N. 12 - Dicembre 2008
(XLIII)
LA PRESA DI GRANADA
La fine della
Reconquista
di Cristiano Zepponi
Il muro di scudi franco
fermò a Poitiers le scorrerie musulmane, ma furono i
contrasti interni – culminati nella caduta del califfato
istituito a Cordova - a bloccarne definitivamente
l’avanzata, fino a favorire l’instaurazione di una
fragile pace. A parte qualche lampo episodico, il furore
guerresco dei Mori – com’erano chiamati nella penisola
iberica – andò rapidamente scemando, man mano che
contingenti arabi, siriani, berberi e mercenari
occupavano gran parte dell’odierna Spagna.
La ‘Reconquista’, però, si era arrestata alla metà del
Duecento, sotto il peso delle ricorrenti crisi
dinastiche del regno di Castiglia, da cui dipendeva in
primo luogo la volontà di dar battaglia. Dopo la
vittoria colta a Las Navas de Tolosa il 16 luglio del
1212, e la liberazione di Maiorca (1228), Ibiza e
Formentera, Minorca (1287), Valencia (1245), Ubeda
(1233), Cordova (1236), Jaèn (1246), Siviglia (1248) e
Cadice (1262), il processi si era arrestato, nonostante
mancasse un solo tassello per completare il quadro.
Quel tassello era rappresentato da Granada, capitale
della provincia omonima, ma presupponeva l’unione dei
due più importanti regni cristiani di Spagna, la
dinamica, eterogenea ed espansiva Aragona e l’agricola,
tradizionale e latifondista Castiglia. Per questo le
operazioni poterono riprendere solo dopo il 1469, data
del matrimonio di Isabella di Castiglia – cui era stata
riconosciuta la successione del fratello Enrico IV, a
discapito dell’illegittima Giovanna – con Ferdinando
d’Aragona, erede di Giovanni II. Furono così gettate le
basi di un regno “nazionale” che vantasse la compattezza
necessaria per abbattere la fortezza musulmana, legato
in primis dal collante religioso, chiaramente espresso
dalla definizione “re cattolici”.
I due riuscirono a battere l’opposizione castigliana –
esplosa in un moto indipendentista al momento
dell’ascesa al trono di Giovanni d’Aragona - e le forze
portoghesi schierate con la rivale di Isabella, e
poterono inaugurare la duplice reggenza a partire dal
1479, anno della morte di Giovanni II. Solo allora, come
parte del progetto di ristrutturazione degli Stati
unificati, i due sovrani volsero lo sguardo alle terre
fortificate tra la Sierra Nevada ed il mare, ancora in
mano agli infedeli.
In campo musulmano, invece, il sultano nasrida Abu
Hassan – che aveva inizialmente accettato di versare un
tributo annuale a Ferdinando, per garantirsi la pace,
prima di rimangiarsi la parola e rinnegare il
vassallaggio – potè approfittare dei tre anni necessari
agli avversari per liquidare il pericolo portoghese, e
preparò la guerra che sapeva imminente.
Nel 1481, dunque, si mosse per primo; sfruttando la
sorpresa, conquistò e saccheggiò la città di Zahara. Il
marchese di Cadice, comandante delle truppe di
Ferdinando, reagì con decisione, e riuscì a strappare
all’avversario la fortezza di Alhama de Granada. La
minaccia portata così vicino alla loro capitale e
l’impossibilità di recuperare la posizione persa
favorirono l’insorgere di divisioni in campo musulmano:
il figlio di Hassan Abu Abdullah, noto agli spagnoli
come Boabdil o ‘el Chico’, depose il padre, che si
rifugiò a Malaga.
Il 1482 fu un anno di guerra. Le forze di Boabdil,
comandate dal novantenne Ali Atar, non poterono impedire
nè la cattura del primo, né la morte del secondo, a
Sierra de Rute. Ferdinando rilasciò Boabdil, dietro
pagamento di un riscatto e consegna di prigionieri
illustri, a condizione che si unisse ai castigliani
nella lotta contro il parentame superstite, mentre il
detronizzato Hassan continuò la lotta finchè la malattia
non lo costrinse a cedere il posto al fratello Muhammad
ibn Sa’ad (meglio noto come Al-Zaghal “Il coraggioso”).
Boabdil, come da copione, non poteva rivelarsi un
alleato fedele, ed infatti non lo fu. Si unì infatti
allo zio, cui avrebbe dovuto disputare il controllo di
Granada, prima di essere nuovamente raggiunto e
catturato a Loca, dove aveva cercato di resistere. Nel
corso del 1487, peraltro, anche Malaga era caduta,
ultima di una lunga serie di roccaforti moresche: Álora,
Setenil, Cártama, Coin, Ronda (maggio 1485), Marbella,
Loja (maggio 1486),oltre alle fortezze di Illora, Moclín,
Montefrío e Colomera .
Ferdinando doveva essere un uomo paziente, se decise di
nuovo di rilasciare Boabdil, che provvide in fretta a
recuperare gli onori perduti, una volta tornato a
Granada. Sebbene il territorio moresco fosse tagliato in
due dal 1485, Boabdil propose ed intraprese trattative
per una pace duratura, mentre la guerra raggiungeva il
suo acme: la regina Isabella, si disse, era arrivata a
vendere i gioielli reali per finanziare la campagna
contro Almerìa e Baza (cadute tra il 1489 ed il 1490).
La continua emorragia di bastioni difensivi, culminata
con la conquista di Guadix, Almuñécar e Salobreña, portò
però alla resa di al-Zaghal, ed alla conseguente
cessione ai castigliani della parte orientale di Granada,
da lui controllata.
Rimaneva solo Boabdil, che rifiutava di aprire le porte
all’esercito invasore: quando le consultazioni
fallirono, nell’estate del 1490, Ferdinando condusse
dunque l’esercito verso la città, e si stabilì nel
villaggio di Atqa, da dove avrebbe diretto le
operazioni.
Granada veniva da decenni fiorenti, sotto la dinastia
nasride. Vantava un ingegnoso sistema di irrigazione per
l'agricoltura, miniere abbondanti d’oro, argento e rame,
una crescente manifattura della seta, un artigianato
caratteristico e sviluppato, un commercio dinamico e
vivace, una florida vita culturale. Era, a tutti gli
effetti, un valido obiettivo.
L’assedio fu quasi subito interrotto da una curiosa
serie d’eventi: sembra che un soldato moresco, un certo
Yarfe, avesse scagliato una lancia in direzione del
padiglione reale. La stessa notte, poi, alcuni fanti
castigliani, penetrati furtivamente nella rocca,
appesero l’Ave Maria alla porta della moschea.
Non si aspettavano tuttavia di vedere, il mattino
seguente, lo steso Yarfe cavalcare di fronte alla linea
cristiana, con il sacro scritto appeso alla coda del
cavallo, incurante della nutrita scorta personale della
regina Isabella, impegnata a misurare l’andamento delle
operazioni.
I Mori schierarono l’esercito, temendo lo scontro, ma la
regina non voleva sentirsi protagonista di un inutile
spargimento di sangue, e ordinò di abbassare le armi a
Don Rodrigo Ponce de Leon, il marchese di Cadice.
Diversamente si comportò il marito Ferdinando, che
invece accolse la richiesta, avanzata da un soldato, di
affrontare in combattimento singolo l’impudente
infedele.
Prima a cavallo, e poi a piedi, nella terra di nessuno
tra gli eserciti, i due campioni si affrontarono in
armature corazzate. Prevalse lo spagnolo, alla fine; ma
i Mori, che fin’allora avevano rispettato le usanze del
duello, alla vista del cadavere si lanciarono
all’assalto, fidando nell’appoggio delle artiglierie
della rocca.
Una carica della cavalleria pesante disperse però i
ranghi moreschi, e le porte ingoiarono una folla
dispersa e terrorizzata.
Gli spagnoli avevano decisamente di che festeggiare,
dopo il primo scontro. Ma il caso scosse le loro
convinzioni, allorchè l’accampamento reale,
apparentemente per incuria, fu devastato da un violento
incendio, secondo alcuni originato dalla tenda della
regina.
Ferdinando decise allora l’immediata costruzione di un
nuovo accampamento cintato, sul modello romano, che fu
chiamato Santa Fe, ed è oggi diventato una città. Allo
stesso modo, per mostrare di non aver cambiato
propositi, ordinò all’esercito di marciare, in assetto
da battaglia, davanti alle mura della città. Una sortita
dei Mori fu bloccata e respinta, quel giorno.
L’estate passò insieme alle speranze dei musulmani, che
potevano solo spiare la crescita esponenziale dei
quartieri castigliani, affollati dai soldati del tercio,
e sperare in una pacifica composizione della disputa,
data la penuria di cibo in città. Per questo, a
settembre Boabdil avviò delle trattative che condussero,
il 25 novembre del 1491, alla concessione di condizioni
(“Capitolazioni”) decisamente favorevoli agli sconfitti:
questi non avrebbero subìto conseguenze fisiche, come
gli abitanti, avrebbero potuto godere della libertà di
culto e dell’elezione di magistrati locali, o emigrare
in Nord-Africa a spese dei “re cattolici”. Inoltre,
erano garantite le persone ed i beni dei musulmani
decisi a restare in città (detti ‘Mudejar’, ‘chi ha
avuto il permesso di rimanere’).
Le chiavi dell’abitato furono consegnate prima del
previsto ai nuovi occupanti – il periodo stabilito era
di due mesi – il 2 gennaio del 1492: "Oggi, secondo
giorno di gennaio del presente anno novantadue, la città
di Granata si è arresa a noi con l'Alhambra e tutte le
fortificazioni che la costituiscono [...]. Comunico a
Vostra Santità una così grande fortuna, ossia che dopo
tante pene, spese, sacrifici di vite e di sangue dei
nostri sudditi e regnicoli, questo regno di Granata, che
per settecentottanta anni è stato occupato dagli
Infedeli, sotto il vostro regno e col vostro aiuto, è
stato conquistato", scrisse festante Ferdinando al
pontefice. La caduta della città fu festeggiata in tutta
Europa, dall’Italia all’Inghilterra.
La Spagna era ora unita, mentre la monarchia aveva
trionfato contro il nemico esterno, i Mori, dopo aver
sconfitto quello interno, le forze aristocratiche ed
autonomiste. Il Paese imboccava proprio allora una fase
d’intensa espansione economica e politica, ma di lì a
poco dovette anche subire gli effetti di una nuova
ventata d’intolleranza (che diremmo ‘nazionalista’, se
non fosse anacronisticamente inesatto) nei confronti
degli stranieri, dei convertiti, delle minoranze.
Da una parte, in quei giorni si apprestava la spedizione
per le “Indie” guidata da Cristoforo Colombo;
dall’altra, le promesse a Boabdil si sarebbero presto
rivelate illusorie. |