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N. 135 - Marzo 2019 (CLXVI)

IL PRESEPE NELL’ARTE
EXCURSUS SULLA PIÙ NOTA TRADIZIONE ARTISTICO-DEVOZIONALE – PARTE III

di Teresa Nicolangelo

 

Nonostante a partire dal XV secolo la rappresentazione della Natività si estenda anche oltre i canonici luoghi di culto attraverso commissioni di privati e la diffusione e la fortuna del soggetto aumentino anche grazie all’attività di botteghe scultoree quali quelle dei Della Robbia a Firenze o di artigiani connessi alla “Gerusalemme bolognese” e, nonostante l’innovazione iconografica e l’incentivo alla devozione da parte francescana, non si giunge ancora, tuttavia, ai primi allestimenti mobili, tipica manifestazione di età barocca.

 

 

 

Pietro e Giovanni Alemanno, Presepe (particolare della Vergine), legno policromato, 1478.

Napoli, Museo di San Martino.

 

 

 

Giovanni Della Robbia, Presepe, terracotta invetriata, 1521.

Firenze, Museo Nazionale del Bargello.

 

Ciò cui si assiste, invece, a partire dalla fine del Quattrocento, è il fenomeno di nascita e proliferazione di una tra le fonti iconografiche più peculiari del presepe, quella dei Sacri Monti, in grado di permettere al fedele di “vedere con gli occhi del corpo”, quasi entrando nella scena e condividendone il pathos, il messaggio della Buona Novella che la rievocazione dei diversi episodi della vita di Cristo svela gradualmente.

 

La prima delle “Nuove Gerusalemme” è probabilmente da riconoscere in quella, già precedentemente citata e la cui originaria ideazione la tradizione fa risalire al vescovo San Petronio agli inizi del V secolo, di Bologna, ove si ritrova l’importante gruppo presepiale di cui ci si è occupati in precedenza (Adorazione dei Magi in legno policromato della Basilica di Santo Stefano).

 

L’idea di riprodurre puntualmente i Luoghi Santi, teatro delle vicende terrene di Cristo, anche per coloro che non possono recarvisi per via delle numerose difficoltà del viaggio e della presenza islamica nel territorio nasce fra i francescani, che ne ottengono la custodia nel 1335: Padre Bernardino Caimi, di ritorno dalla Terra Santa nel 1478, ne riporta misure esatte, successivamente utilizzate per la costruzione del Sacro Monte di Varallo.

 

Caratteristica precipua dei Sacri Monti è lo snodarsi di una serie di cappelle conservanti rappresentazioni pittoriche o scultoree degli episodi fondamentali della storia della Salvezza. A Varallo le prime cappelle (Nazareth, Betlemme, Calvario, Santo Sepolcro) verranno successivamente inglobate in un progetto più ampio voluto, in pieno periodo controriformistico, da San Carlo Borromeo, progetto le cui 45 rappresentazioni permettono al fedele di rivivere l’intera opera della Redenzione: contemplare e partecipare si configurano come momenti osmotici di un’esperienza mistica e terrena al tempo stesso.

 

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Gaudenzio Ferrari, Cappella dell’Adorazione dei pastori, 1515 ca.

Varallo (Vercelli), Sacro Monte.

 

 

 

Gaudenzio Ferrari, Cappella della Natività, 1513-1515.

Varallo (Vercelli), Sacro Monte.

 

Alla complessa realizzazione delle cappelle concorre, nel Cinquecento, la collaborazione di diversi artisti: Pellegrino Tibaldi e Galeazzo Alessi alle strutture architettoniche, Gaudenzio Ferrari e Giovanni d’Enrico alle sculture, ancora Gaudenzio Ferrari, assieme al Morazzone e Tanzio da Varallo alle pitture.

 

L’intensità della suggestione è in gran parte legata al contemporaneo utilizzo di pittura e scultura, per cui dal fondo pittorico spiccano le figure in terracotta policromata, che sembrano attirare lo spettatore nella scena, aumentandone l’effetto teatrale.

 

L’iconografia della Notte Santa subisce ulteriori cambiamenti, già partire dal XV secolo, grazie all’apporto di pittori eccellenti: la Natività è presa a pretesto per variazioni sul tema, successivamente riprese, con sensibilità, intenti ed esiti differenti, dagli artigiani del presepio.

 

«Nella Betlemme di tela – sottolinea P. Gargano – irruppero animali esotici. Più tardi la Natività venne ambientata in un’atmosfera notturna o in uno struggente paesaggio innevato: proprio come nei successivi presepi popolari, rischiarati da fiochi lumi, candeggiati da false coltri di neve. Particolarmente significativa fu l’apparizione delle rovine del tempio, collegate alla grotta o alla capanna. Nella simbologia cristiana la grotta dilata il suo spazio fino a rappresentare l’intero mondo; ed è, contemporaneamente, un cupo richiamo alla profondità misteriosa delle tenebre: l’anima del credente ritrova la luce soltanto quando nasce Cristo. La capanna, così fragile, ricorda invece all’uomo la sua precarietà, ma anche la possibilità di realizzare, con una materia lieve come il legno o la paglia, un riparo resistente: metafora della pazienza della fede. Le rovine del tempio, più orgogliosamente, sottolinearono il trionfo del cristianesimo, sorto sulle rovine delle colonne pagane».

 

 

Antonio Allegri, detto il Correggio, Adorazione dei pastori, tempera e oro su tavola, 1525-1530. Dresda, Gemäldegalerie.

 

 

Pieter Paul Rubens, Adorazione dei pastori, olio su tela, 1608.

Fermo, Pinacoteca civica.

 

 

Alessandro Allori, Adorazione dei pastori, olio su tela, 1578.

Carini (Messina), Duomo.

 

L’anno 1517 è un anno cruciale per il cristianesimo e la storia della Chiesa: il 31 ottobre la pubblica affissione delle 95 Tesi sul portale della cattedrale di Wittenberg da parte di Martin Lutero segna l’inizio della Riforma protestante e del conseguente, successivo scisma.

 

Nello stesso anno, provvidenzialmente, la notte di Natale, a Roma, la visione di Gaetano da Thiene nella chiesa di Santa Maria Maggiore: «Mentre prostrato contemplava innanzi alla adorata culla il sommo amore del nostro Dio, per aver voluto rimpicciolire la sua infinita grandezza dentro povere fasce infantili, […] vide circondata di luminosi raggi la beata Vergine col suo Divino Pargoletto stretto al seno come Le fosse allora nato» (P. Paschini, Vita di San Gaetano di Thiene).

 

Lo stesso Gaetano scrive: «Duro era il mio cuore, che in quel punto tutto fu liquefatto (…) Pigliai allora dalle Sue braccia amorose tra le mie braccia quel tenero Fanciullo, carne e vestimento dell’Eterno Verbo» (Gaetano di Thiene, Lettere).

 

Da quel momento il Santo diviene fervente propagatore del presepe, predicando la necessità di averne uno in ogni casa: anche a Napoli, ove soggiorna dal 1533 al 1540-1543, contribuisce a diffondere e incentivare la tradizione presepiale, allestendo una grande rappresentazione con statue lignee abbigliate, primo di quei cambiamenti distintivi fra i presepi «canonici» (delle chiese) e quelli familiari, secondo la moda del tempo, in una cappella adiacente l’Ospedale degli Incurabili intitolata, in quanto ricavata da una stalla, appunto a Santa Maria della Stalletta, curiosa coincidenza. I personaggi, ancora però realizzati in legno e non snodabili, non concedono molto spazio né all’espressione dei pastori, né alla loro intercambiabilità.

 

E mentre il Concilio di Trento (1545-1563) non riesce a sanare la frattura in seno alla cristianità, promuove e fornisce nuovo slancio, invece, alla pia pratica della rievocazione della Natività di Cristo, in quanto viatico di trasmissione della fede in modo semplice e vicino al sentire popolare: le chiese vanno popolandosi di statue di dimensioni prossime al naturale, o di poco inferiori, realizzate nei più svariati materiali, dalla terracotta alla cera al metallo, passando per il legno e la cartapesta.

 

Le figure, collocate entro scenari mobili rinvianti a scenografie teatrali, secondo le descrizioni note dalle cronache del tempo, intendono con una verosimiglianza sempre più spiccata far leva sull’animo dell’osservatore-fedele, generando un coinvolgimento emotivo di evidente derivazione teatrale.

 

«Docere et delectare sembrano gli imperativi cui rispondono nel Seicento gli ordini religiosi alle prese con la ricatechizzazione dell’Europa, dopo l’ondata delle riforme, ma soprattutto suadere, e a questo mirano i gesti larghi delle figure, lo splendore delle luci e la meraviglia delle invenzioni» (A. Mampieri).

 

Nel 1627 a Napoli si giunge, con i padri Scolopi, alla realizzazione del primo presepe non più fisso, come in uso in precedenza, ma smontabile, da esporre solo in periodo natalizio, mentre la tradizione presepiale, sempre più consolidata in tutta la Penisola, inizia presto a estendersi dalle chiese alle case patrizie.

 

È con l’epoca barocca che il presepe inizia, dunque, a diffondersi nelle dimore private, anche se per il momento soltanto in quelle aristocratiche: esemplare il caso del presepe realizzato a Roma dal Bernini per il Principe Barberini.

 

Le figure barocche hanno generalmente in comune la polimatericità, il fatto di essere snodate e rivestite di sontuosi costumi e il perseguimento della verosimiglianza, mentre iniziano a delinearsi le varianti regionali già in nuce nel secolo precedente come testimoniato dal presepe di Leonessa (1501-1503) la cui scena sacra, ambientata in un fantastico sfondo roccioso animato da numerosi personaggi, combina la tradizione figulina abruzzese a quella delle opere monumentali, fisse, in pietra policromata entro ambientazione rocciosa tipiche dell’area pugliese e lucana, o dallo stucco dell’urbinate Federico Brandani (1555), dalla fantasia e dalla vitalità avvolgenti.

 

 

Paolo Aquilano (?), Natività, terracotta dorata e policromata, inizi XVI secolo.

Leonessa (Rieti), Chiesa di San Francesco.

 

 

Federico Brandani, Presepe, stucco, 1555.

Urbino, Oratorio di San Giuseppe.

 

Genova, Bologna e Napoli si impongono in età barocca come centri privilegiati di produzione e diffusione della tradizione presepiale, ma altre aree italiane sono altrettanto feconde.

 

In Sicilia si avvia una produzione artigianale di altissima caratura, impiegante, a seconda della disponibilità della zona, i materiali più disparati: terracotta, cera, corallo, madreperla, legno e tessuto imbevuto in una mistura di gesso e colla, secondo la tecnica (in seguito denominata à cachert) inventata da Giovanni Antonio Matera per conferire ai personaggi, sbozzati in legno di tiglio, una maggiore e verosimile plasticità, ottenuta attraverso la duttilità della stoffa e cristallizzata dall’utilizzo della colla.

 

 

Figura Giuseppe Antonio Matera, Natività, tecnica à cachert

(legno rivestito di stoffa intrisa in mistura di gesso e colla), inizi XVIII secolo.

Palermo, Museo Etnografico Siciliano “G. Pitrè”.

 

Gusto popolare e teatrale per ricchezza e affollamento delle scene caratterizza anche i presepi altoatesini, sebbene questi ultimi risultino, nel complesso, maggiormente legati alla tradizione bavarese e austriaca piuttosto che a quella italiana.

 

A Genova la teoria delle figure lignee, ma articolate e rivestite di sontuosi tessuti, si snoda, composta e ordinata, lungo una direttrice orizzontale, muovendo verso un unico punto, la grotta della Natività, in posizione preminente, mentre Bologna si caratterizza per l’utilizzo plastico della terracotta o del gesso e per le composte espressività e nobiltà conferite alle figure umane.

 

Ma è a Napoli che il presepe, ricevuto il forte slancio dalla predicazione di San Gaetano, si avvia verso la sua stagione aurea, verso una caratterizzazione peculiare e una diffusione e

un successo tali da conferire alla città partenopea la fama di patria del presepe per eccellenza.

 

Nella chiassosa e sovraffollata composizione, in cui convivono espressionismo, amore per l’aneddotica e gusto del grottesco, esotismo, curiosità, vivacità, anacronismo e simbolismo, è necessario lasciarsi guidare dal volo degli angeli per ritrovare la scena più importante con la Sacra Famiglia (il Mistero): nel punto in cui essi si addensano a grappolo, è ambientata la grotta con la Natività. E spesso si tratta di una posizione marginale, quasi una relegazione in un canto per meglio lasciar spazio al compiacimento descrittivo di un’umanità varia e spesso allo sbando in attesa del Salvatore.

 

Se, in generale, il materiale principe delle figure presepiali rimane la terracotta, il che consente un ampliamento della produzione, in ogni caso di buon livello, e soprattutto una produzione seriale, che aumenta proporzionalmente alle possibilità di riproduzione, l’utilizzo della cartapesta abbatte i costi: le figure dei presepi si moltiplicano.

 

Il Seicento introduce, soprattutto a Napoli, manichini di legno snodabile, la cui invenzione è tradizionalmente attribuita a Michele Perrone, dotati di veri capelli, occhi in vetro e dimensioni progressivamente ridotte, raggiungendo dapprima una media di circa settanta centimetri, per poi giungere, a distanza di quasi mezzo secolo e su intuizione di Pietro Ceraso, a manichini dalla testa e dagli arti in legno, ma dall’anima in fil di ferro e copertura del corpo in cascame di canapa (stoppa), della dimensione di circa quaranta centimetri, le cosiddette “terzine”: così snodabili, le figure meglio si prestano ad esprimere la naturalezza e la teatralità di gesti e movimento.



 

 

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