinché
si
creasse
lo
stato
era
necessaria
una
“minima
taglia”
cioè
una
minima
estensione
territoriale
e un
minimo
livello
di
popolazione.
A
questa
prima
fase
si
vennero
a
sostituire,
nella
seconda
parte
del
primo
‘800,
altri
requisiti
come
la
presenza
di
una
storia
comune,
di
una
classe
intellettuale
nazionale
e la
presenza
di
aspirazioni
irredentistiche.
Solo
dopo
gli
anni
’80
divennero
fondamentali
le
narrazioni
legate
alla
lingua
(logos),
all’etnicità
e
alla
trasfigurazione
narrativa
delle
memorie
storiche
condivise
(epos),
che
spesso
sfociarono
nel
razzismo
e
nel
nazionalismo
violento.
Il
discorso
dell’invenzione
della
tradizione
per
la
creazione
dello
stato-nazione
può
essere
applicato,
prevedibilmente,
anche
all’Italia,
anzi
nel
caso
italiano
esso
era
particolarmente
necessario
a
fronte
di
una
divisione
territoriale
e di
un
occupazione
straniera
che
resisteva
dall’invasione
longobarda
del
568
d.C..
La
costruzione
di
un’identità
italiana
era
la
premessa
indispensabile
per
la
creazione
di
qualsiasi
progetto
unitario
(o
anche
federativo),
per
questo
tale
identità
fu
un
prodotto
delle
strategie
borghesi
le
quali,
mettendo
in
comune
modernità
(stato
unitario
o
federazione)
e
tradizione
(riferimento
alla
storia)
riuscivano
ad
inseguire
il
cambiamento
senza
rinunciare
ad
un
assetto
conservatore
inscritto
nella
tradizione,
garanzia
contro
i
pericoli
delle
nuove
classi
proletarie.
Il
riferimento
alla
tradizione,
quindi,
permetteva
di
tutelarsi
contro
i
pericoli
del
socialismo
e
delle
richieste
contadine,
tale
intenzionalità
rispecchiava
l’ideologia
di
quegli
intellettuali
che
si
riunivano
intorno
a
giornali
come
il
“Conciliatore”
e
“Antologia”
(tra
cui
Manzoni,
Balbo,
Capponi
) i
quali
vedevano
la
modernità
non
negli
ideali
di
libertà
e
partecipazione
politica
ma
nel
connubio
tra
sviluppo
economico
e
tradizione
culturale
e
religiosa.
Per
essi
lo
sviluppo
era
possibile
se
non
contrastava
con
la
conservazione
degli
assetti
politico
sociali
consolidati
e
rafforzati
dalla
religione
cattolica
e
dalla
tradizione
liberal-moderata.
In
tale
contesto
di
conservazione
degli
assetti
sociali
consolidati
e di
aspirazioni
economico-unitarie
che
si
vengono
a
realizzare
narrazioni
storiche
che
cercano
di
dare
dignità
e
continuità
alla
tradizione
italiana.
Preziosa
testimonianza
di
tali
costruzioni
culturali
è
l’opera
di
Giuliano
Albarani
Il
mito
del
primato
italiano
nella
storiografia
del
Risorgimento
(Unicopli,
Milano
2008).
Prendendo
le
mosse
dalla
considerazione
che
lo
stato
moderno
è,
come
abbiamo
visto,
anche
e
soprattutto
costruzione
culturale
Albarani
ripercorre
il
pensiero
di
tutta
una
serie
di
autori
i
quali
cercando
di
dimostrare
il
“primato”
filosofico
e
culturale
italiano
erano
intenzionati
a
ricreare
quella
dignità
e
quella
tradizione
dello
spirito
italico,
premessa
per
qualsiasi
progetto
di
riscatto
nazionale
(sia
a
livello
unitario
sia
a
livello
dei
singoli
stati
peninsulari).
Alcuni
autori
faranno
riferimento
ad
un
primato
cronologico
della
mitica
stirpe
italica,
precorritrice
di
tutte
le
altre
popolazioni,
altri,
in
maniera
non
meno
“modesta”,
si
concentreranno
sul
primato
qualitativo
della
cultura
e
della
filosofia
italiana
rispetto
alla
quale
le
altre
tradizioni
europee
sono
semplici
imitazioni.
Sia
i
primi
che
i
secondi,
muovendo
da
semplici
considerazioni
storico-erudite,
sfoceranno
in
veri
e
propri
progetti
di
riscatto
nazionale
ponendo
la
rifondazione
e la
riscoperta
della
supremazia
della
cultura
italica
come
premessa
di
qualsiasi
progetto
politico.
È
bene,
però
distinguere
due
diverse
narrazioni
del
passato,
una
che
fa
riferimento
ad
un
pubblico
“popolare”
e
un’altra
che
si
riferisce
direttamente
alla
comunità
intellettuale
e
che
quindi
deve
ostentare
una
qual
certa
scientificità.
Nel
primo
caso
la
narrazione
storica
deve
far
riferimento
ad
una
serie
di
valori
comunemente
sentiti
come
quelli
legati
alla
religione,
all’onore,
alla
propria
terra,
è
questo
il
caso
dei
romanzi,
della
pittura
e
delle
rappresentazioni
teatrali.
In
questo
caso
tali
narrazioni
avranno
successo
se
non
introdurranno
innovazioni
a
schemi
consolidati,
si
basti
pensare
a
tutte
quelle
opere
che
fanno
riferimento
all’invasione
straniera,
alla
corruzione
dei
costumi
e
alla
reazione
popolare
che
nasce
solo
quando
vengono
insidiati
tutta
una
serie
di
valori
legati
alla
religione
o
all’onore
(cioè
quando
vengono
importunate
le
donne,
simbolo
della
madre-patria).
Si
tratta
di
simboli
identitari
che
fanno
riferimento
a
tutta
una
serie
di
valori
innestati
in
antiche
tradizioni
difficilmente
dimostrabili
e
che
si
perdono
nel
mito,
tale
narrazione
sicuramente
funzionale
per
il
pubblico
poco
acculturato
non
potrebbe
avere
la
stessa
influenza
tra
gli
intellettuali,
per
questi
il
riferimento
al
passato
non
deve
essere
semplice
rappresentazione
ma
studio
etnico-scientifico,
ricerca
antiquaria
che
possa
avvalorare
l’ipotesi
dell’esistenza
di
uno
spirito
italiano
superiore
ed
antecedente
a
tutti
gli
altri.
Da
qui
prendono
le
mosse
gli
studi
sull’antica
“stirpe
italica”.
Il
riferimento
alla
mitica
stirpe
italica,
spesso
identificata
in
quella
etrusca,
trova
un
autorevole
sostenitore
in
Gianbattista
Vico
il
quale,
nella
sua
opera
De
antiquissima
Italorum
sapientia
(1710)
sostiene
che
la
civiltà
sia
nata
in
Egitto
e da
qui
sarebbe
trasmigrata
in
Italia
(i
mitici
italici,
probabilmente
gli
etruschi),
poi
in
Grecia
e,
infine,
sarebbe
ritornata
a
Roma
la
quale
non
avrebbe
riconosciuto
la
primogenitura
della
tradizione
italica
su
quella
greca.
Elemento
centrale
in
tutte
le
ricostruzioni
è la
figura
di
Pitagora,
vero
padre
della
filosofia
occidentale,
il
quale,
invece
di
essere
uno
dei
maggiori
rappresentanti
della
filosofia
ellenica,
sarebbe
giunto
in
Italia
per
apprendere
l’antica
filosofia
italica.
Secondo
altri
autori
(tra
cui
Mario
Guarnacci)
Pitagora
sarebbe
stato
addirittura
appartenente
alle
popolazioni
tirreniche
e
quindi
un
etrusco
e
ciò
sarebbe
avvalorato
dalla
narrazione
di
Plutarco
il
quale
sosteneva
che
il
filosofo
di
Samo
fosse
stato
il
maestro
di
Numa
Pompilio.
Il
primato
della
filosofia
italiana
risiederebbe
proprio
nella
primogenitura
della
stirpe
italica
e
nella
figura
di
Pitagora,
superiore
e
ispiratore
per
gli
altri
filosofi
dell’antichità.
Uno
dei
maggiori
studiosi
che
fece
proprie
queste
considerazioni
fu
Vincenzo
Cuoco
il
quale,
nell’opera
Platone
in
Italia,
romanzo
storico
che,
attraverso
la
finzione
letteraria,
ripercorre
il
viaggio
di
Platone
e
del
suo
discepolo
Cleobolo
nell’Italia
della
Magna
Grecia,
dove
apprenderanno
la
filosofia
di
Pitagora
e
conosceranno
l’antichità
e la
nobiltà
della
stirpe
italica.
I
protagonisti
del
romanzo,
verranno
così
a
scoprire
che
gli
scritti
omerici
sono
italici,
che
la
penisola
è
geologicamente
più
antica
rispetto
alla
Grecia
e fu
abitata
ben
prima,
che
l’impero
etrusco
un
tempo
dominava
i
mari
e la
sua
gloria
è
rimasta
insuperata.
Lo
stesso
Cleobolo
verrà
iniziato,
nella
città
di
Taranto,
alla
filosofia
di
Pitagora
la
cui
originalità
risiede
nel
fatto
che
essa
è
aperta
alle
donne
e
che
tratta
di
tutti
gli
aspetti
che
servono
alla
vita,
non
si
sofferma
sulle
speculazioni
ma
si
interessa
di
istruzione,
di
agricoltura,
di
politica
e
dell’organizzazione
delle
città.
Il
primato
filosofico
italico
risiede
anche
nel
fatto
che
tale
filosofia
è
popolare,
non
libresca,
intrinseca
nel
linguaggio
delle
popolazioni.
Oltre
a
Pitagora
viene
esaltata
la
figura
di
Parmenide
(e
della
scuola
di
Elea)
quale
fondatore
della
logica
e
della
dialettica
che,
infondendo
nell’uomo
uno
scetticismo
moderato
ed
abituandolo
alla
disputa,
apriranno
la
strada
alla
maieutica
di
Socrate.
Ultimo
aspetto
della
supremazia
filosofica
italica
è la
sua
attitudine
anti-speculativa,
empirista
e
analitica
che
trova
in
Pitagora
e
nella
sua
applicazione
della
matematica
all’indagine
filosofica
e
sperimentale
il
maggior
esponente.
La
visione
del
Cuoco
si
riallaccia
strettamente
con
la
sua
riflessione
sulla
rivoluzione
francese
e
quella
napoletana
(Saggio
storico
sulla
rivoluzione
napoletana
del
1799),
in
particolare,
conscio
dell’inapplicabilità
dei
modelli
stranieri
al
caso
italiano,
cerca
di
dare
dignità
alle
antiche
popolazioni
della
penisola
affinché
il
cambiamento
politico,
portato
da
Napoleone,
possa
crescere
secondo
modelli
e
precedenti
autoctoni
e
non
come
semplice
imitazione
che
mal
si
adatterebbe
al
nostro
paese
e al
nostro
genio.