sulla Prima Guerra Cecena
Le origini sovietiche del conflitto
di Riccardo De Cristofano
La prima guerra di Cecenia,
scoppiata nel dicembre del 1994 e
durata due anni, ha rappresentato
l’acme delle tensioni derivanti
dalla dissoluzione dell’Unione
Sovietica, ed è stata minima
espressione del potenziale
distruttivo che questo processo
avrebbe potuto esprimere. Mentre per
i ceceni consistette in un ulteriore
passo, nelle loro speranze quello
definitivo, nella lotta secolare per
l’indipendenza dal controllo russo,
prima imperiale e poi sovietico, per
Mosca questa offriva l’opportunità
di riaffermare la propria primazia
su tutte le propaggini territoriali
che serbavano in esse tendenze alla
secessione e riaffermare e
rinsaldare il proprio status di
grande potenza, tanto agli occhi di
una cittadinanza che viveva un
degrado socioeconomico senza
precedenti, quanto dinanzi a quelli
che considerava i propri pari nel
contesto delle relazioni
internazionali, su tutti gli Stati
Uniti i quali vivevano in quegli
anni un momento di totale predominio
e unipolarita come ultima
superpotenza su scala mondiale.
Mentre gli Stati Uniti, alla vigilia
del collasso dell’Unione Sovietica,
facevano mostra con le operazioni
Desert Storm e Desert Sabre
non solo della superiorità dei
propri armamenti convenzionali
sbaragliando gli iracheni con i loro
equipaggiamenti e mezzi di
fabbricazione sovietica, ma anche di
realizzare difficili combined
arms operations, la Russia di El’cin
si apprestava a scatenare un fuoco
d’artiglieria sconsiderato, radendo
al suolo la capitale cecena di
Grozny, con decine di migliaia di
vittime civili – per lo più di etnia
russa – e mandando nel tritacarne,
con divise, armi e vetture vecchi di
decenni e un supporto inadeguato da
parte dell’aviazione, giovani
coscritti impreparati ai massacri
che li attendevano.
I popoli del Caucaso hanno
sviluppato nel corso dei secoli una
tradizione guerriera fortemente
radicata nella loro cultura,
indocile rispetto all’imposizione di
un’autorità esterna, e a ciò molto
ha contribuito la natura impervia e
montuosa del Caucaso. I Ceceni
divennero sinonimo, nel corso della
storia, di guerrieri indomiti,
valorosi e spietati. Ma non è
necessario andare così indietro nel
tempo per trovare eventi e processi
sufficienti a spiegare lo scoppio di
una guerra interna tanto violenta.
Basta tornare alla nascita
dell’Unione delle Repubbliche
Socialiste Sovietiche e alla
politica di repressione e
deportazione che questa attuò nella
Ciscaucasia, già negli anni ’20 ma
soprattutto sul finire del secondo
conflitto mondiale.
La Rivoluzione, la Guerra Civile e
la lotta per l’indipendenza
Con la Prima Guerra Mondiale e
soprattutto con la Rivoluzione
Bolscevica del 1917, nel Caucaso
settentrionale si riaccese la fiamma
della nazionalità, che si
concretizzò nella proclamazione
dell’indipendenza e la creazione di
un governo dotato di proprie
istituzioni parlamentari, grazie
alla guida dell’«Unione del
Montanari», e la ricerca di
riconoscimento e protezione di
potenze straniere quali la Turchia e
la Germania, elemento che risulterà
determinante 20 anni dopo. Ma la
realtà della guerra civile, e le
incursioni delle armate Bianca e
Rossa, delle quali i rispettivi
schieramenti non potevano accettare
l’indipendenza di questa regione di
confine, portarono alla distruzione
di questo esperimento ed infine alla
nascita della «Repubblica Sovietica
del Terek» all’interno della
Repubblica Socialista Federativa
Sovietica Russa. Il controllo
bolscevico sulla Repubblica autonoma
del Terek si stabilizzò
definitivamente solo con la
sconfitta dei Bianchi e della
resistenza locale, e con la
conclusione di quel processo
progressivo di riorganizzazione di
questa unità amministrativa e
territoriale in due regioni
autonome, la Cecenia e l’Ingušezia.
Per la pacificazione del Caucaso
settentrionale si dovette quindi
attendere fino al ’25, con la
liquidazione della ribellione, dai
tipici tratti del gazavat
musulmano, lanciata contro
l’imposizione del “comunismo di
guerra” da parte delle forze Rosse,
e per di più etnicamente russe, che
si comportarono del tutto come forze
di occupazione straniere:
“Patriarchal traditions were
attacked, as was the Islamic
religion, and repeated indignities
were visited upon the natives, such
as punitive raids, police
denunciations, and blackmail”. La
campagna di pacificazione forzata
mise uno sparuto gruppo di guerrieri
di montagna contro un’intera armata
più pesantemente equipaggiata, che
naturalmente riuscì ad uscire
vittoriosa dallo scontro, ma non
senza subire alcune cocenti
sconfitte.
Ma fu a questo punto, dall’estate
del ’25, che iniziò una vera e
propria operazione di rappresaglia
diretta contro la popolazione
cecena, della cui necessità, risulta
dal racconto di Anastas Mikoyan,
fosse convinto anche Stalin. Essa
venne messa in atto spietatamente
dal distaccamento locale
dell’esercito sovietico e da milizie
dell’OGPU, allo scopo di catturare
ed eliminare i leader della
resistenza del ’20-21, requisire
quante più armi possibile, dividere
in fazioni i musulmani locali e
aprire alla russificazione della
regione: il primo capitolo di quel
fenomeno che contribuirà ad
esacerbare le tensioni fino al
conflitto negli anni ’90. A questi
elementi va aggiunto il fatto che le
popolazioni del Caucaso del Nord
soffrirono particolarmente il
processo di collettivizzazione
forzata iniziato alla fine degli
’20, essendo l’economia rurale
basata su una pastorizia semi nomade
difficilmente armonizzabile
nell’assetto delle fattorie
collettive.
La Seconda Guerra Mondiale e le
deportazioni di massa
Il più grande trauma per la
popolazione cecena arrivò con la
Seconda Guerra Mondiale. Mentre le
armate hitleriane, soprattutto nella
prima fase del conflitto, puntavano
verso i campi petroliferi del
Caucaso, nelle retrovie sovietiche
vennero messe in atto delle azioni
di sabotaggio e sovversione da parte
di alcuni gruppi ceceni, che ancora
una volta vedevano nella Germania
una scappatoia dal giogo del regime
sovietico: non solo, i casi di
volontari musulmani arruolatisi
nelle forze naziste non erano
infrequenti. La rappresaglia del
regime fu massiccia e quasi
immediata, tanto a livello
propagandistico, tanto nella messa
in atto di misure repressive e
addirittura genocide nei confronti
dei ceceno-ingusci. Come avvenuto
precedentemente per altre etnie
considerate pericolose e agenti di
interessi stranieri, nel febbraio
1944 iniziò il rastrellamento e la
deportazione della popolazione
musulmana della regione verso l’Asia
Centrale, mentre monumenti,
abitazioni e simboli di varia natura
venivano distrutti. Pochi deportati
arrivarono a destinazione, poiché
molti furono coloro i quali perirono
per le condizioni disumane della
traversata, e molti altri morirono
per le privazioni estreme che
dovettero subire una volta arrivati:
non solo essi erano totalmente privi
di risorse, ma il regime ostacolò la
loro integrazione nelle regioni di
deportazione. Ma i ceceni riuscirono
a mantenersi coesi, e a tenere
vivace la fiamma della loro
coscienza culturale.
Il trauma si completò quando i
ceceni poterono ritornare - almeno
legalmente visto che alcune migliaia
di loro avevano già iniziato a farlo
illegalmente due anni prima - nella
loro dimora ancestrale a partire dal
’56, anno del XX Congresso del PCUS
e della Destalinizzazione: ciò che
trovarono non fu solo la distruzione
della loro eredità culturale, ma
anche l’occupazione del vuoto che
avevano forzatamente lasciato da
parte di russi e ucraini ricollocati
dal regime. La situazione era una
bomba ad orologeria destinata ad
esplodere con grande intensità, e
infatti non mancarono momenti di
altissima tensione che degenerarono
in gravissime forme di violenza: “Ci
furono gravi scontri soprattutto a
Groznyj, dove, nell’agosto de 1958,
si scatenò una vera e propria caccia
al ceceno a seguito di un episodio
di cronaca, una rissa, nella quale
un militare russo rimase ucciso”. Il
processo di reinsediamento si
concluse agli inizi degli anni ’60,
quando si raggiunse una relativa
tranquillità, con una quasi totale
russificazione della capitale e
delle principali città, mentre le
campagne e le zone montuose
restarono abitate prevalentemente
dai Ceceni.
Guerra
Questi avvenimenti chiave, avvenuti
ad una distanza di pochi decenni
dallo scoppio della Prima Guerra
Cecena, forniscono elementi
considerevoli per comprendere la
velocità e la gravità con cui gli
eventi subirono una tale escalation:
d’altronde, vi erano ceceni che
ricordavano ancora le deportazioni
degli anni ’40 ed il ritorno a casa
del decennio successivo – se non
addirittura anziani che avevano
vissuto le lotte per l’indipendenza
degli anni ’20 – e costoro erano
spesso delle figure di riferimento
nella società cecena dalla struttura
ancora prevalentemente tribale.
Quando le autorità russe si
rifiutarono di riconoscere
l’indipendenza della
Cecenia-Inguscezia, lo scontro, nato
con una matrice prevalentemente
politica e addirittura liberale,
degenerò velocemente verso una
guerra all’ultimo combattente e
verso l’estremismo islamico, ed il
guerrigliero ceceno divenne sinonimo
non di un freedom fighter, ma
di un violento e spietato
terrorista, riapparendo nei teatri
più caldi come Bosnia, Afghanistan e
Palestina solo per citarne alcuni.
Ma la violenza terroristica venne
commessa da entrambi gli
schieramenti, con le forze russe che
attuarono massicci e imprecisi
bombardamenti sulle città, in
particolare Groznyj, che venne
letteralmente rasa al suolo, e che
misero in scena stupri di massa
proprio su quella popolazione
etnicamente russa già falcidiata a
migliaia dall’artiglieria e
dall’aviazione e che pretendevano di
voler difendere. Ragazzini russi
ancora imberbi si ritrovarono a
combattere, sotto un comando
incapace, veterani del vecchio
esercito sovietico e della guerra in
Afghanistan, che conoscevano
perfettamente il territorio montuoso
del Caucaso settentrionale, e che
erano disposti a tutto pur di
difendere la propria causa. La
vetusta struttura di comando del
letteralmente arrugginito esercito
russo, che si reggeva sui residuati
dell’URSS, si ritrovò incapace,
soprattutto nelle primissime fasi
del conflitto, a liquidare la
guerriglia cecena, flessibile ed
intelligente nel decidere i propri
terreni di scontro e i momenti più
opportuni al combattimento o al
ripiegamento.
Questo era però un conflitto in cui
Davide difficilmente sarebbe potuto
uscire vivo dal suo scontro con
Golia: il 31 agosto 1996 il generale
russo Lebed, che era stato sempre
molto critico su questo impegno
bellico, ed il leader ceceno
Maskhadov firmarono a Khasavyurt un
accordo intitolato “Relazioni
reciproche tra la Federazione Russa
e la Repubblica Cecena” che
rimandava di cinque anni la
definizione dello status della
Cecenia, congelando in una stasi le
belligeranze. La Prima Guerra Cecena
si concludeva lasciando irrisolte
questioni esplosive e con decine di
migliaia di vittime civili, oltre le
migliaia di combattenti morti in
entrambi gli schieramenti.
L’immagine della “liberale” Russia
di El’cin venne fortemente
intaccata, ed il Presidente entrò
irreversibilmente nella sua parabola
discendente, avendo sostenuto
pienamente il conflitto da cui si
distaccava adesso tanto
veementemente.
Volendo operare per associazione
logica, sarebbe molto facile mettere
a paragone l’esperienza cecena con
gli avvenimenti ucraini, dalla
Rivoluzione di Euromaidan ad
oggi, come due popoli che hanno
tentato nella loro storia di
liberarsi più volte dal gioco del
controllo russo-sovietico, ma che
subiscono, o hanno subito, la
violenta rappresaglia della Russia,
la quale da fondo alle sue eredità
sovietiche – migliaia di mezzi
corazzati, milioni di bombe e pezzi
di artiglieria – per garantire
l’esistenza di un presunto “Mondo
Russo”. Ma nella realtà, ogni caso
storico è unico nella sua essenza
fondamentale, ma può essere fatto
rientrare in contesti più ampi, come
processi decennali, o addirittura
secolari, di riassestamento degli
equilibri politici, strategici e
nazionali.
Riferimenti bibliografici:
DAVID SATTER, The Less You Know,
the Better You Sleep: Russia’s Road
to Terror and Dictatorship under
Yeltsin and Putin, Yale
University Press, 2016, New Haven,
pp. 41-76.
HAL BRANDS, Making the Unipolar
Moment: U.S. Foreign Policy and the
Rise of the Post-Cold War Order,
Cornell University Press, Ithaca,
2016, pp. 276-335.
JOHN ANDREAS OLSEN, Strategic Air
Power in Desert Storm, Taylor &
Francis Group, New York, 2003.
KENNETH J. CAMPBELL, Once Burned,
Twice Cautious: Explaining the
Weinberger-Powell Doctrine, in
“Armed Forces & Society”, vol. 24,
no. 3, Sage Publications Inc., 1998,
pp. 357-374.
OLGA OLIKER, Russia’s Chechen
Wars 1994 – 2000: Lessons from Urban
Combat, The RAND Corporation,
Santa Monica, 2001, pp. 22-28.
PAUL BUSHKOVITCH, Breve Storia
della Russia: Dalle Origini a Putin,
Einaudi, Torino, 2016, p. 197.
GIOVANNI BENSI, La Cecenia e la
polveriera del Caucaso: Popoli,
lingue, culture, religioni, guerre e
petrolio fra il Mar Nero e il Mar
Caspio, Nicolodi Editore,
Rovereto (TN), 2005, pp. 99-100.
JOHN B. DUNLOP, Russia confronts
Chechnya: Roots of a Separatist
Conflict, Cambridge University
Press, 1998, pp. 40-41.
ALDO CASTELLANI, Storia della
Cecenia: Memoria, tradizioni e
cultura di un popolo del Caucaso,
Rubbettino Editore, Soveria
Mannelli, 2008, pp. 97-104.