[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

181 / GENNAIO 2023 (CCXII)


contemporanea

sulla Prima Guerra Cecena
Le origini sovietiche del conflitto

di Riccardo De Cristofano

 

La prima guerra di Cecenia, scoppiata nel dicembre del 1994 e durata due anni, ha rappresentato l’acme delle tensioni derivanti dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, ed è stata minima espressione del potenziale distruttivo che questo processo avrebbe potuto esprimere. Mentre per i ceceni consistette in un ulteriore passo, nelle loro speranze quello definitivo, nella lotta secolare per l’indipendenza dal controllo russo, prima imperiale e poi sovietico, per Mosca questa offriva l’opportunità di riaffermare la propria primazia su tutte le propaggini territoriali che serbavano in esse tendenze alla secessione e riaffermare e rinsaldare il proprio status di grande potenza, tanto agli occhi di una cittadinanza che viveva un degrado socioeconomico senza precedenti, quanto dinanzi a quelli che considerava i propri pari nel contesto delle relazioni internazionali, su tutti gli Stati Uniti i quali vivevano in quegli anni un momento di totale predominio e unipolarita come ultima superpotenza su scala mondiale.

Mentre gli Stati Uniti, alla vigilia del collasso dell’Unione Sovietica, facevano mostra con le operazioni Desert Storm e Desert Sabre non solo della superiorità dei propri armamenti convenzionali sbaragliando gli iracheni con i loro equipaggiamenti e mezzi di fabbricazione sovietica, ma anche di realizzare difficili combined arms operations, la Russia di El’cin si apprestava a scatenare un fuoco d’artiglieria sconsiderato, radendo al suolo la capitale cecena di Grozny, con decine di migliaia di vittime civili – per lo più di etnia russa – e mandando nel tritacarne, con divise, armi e vetture vecchi di decenni e un supporto inadeguato da parte dell’aviazione, giovani coscritti impreparati ai massacri che li attendevano.

 

I popoli del Caucaso hanno sviluppato nel corso dei secoli una tradizione guerriera fortemente radicata nella loro cultura, indocile rispetto all’imposizione di un’autorità esterna, e a ciò molto ha contribuito la natura impervia e montuosa del Caucaso. I Ceceni divennero sinonimo, nel corso della storia, di guerrieri indomiti, valorosi e spietati. Ma non è necessario andare così indietro nel tempo per trovare eventi e processi sufficienti a spiegare lo scoppio di una guerra interna tanto violenta. Basta tornare alla nascita dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche e alla politica di repressione e deportazione che questa attuò nella Ciscaucasia, già negli anni ’20 ma soprattutto sul finire del secondo conflitto mondiale.

 

La Rivoluzione, la Guerra Civile e la lotta per l’indipendenza

 

Con la Prima Guerra Mondiale e soprattutto con la Rivoluzione Bolscevica del 1917, nel Caucaso settentrionale si riaccese la fiamma della nazionalità, che si concretizzò nella proclamazione dell’indipendenza e la creazione di un governo dotato di proprie istituzioni parlamentari, grazie alla guida dell’«Unione del Montanari», e la ricerca di riconoscimento e protezione di potenze straniere quali la Turchia e la Germania, elemento che risulterà determinante 20 anni dopo. Ma la realtà della guerra civile, e le incursioni delle armate Bianca e Rossa, delle quali i rispettivi schieramenti non potevano accettare l’indipendenza di questa regione di confine, portarono alla distruzione di questo esperimento ed infine alla nascita della «Repubblica Sovietica del Terek» all’interno della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa. Il controllo bolscevico sulla Repubblica autonoma del Terek si stabilizzò definitivamente solo con la sconfitta dei Bianchi e della resistenza locale, e con la conclusione di quel processo progressivo di riorganizzazione di questa unità amministrativa e territoriale in due regioni autonome, la Cecenia e l’Ingušezia.

Per la pacificazione del Caucaso settentrionale si dovette quindi attendere fino al ’25, con la liquidazione della ribellione, dai tipici tratti del gazavat musulmano, lanciata contro l’imposizione del “comunismo di guerra” da parte delle forze Rosse, e per di più etnicamente russe, che si comportarono del tutto come forze di occupazione straniere: “Patriarchal traditions were attacked, as was the Islamic religion, and repeated indignities were visited upon the natives, such as punitive raids, police denunciations, and blackmail”. La campagna di pacificazione forzata mise uno sparuto gruppo di guerrieri di montagna contro un’intera armata più pesantemente equipaggiata, che naturalmente riuscì ad uscire vittoriosa dallo scontro, ma non senza subire alcune cocenti sconfitte.

 

Ma fu a questo punto, dall’estate del ’25, che iniziò una vera e propria operazione di rappresaglia diretta contro la popolazione cecena, della cui necessità, risulta dal racconto di Anastas Mikoyan, fosse convinto anche Stalin. Essa venne messa in atto spietatamente dal distaccamento locale dell’esercito sovietico e da milizie dell’OGPU, allo scopo di catturare ed eliminare i leader della resistenza del ’20-21, requisire quante più armi possibile, dividere in fazioni i musulmani locali e aprire alla russificazione della regione: il primo capitolo di quel fenomeno che contribuirà ad esacerbare le tensioni fino al conflitto negli anni ’90. A questi elementi va aggiunto il fatto che le popolazioni del Caucaso del Nord soffrirono particolarmente il processo di collettivizzazione forzata iniziato alla fine degli ’20, essendo l’economia rurale basata su una pastorizia semi nomade difficilmente armonizzabile nell’assetto delle fattorie collettive.

 

La Seconda Guerra Mondiale e le deportazioni di massa

 

Il più grande trauma per la popolazione cecena arrivò con la Seconda Guerra Mondiale. Mentre le armate hitleriane, soprattutto nella prima fase del conflitto, puntavano verso i campi petroliferi del Caucaso, nelle retrovie sovietiche vennero messe in atto delle azioni di sabotaggio e sovversione da parte di alcuni gruppi ceceni, che ancora una volta vedevano nella Germania una scappatoia dal giogo del regime sovietico: non solo, i casi di volontari musulmani arruolatisi nelle forze naziste non erano infrequenti. La rappresaglia del regime fu massiccia e quasi immediata, tanto a livello propagandistico, tanto nella messa in atto di misure repressive e addirittura genocide nei confronti dei ceceno-ingusci. Come avvenuto precedentemente per altre etnie considerate pericolose e agenti di interessi stranieri, nel febbraio 1944 iniziò il rastrellamento e la deportazione della popolazione musulmana della regione verso l’Asia Centrale, mentre monumenti, abitazioni e simboli di varia natura venivano distrutti. Pochi deportati arrivarono a destinazione, poiché molti furono coloro i quali perirono per le condizioni disumane della traversata, e molti altri morirono per le privazioni estreme che dovettero subire una volta arrivati: non solo essi erano totalmente privi di risorse, ma il regime ostacolò la loro integrazione nelle regioni di deportazione. Ma i ceceni riuscirono a mantenersi coesi, e a tenere vivace la fiamma della loro coscienza culturale.

Il trauma si completò quando i ceceni poterono ritornare - almeno legalmente visto che alcune migliaia di loro avevano già iniziato a farlo illegalmente due anni prima - nella loro dimora ancestrale a partire dal ’56, anno del XX Congresso del PCUS e della Destalinizzazione: ciò che trovarono non fu solo la distruzione della loro eredità culturale, ma anche l’occupazione del vuoto che avevano forzatamente lasciato da parte di russi e ucraini ricollocati dal regime. La situazione era una bomba ad orologeria destinata ad esplodere con grande intensità, e infatti non mancarono momenti di altissima tensione che degenerarono in gravissime forme di violenza: “Ci furono gravi scontri soprattutto a Groznyj, dove, nell’agosto de 1958, si scatenò una vera e propria caccia al ceceno a seguito di un episodio di cronaca, una rissa, nella quale un militare russo rimase ucciso”. Il processo di reinsediamento si concluse agli inizi degli anni ’60, quando si raggiunse una relativa tranquillità, con una quasi totale russificazione della capitale e delle principali città, mentre le campagne e le zone montuose restarono abitate prevalentemente dai Ceceni.

 

Guerra

 

Questi avvenimenti chiave, avvenuti ad una distanza di pochi decenni dallo scoppio della Prima Guerra Cecena, forniscono elementi considerevoli per comprendere la velocità e la gravità con cui gli eventi subirono una tale escalation: d’altronde, vi erano ceceni che ricordavano ancora le deportazioni degli anni ’40 ed il ritorno a casa del decennio successivo – se non addirittura anziani che avevano vissuto le lotte per l’indipendenza degli anni ’20 – e costoro erano spesso delle figure di riferimento nella società cecena dalla struttura ancora prevalentemente tribale. Quando le autorità russe si rifiutarono di riconoscere l’indipendenza della Cecenia-Inguscezia, lo scontro, nato con una matrice prevalentemente politica e addirittura liberale, degenerò velocemente verso una guerra all’ultimo combattente e verso l’estremismo islamico, ed il guerrigliero ceceno divenne sinonimo non di un freedom fighter, ma di un violento e spietato terrorista, riapparendo nei teatri più caldi come Bosnia, Afghanistan e Palestina solo per citarne alcuni.

Ma la violenza terroristica venne commessa da entrambi gli schieramenti, con le forze russe che attuarono massicci e imprecisi bombardamenti sulle città, in particolare Groznyj, che venne letteralmente rasa al suolo, e che misero in scena stupri di massa proprio su quella popolazione etnicamente russa già falcidiata a migliaia dall’artiglieria e dall’aviazione e che pretendevano di voler difendere. Ragazzini russi ancora imberbi si ritrovarono a combattere, sotto un comando incapace, veterani del vecchio esercito sovietico e della guerra in Afghanistan, che conoscevano perfettamente il territorio montuoso del Caucaso settentrionale, e che erano disposti a tutto pur di difendere la propria causa. La vetusta struttura di comando del letteralmente arrugginito esercito russo, che si reggeva sui residuati dell’URSS, si ritrovò incapace, soprattutto nelle primissime fasi del conflitto, a liquidare la guerriglia cecena, flessibile ed intelligente nel decidere i propri terreni di scontro e i momenti più opportuni al combattimento o al ripiegamento.

 

Questo era però un conflitto in cui Davide difficilmente sarebbe potuto uscire vivo dal suo scontro con Golia: il 31 agosto 1996 il generale russo Lebed, che era stato sempre molto critico su questo impegno bellico, ed il leader ceceno Maskhadov firmarono a Khasavyurt un accordo intitolato “Relazioni reciproche tra la Federazione Russa e la Repubblica Cecena” che rimandava di cinque anni la definizione dello status della Cecenia, congelando in una stasi le belligeranze. La Prima Guerra Cecena si concludeva lasciando irrisolte questioni esplosive e con decine di migliaia di vittime civili, oltre le migliaia di combattenti morti in entrambi gli schieramenti. L’immagine della “liberale” Russia di El’cin venne fortemente intaccata, ed il Presidente entrò irreversibilmente nella sua parabola discendente, avendo sostenuto pienamente il conflitto da cui si distaccava adesso tanto veementemente.

 

Volendo operare per associazione logica, sarebbe molto facile mettere a paragone l’esperienza cecena con gli avvenimenti ucraini, dalla Rivoluzione di Euromaidan ad oggi, come due popoli che hanno tentato nella loro storia di liberarsi più volte dal gioco del controllo russo-sovietico, ma che subiscono, o hanno subito, la violenta rappresaglia della Russia, la quale da fondo alle sue eredità sovietiche – migliaia di mezzi corazzati, milioni di bombe e pezzi di artiglieria – per garantire l’esistenza di un presunto “Mondo Russo”. Ma nella realtà, ogni caso storico è unico nella sua essenza fondamentale, ma può essere fatto rientrare in contesti più ampi, come processi decennali, o addirittura secolari, di riassestamento degli equilibri politici, strategici e nazionali.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]