[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

163 / LUGLIO 2021 (CXCIV)


attualità

SULL’AUMENTO DEI PREZZI DELLE MATERIE PRIME
COVID ED ECONOMIA MONDIALE
di Gian Marco Boellisi

 

Tra tutti gli effetti collaterali che la pandemia globale di Covid-19 sta portando quotidianamente di fronte ai nostri occhi, il più inaspettato ma allo stesso tempo potenzialmente più problematico è stato l’aumento vertiginoso dei prezzi di tutte le materie prime a livello globale. Infatti spesso ci dimentichiamo che la nostra società si fonda su una rete fittissima di traffici di merci e beni di consumo primari, senza i quali non potrebbe esistere il mondo moderno. Un aumento tra tutti in particolare sta mettendo a rischio seriamente la cosiddetta ripresa post-Covid, ovvero l’incremento dei prezzi dell’acciaio. Considerato sin dalla seconda Rivoluzione Industriale l’indice con cui si riconosce un paese tecnologicamente avanzato, il rialzo dell’acciaio sta mettendo in seria difficoltà tutti quei settori produttivi che dipendono da questo metallo e che in teoria dovrebbero costituire il traino della ripresa economica a valle della pandemia. È quindi interessante analizzare le origini di questo improvviso aumento dei prezzi e cercare di comprendere quali conseguenze potrà portare sul mercato globale di domani.

 

Partiamo dalle origini. All’indomani di quell’ormai lontano marzo 2020 in cui il mondo si rese conto di trovarsi in una nuova pandemia globale si ebbe un crollo generale dei prezzi di svariati beni di consumo, tra cui anche l’insospettabile petrolio greggio (di famosa memoria il giorno in cui il Brent raggiunse cifre negative). Tuttavia, nell’arco di alcune settimane, le varie commodities riuscirono a ritornare verso un trend ascendente costante, il quale non si sarebbe più fermato e che ancora oggi è in atto. La grande sorpresa tuttavia si scoprì essere l’accaio, il quale non solo recuperò tutto il valore perso negli anni a seguito delle varie delocalizzazioni di produzione, ma addirittura diventò una delle risorse più costose sul pianeta, registrando nel 2021 secondo Fortune un aumento di prezzo del quasi 300% rispetto si periodi prepandemici. Per dare un’idea delle cifre di cui stiamo parlando, a giugno 2020 l’acciaio costava 380 euro la tonnellata, oggi invece costa 1.100 euro la tonnellata. Questo fattore, unito alla mancanza in pochissimo tempo della reperibilità di qualsiasi tipo di acciaio vista l’enorme richiesta sul mercato, ha reso questa commodity una risorsa strategica più che mai. È interessante notare come le materie prime in generale venivano da un trend decennale discendente, iniziato nel 2011, raggiungendo il minimo nel 2015 per poi avere tra il 2016 ed il 2020 un periodo di sostanziale stagnazione.

 

In una prima analisi ciò che ha reso possibile questo squilibrio è stata una concomitanza di eventi più unica che rara. Infatti da un lato si è avuta il totale annullamento della domanda durante il periodo del lock-down, il quale ha rallentato la filiera produttiva globale in maniera imprevedibile, quasi bloccandola del tutto. Dall’altro invece si è avuta un’esplosione senza alcuna regolamentazione né tantomento previsione della domanda nel periodo successivo, tra nuove restrizioni e nuove liberizzazioni, il quale ha portato ad una nuova ed improvvisa richiesta di beni e servizi per i quali la filiera precedentemente paralizzata non era affatto pronta. E ciò non è avvenuto solo nel mercato dell’acciaio, ma anche in quello dei semiconduttori, dei metalli preziosi e dulcis in fundo anche nelle terre rare.

 

Come sempre accade in questi casi, la prima colpa è stata data a presunte manovre speculative che avrebbero coinvolto non ben definite entità finanziarie per poter lucrare sulla situazione di crisi globale. Sebbene sia purtroppo inevitabile che tali fenomeni si creino in questi frangenti storici, la responsabilità di questo fenomeno è molto meno fumosa e contorta di quanto si possa pensare. Infatti le origini del rincaro dei prezzi si possono trovare nelle dinamiche economiche interne di alcuni paesi che sono sia produttori ma anche grandi consumatori di materie prime. Sia chiaro, la responsabilità non è in alcun caso da imputare interamente a queste nazioni, tuttavia è innegabile che vi sia stato un contributo molto importante da parte delle economie di questi stati a livello globale.

 

Il cuore del nostro interesse è, senza neanche pensarci troppo, la Cina. Essa infatti primeggia a livello mondiale per la produzione di materie prime da svariati anni ormai, cavalcando il proprio sviluppo economico con numeri che i rimanenti stati della comunità internazionale possono solo sognare. L’efficace seppur controversa gestione della pandemia in Cina ha portato questa nazione ad essere pronta ad affrontare l’inevitabile aumento della domanda mondiale una volta che la prima emergenza fosse stata assorbita. Unendo il contenimento dei contagi ad una rapida rispresa della produzione industriale, Pechino è riuscita a raggiungere una crescita del PIL nel 2020 per un +2,3%. L’unica economica mondiale ad essere in positivo l’anno scorso, giusto per dare qualche indicazione più ampia. Stati Uniti (-3,5%) ed Eurozona (-6,7%) hanno solo potuto guardare da lontano.

 

Il discorso delle materie prime è intrinsecamente legato alla Repubblica Popolare Cinese, assorbendo quest’ultima circa il 50% della domanda mondiale e parallelamente essendo la prima esportatrice in numerose commodities di vitale importanza per il mercato globale. Negli ultimi anni infatti la Cina è stata ciò che può essere definito un “cigno nero”, ovvero un evento completamente fuori da un certo contesto noto e definito, indi per cui imprevedibile. La richiesta di commodities necessaria ad alimentare la macchina dello sviluppo è divenuta così grande che la maggior parte delle risorse prodotte nel mondo passa in qualche modo da qui, siano esse come materie grezze sia come semilavorati.

 

Tra tutte le commodities tuttavia l’accaio è sicuramente quella su cui Pechino sta scommettendo maggiormente. Infatti tutte le industrie del mondo ne hanno bisogno per continuare a svilupparsi, e non è neanche un segreto che nel corso degli anni sia avvenuto uno spostamento delle filiere produttive verso la Cina in virtù soprattutto dei più bassi costi di produzione. In questa maniera Pechino si è ritrovata ad essere la più grande produttrice del pianeta. Solo nel 2020 la produzione siderurgica cinese ha sfornato più di metà dell’acciaio mondiale, per un totale di un miliardo di tonnellate prodotte. Un numero simile non era mai riuscito a nessuna nazione nella storia dell’umanità. Una cifra così importante può solo implicare problemi per i paesi importatori d’acciaio, i quali risultano de facto dipendenti da un unico produttore, senza alcun vincolo di continuità delle forniture nel caso in cui tale fornitore decida di incrementare i prezzi e/o diminuire le esportazioni. Per l’Occidente in particolare questo non significa altro che una pesantissima ombra sulla tanto agognata ripresa economica post-Covid, ripresa a questo punto in forse dati i possibili risvolti politici di una partita tanto importante. Fra tutti proprio il mercato europeo è tra gli attori maggiormente a rischio in questo scenario. Questo perché in Europa i produttori di acciaio stanno puntando sulla sostenibilità e sulla riqualifica dei siti produttivi, operazioni che notoriamente sono estremamente costose e che non possono competere con i bassi costi di produzione cinesi.

 

Cercando di vedere la questione in un’ottica più generale, la grande richiesta all’indomani della crisi pandemica ha causato un rapido esaurimento delle scorte presenti e quindi una lievitazione sproporzionata dei prezzi di tutti gli acciai in giro per il mondo. È interessante osservare come i primi acciai esauriti siano stati quelli speciali, sia a causa della produzione legata agli impianti sanitari ad alta grado di sterilità sia per il settore petrolifero, il quale dopo la voragine del 2020 ha scoperto un balzo all’inizio del 2021 come non se ne vedevano da anni. Controllando poi la Cina una grande fetta della produzione globale, Pechino ha avuto così anche una grande voce nella determinazione dei prezzi. Pesa anche l’applicazione da parte sia di Russia che della Cina di dazi commerciali sull’export di acciaio, entrambi dei big player nel panorama della siderurgia mondiale. Ciò a testimonianza del fatto che i paesi autocratici si stanno muovendo per cercare di tutelare il proprio sistema produttivo interno a fronte delle difficoltà economiche nazionali e sovranazionali.

 

Finora abbiamo visto solo il lato dei produttori di materie prime, ma è interessante vedere anche come si stanno comportando gli importatori ed i consumatori delle stesse. In questa fase di rilancio industriale, le pressioni inflazionistiche generate dalla situazione globale hanno portato sia gli Stati Uniti sia l’Europa ad “aprire i rubinetti” e ad iniziare ad esercitare misure arginanti. Nel dettaglio, Washington tramite la Federal Reserve ha comunicato già ad aprile 2020 che il tetto del 2% non era più la massima inflazione possibile ed accettabile in quel momento. Con un leggero ritardo (1 anno dopo) l’Unione Europea ha dato il proprio consenso a riversare denaro nelle materie prime, vista la scarsità sul mercato delle stesse ed il loro rinnovato valore strategico per la sopravvivenza degli stati membri. Sebbene siano approcci distanti nel tempo, questo ci fa comprendere come l’Occidente abbia messo in conto di dover aumentare le proprie spese in maniera considerevole per poter avere accesso al mercato delle materie prime, il quale era ormai considerato nella mente dei grandi investitori come un mercato destinato ad un lento declino e che non avrebbe mai più costituito oggetto d’interesse delle grandi manovre tra stati.

 

In aggiunta a quanto descritto sopra per l’acciaio, risulta del tutto analogo quanto accaduto per le terre rare, ovvero quei minerali di estrema importanza che sono la base per tutte la microelettronica e la componentistica avanzata di uso quotidiano e non (cellulari, computer, satelliti, pannelli solari, ecc…). Già protagonisti della famosa guerra dei dazi tra Stati Uniti e Cina, le terre rare sono una delle risorse naturali ma soprattutto geopolitiche più importanti sul pianeta. Vista l’enorme fame che le nazioni sviluppate hanno di questi materiali, esse risultano vitali per il raggiungimento di obiettivi importanti come l’eliminazione degli idrocarburi o la crezione di nuove tecnologie in ambito sia civile che militare. Proprio per questo motivo secondo alcune stime la corrispondente domanda verrà aumentata di 40 volte entro il 2040. Tutto questo ha da sempre reso il prezzo delle terre rare e dei metalli affini molto elevato, ma nell’ultimo anno si sono viste cose pazze anche in questo ambito. In particolare, il cobalto è cresciuto del 40%, il nickel ha raggiunto il massimo degli ultimi 2 anni, mentre il rame ha superato quota 10.000 dollari a maggio 2021, record imbattutto dal lontano 2011. Nonostante la questione sia enormemente più complessa, da questi semplici dati si può capire come qualsiasi obiettivo tecnologico che coinvolga questa tipologia di metalli diverrà sempre più difficile negli anni a venire e soprattutto meno sostenibile da un punto di vista economico.

 

In conclusione, il rialzo dei prezzi delle materie prime è stato il fattore più inaspettato dovuto alla pandemia. Sebbene gli stati stiano cercando di limitare i danni di questo fenomeno, i risvolti reali sull’economia globale devono ancora manifestarsi a pieno. Nonostante sia indubbio che vi sia stata una spinta degli speculatori finanziari in questa direzione in modo da recuperare parte dei proventi persi altrove durante il lockdown, questo aumento dei prezzi non è altro che il risultato di anni e anni di politiche non lungimiranti da parte dei singoli stati e delle relative filiere produttive. Per quanto possa sembrare che la Cina sia l’unica responsabile dell’incremento dei prezzi odierno, vi sono svariati fattori che contribuiscono tutt’ora ad alimentare questa tendenza, non ultima l’ormai conclamata debolezza del dollaro e la corsa immoderata all’acquisto delle varie commodities da parte dei paesi sviluppati. Tutte queste dinamiche hanno portato già negli ultimi mesi a rendere insostenibili numerosi progetti industriali in corso e per quanto riguarda quelli futuri molti potrebbero divenire in forse. Arginare un fenomeno di siffatta complessità risulta essere oggi quanto mai difficile, vista soprattutto la permeante interconnessione tra tutte le economie globali. È innegabile tuttavia che la risposta dei governi degli stati importatori sia stata abbastanza lenta e non puntuale, cosa che ha permesso al fenomeno di gonfiarsi ulteriormente. Per quanto è abbastanza certo che il rialzo dei prezzi non sarà eterno, gli stati importatori dovrebbero far fronte comune contro una speculazione al rialzo di simili portate e non dividersi nei soliti provincialismi che portano alla mancanza di controllo totale dei prezzi. Per usare un’accezione tipicamente statunitense, United We Stand, Divided We Fall.

RUBRICHE


attualità

ambiente

arte

filosofia & religione

storia & sport

turismo storico

 

PERIODI


contemporanea

moderna

medievale

antica

 

ARCHIVIO

 

COLLABORA


scrivi per instoria

 

 

 

 

PUBBLICA CON GBE


Archeologia e Storia

Architettura

Edizioni d’Arte

Libri fotografici

Poesia

Ristampe Anastatiche

Saggi inediti

.

catalogo

pubblica con noi

 

 

 

CERCA NEL SITO


cerca e premi tasto "invio"

 


by FreeFind

 

 

 

 

 


 

 

 

[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]