attualità
SULL’AUMENTO
DEI PREZZI DELLE MATERIE PRIME
COVID ED ECONOMIA MONDIALE
di Gian Marco Boellisi
Tra tutti gli effetti collaterali che la
pandemia globale di Covid-19 sta
portando quotidianamente di fronte ai
nostri occhi, il più inaspettato ma allo
stesso tempo potenzialmente più
problematico è stato l’aumento
vertiginoso dei prezzi di tutte le
materie prime a livello globale. Infatti
spesso ci dimentichiamo che la nostra
società si fonda su una rete fittissima
di traffici di merci e beni di consumo
primari, senza i quali non potrebbe
esistere il mondo moderno. Un aumento
tra tutti in particolare sta mettendo a
rischio seriamente la cosiddetta ripresa
post-Covid, ovvero l’incremento dei
prezzi dell’acciaio. Considerato sin
dalla seconda Rivoluzione Industriale
l’indice con cui si riconosce un paese
tecnologicamente avanzato, il rialzo
dell’acciaio sta mettendo in seria
difficoltà tutti quei settori produttivi
che dipendono da questo metallo e che in
teoria dovrebbero costituire il traino
della ripresa economica a valle della
pandemia. È quindi interessante
analizzare le origini di questo
improvviso aumento dei prezzi e cercare
di comprendere quali conseguenze potrà
portare sul mercato globale di domani.
Partiamo dalle origini. All’indomani di
quell’ormai lontano marzo 2020 in cui il
mondo si rese conto di trovarsi in una
nuova pandemia globale si ebbe un crollo
generale dei prezzi di svariati beni di
consumo, tra cui anche l’insospettabile
petrolio greggio (di famosa memoria il
giorno in cui il Brent raggiunse cifre
negative). Tuttavia, nell’arco di alcune
settimane, le varie commodities
riuscirono a ritornare verso un trend
ascendente costante, il quale non si
sarebbe più fermato e che ancora oggi è
in atto. La grande sorpresa tuttavia si
scoprì essere l’accaio, il quale non
solo recuperò tutto il valore perso
negli anni a seguito delle varie
delocalizzazioni di produzione, ma
addirittura diventò una delle risorse
più costose sul pianeta, registrando nel
2021 secondo Fortune un aumento di
prezzo del quasi 300% rispetto si
periodi prepandemici. Per dare un’idea
delle cifre di cui stiamo parlando, a
giugno 2020 l’acciaio costava 380 euro
la tonnellata, oggi invece costa 1.100
euro la tonnellata. Questo fattore,
unito alla mancanza in pochissimo tempo
della reperibilità di qualsiasi tipo di
acciaio vista l’enorme richiesta sul
mercato, ha reso questa commodity una
risorsa strategica più che mai. È
interessante notare come le materie
prime in generale venivano da un trend
decennale discendente, iniziato nel
2011, raggiungendo il minimo nel 2015
per poi avere tra il 2016 ed il 2020 un
periodo di sostanziale stagnazione.
In una prima analisi ciò che ha reso
possibile questo squilibrio è stata una
concomitanza di eventi più unica che
rara. Infatti da un lato si è avuta il
totale annullamento della domanda
durante il periodo del lock-down, il
quale ha rallentato la filiera
produttiva globale in maniera
imprevedibile, quasi bloccandola del
tutto. Dall’altro invece si è avuta
un’esplosione senza alcuna
regolamentazione né tantomento
previsione della domanda nel periodo
successivo, tra nuove restrizioni e
nuove liberizzazioni, il quale ha
portato ad una nuova ed improvvisa
richiesta di beni e servizi per i quali
la filiera precedentemente paralizzata
non era affatto pronta. E ciò non è
avvenuto solo nel mercato dell’acciaio,
ma anche in quello dei semiconduttori,
dei metalli preziosi e dulcis in fundo
anche nelle terre rare.
Come sempre accade in questi casi, la
prima colpa è stata data a presunte
manovre speculative che avrebbero
coinvolto non ben definite entità
finanziarie per poter lucrare sulla
situazione di crisi globale. Sebbene sia
purtroppo inevitabile che tali fenomeni
si creino in questi frangenti storici,
la responsabilità di questo fenomeno è
molto meno fumosa e contorta di quanto
si possa pensare. Infatti le origini del
rincaro dei prezzi si possono trovare
nelle dinamiche economiche interne di
alcuni paesi che sono sia produttori ma
anche grandi consumatori di materie
prime. Sia chiaro, la responsabilità non
è in alcun caso da imputare interamente
a queste nazioni, tuttavia è innegabile
che vi sia stato un contributo molto
importante da parte delle economie di
questi stati a livello globale.
Il cuore del nostro interesse è, senza
neanche pensarci troppo, la Cina. Essa
infatti primeggia a livello mondiale per
la produzione di materie prime da
svariati anni ormai, cavalcando il
proprio sviluppo economico con numeri
che i rimanenti stati della comunità
internazionale possono solo sognare.
L’efficace seppur controversa gestione
della pandemia in Cina ha portato questa
nazione ad essere pronta ad affrontare
l’inevitabile aumento della domanda
mondiale una volta che la prima
emergenza fosse stata assorbita. Unendo
il contenimento dei contagi ad una
rapida rispresa della produzione
industriale, Pechino è riuscita a
raggiungere una crescita del PIL nel
2020 per un +2,3%. L’unica economica
mondiale ad essere in positivo l’anno
scorso, giusto per dare qualche
indicazione più ampia. Stati Uniti
(-3,5%) ed Eurozona (-6,7%) hanno solo
potuto guardare da lontano.
Il discorso delle materie prime è
intrinsecamente legato alla Repubblica
Popolare Cinese, assorbendo quest’ultima
circa il 50% della domanda mondiale e
parallelamente essendo la prima
esportatrice in numerose commodities di
vitale importanza per il mercato
globale. Negli ultimi anni infatti la
Cina è stata ciò che può essere definito
un “cigno nero”, ovvero un evento
completamente fuori da un certo contesto
noto e definito, indi per cui
imprevedibile. La richiesta di
commodities necessaria ad alimentare la
macchina dello sviluppo è divenuta così
grande che la maggior parte delle
risorse prodotte nel mondo passa in
qualche modo da qui, siano esse come
materie grezze sia come semilavorati.
Tra tutte le commodities tuttavia
l’accaio è sicuramente quella su cui
Pechino sta scommettendo maggiormente.
Infatti tutte le industrie del mondo ne
hanno bisogno per continuare a
svilupparsi, e non è neanche un segreto
che nel corso degli anni sia avvenuto
uno spostamento delle filiere produttive
verso la Cina in virtù soprattutto dei
più bassi costi di produzione. In questa
maniera Pechino si è ritrovata ad essere
la più grande produttrice del pianeta.
Solo nel 2020 la produzione siderurgica
cinese ha sfornato più di metà
dell’acciaio mondiale, per un totale di
un miliardo di tonnellate prodotte. Un
numero simile non era mai riuscito a
nessuna nazione nella storia
dell’umanità. Una cifra così importante
può solo implicare problemi per i paesi
importatori d’acciaio, i quali risultano
de facto dipendenti da un unico
produttore, senza alcun vincolo di
continuità delle forniture nel caso in
cui tale fornitore decida di
incrementare i prezzi e/o diminuire le
esportazioni. Per l’Occidente in
particolare questo non significa altro
che una pesantissima ombra sulla tanto
agognata ripresa economica post-Covid,
ripresa a questo punto in forse dati i
possibili risvolti politici di una
partita tanto importante. Fra tutti
proprio il mercato europeo è tra gli
attori maggiormente a rischio in questo
scenario. Questo perché in Europa i
produttori di acciaio stanno puntando
sulla sostenibilità e sulla riqualifica
dei siti produttivi, operazioni che
notoriamente sono estremamente costose e
che non possono competere con i bassi
costi di produzione cinesi.
Cercando di vedere la questione in
un’ottica più generale, la grande
richiesta all’indomani della crisi
pandemica ha causato un rapido
esaurimento delle scorte presenti e
quindi una lievitazione sproporzionata
dei prezzi di tutti gli acciai in giro
per il mondo. È interessante osservare
come i primi acciai esauriti siano stati
quelli speciali, sia a causa della
produzione legata agli impianti sanitari
ad alta grado di sterilità sia per il
settore petrolifero, il quale dopo la
voragine del 2020 ha scoperto un balzo
all’inizio del 2021 come non se ne
vedevano da anni. Controllando poi la
Cina una grande fetta della produzione
globale, Pechino ha avuto così anche una
grande voce nella determinazione dei
prezzi. Pesa anche l’applicazione da
parte sia di Russia che della Cina di
dazi commerciali sull’export di acciaio,
entrambi dei big player nel panorama
della siderurgia mondiale. Ciò a
testimonianza del fatto che i paesi
autocratici si stanno muovendo per
cercare di tutelare il proprio sistema
produttivo interno a fronte delle
difficoltà economiche nazionali e
sovranazionali.
Finora abbiamo visto solo il lato dei
produttori di materie prime, ma è
interessante vedere anche come si stanno
comportando gli importatori ed i
consumatori delle stesse. In questa fase
di rilancio industriale, le pressioni
inflazionistiche generate dalla
situazione globale hanno portato sia gli
Stati Uniti sia l’Europa ad “aprire i
rubinetti” e ad iniziare ad esercitare
misure arginanti. Nel dettaglio,
Washington tramite la Federal Reserve ha
comunicato già ad aprile 2020 che il
tetto del 2% non era più la massima
inflazione possibile ed accettabile in
quel momento. Con un leggero ritardo (1
anno dopo) l’Unione Europea ha dato il
proprio consenso a riversare denaro
nelle materie prime, vista la scarsità
sul mercato delle stesse ed il loro
rinnovato valore strategico per la
sopravvivenza degli stati membri.
Sebbene siano approcci distanti nel
tempo, questo ci fa comprendere come
l’Occidente abbia messo in conto di
dover aumentare le proprie spese in
maniera considerevole per poter avere
accesso al mercato delle materie prime,
il quale era ormai considerato nella
mente dei grandi investitori come un
mercato destinato ad un lento declino e
che non avrebbe mai più costituito
oggetto d’interesse delle grandi manovre
tra stati.
In aggiunta a quanto descritto sopra per
l’acciaio, risulta del tutto analogo
quanto accaduto per le terre rare,
ovvero quei minerali di estrema
importanza che sono la base per tutte la
microelettronica e la componentistica
avanzata di uso quotidiano e non
(cellulari, computer, satelliti,
pannelli solari, ecc…). Già protagonisti
della famosa guerra dei dazi tra Stati
Uniti e Cina, le terre rare sono una
delle risorse naturali ma soprattutto
geopolitiche più importanti sul pianeta.
Vista l’enorme fame che le nazioni
sviluppate hanno di questi materiali,
esse risultano vitali per il
raggiungimento di obiettivi importanti
come l’eliminazione degli idrocarburi o
la crezione di nuove tecnologie in
ambito sia civile che militare. Proprio
per questo motivo secondo alcune stime
la corrispondente domanda verrà
aumentata di 40 volte entro il 2040.
Tutto questo ha da sempre reso il prezzo
delle terre rare e dei metalli affini
molto elevato, ma nell’ultimo anno si
sono viste cose pazze anche in questo
ambito. In particolare, il cobalto è
cresciuto del 40%, il nickel ha
raggiunto il massimo degli ultimi 2
anni, mentre il rame ha superato quota
10.000 dollari a maggio 2021, record
imbattutto dal lontano 2011. Nonostante
la questione sia enormemente più
complessa, da questi semplici dati si
può capire come qualsiasi obiettivo
tecnologico che coinvolga questa
tipologia di metalli diverrà sempre più
difficile negli anni a venire e
soprattutto meno sostenibile da un punto
di vista economico.
In conclusione, il rialzo dei prezzi
delle materie prime è stato il fattore
più inaspettato dovuto alla pandemia.
Sebbene gli stati stiano cercando di
limitare i danni di questo fenomeno, i
risvolti reali sull’economia globale
devono ancora manifestarsi a pieno.
Nonostante sia indubbio che vi sia stata
una spinta degli speculatori finanziari
in questa direzione in modo da
recuperare parte dei proventi persi
altrove durante il lockdown, questo
aumento dei prezzi non è altro che il
risultato di anni e anni di politiche
non lungimiranti da parte dei singoli
stati e delle relative filiere
produttive. Per quanto possa sembrare
che la Cina sia l’unica responsabile
dell’incremento dei prezzi odierno, vi
sono svariati fattori che contribuiscono
tutt’ora ad alimentare questa tendenza,
non ultima l’ormai conclamata debolezza
del dollaro e la corsa immoderata
all’acquisto delle varie commodities da
parte dei paesi sviluppati. Tutte queste
dinamiche hanno portato già negli ultimi
mesi a rendere insostenibili numerosi
progetti industriali in corso e per
quanto riguarda quelli futuri molti
potrebbero divenire in forse. Arginare
un fenomeno di siffatta complessità
risulta essere oggi quanto mai
difficile, vista soprattutto la
permeante interconnessione tra tutte le
economie globali. È innegabile tuttavia
che la risposta dei governi degli stati
importatori sia stata abbastanza lenta e
non puntuale, cosa che ha permesso al
fenomeno di gonfiarsi ulteriormente. Per
quanto è abbastanza certo che il rialzo
dei prezzi non sarà eterno, gli stati
importatori dovrebbero far fronte comune
contro una speculazione al rialzo di
simili portate e non dividersi nei
soliti provincialismi che portano alla
mancanza di controllo totale dei prezzi.
Per usare un’accezione tipicamente
statunitense, United We Stand,
Divided We Fall. |