N. 58 - Ottobre 2012
(LXXXIX)
Il Predator
Il drone che ha cambiato la guerra
di Giovanni De Notaris
Nel
mese
di
settembre
2012,
un
attentato
terroristico
ha
colpito
il
consolato
americano
a
Bengasi,
uccidendo,
tra
gli
altri,
l’ambasciatore
americano
in
Libia.
Per
investigare
sull’accaduto,
ma
anche
per
confermare
la
loro
presenza
a
sostegno
della
nuova
Libia,
il
presidente
americano
Barack
Obama,
ha
disposto
l’invio
nel
paese
di
due
navi
da
guerra,
circa
200
marines,
e un
gruppo
di
Predators,
i
famosi
aerei
senza
pilota.
Per
capirne
l’importanza,
ma
anche
la
loro
evoluzione,
è
necessario
fare
un
salto
indietro
nel
tempo
fino
ai
noti
attentati
dell’11
settembre
2001.
Quegli
avvenimenti
difatti
non
hanno
cambiato
soltanto
le
relazioni
politiche
internazionali,
ma
anche
l’idea
stessa
della
guerra.
Intrappolati
nella
necessità
di
dover
reagire
a un
così
disastroso
smacco,
gli
Stati
Uniti
dovevano,
per
forza
di
cose,
andare
in
guerra.
Ciò
che
si
temeva
però,
nell’amministrazione
di
George
W.
Bush,
era
l’alto
numero
di
vittime
previste
tra
i
propri
soldati.
Vittime
non
solo
del
fuoco
nemico,
ma
anche
delle
tanto
temute
armi
batteriologiche.
Nulla
poteva
essere
previsto,
in
quel
nuovo
genere
di
guerra.
La
conclusione
stessa,
come
si è
visto
poi,
non
era
prevedibile,
e
quindi
il
numero
di
vittime
americane
avrebbe
potuto
essere
alto,
come
è
poi
realmente
accaduto.
Inoltre,
vi
era
pure
il
timore
di
sprecare
inutilmente
le
vite
dei
soldati,
dato
che
non
si
era
certi
di
prendere
il
nemico
numero
uno,
Osama
bin
Laden.
Fu
così
che
si
rese
necessario
far
ricorso
alla
tecnologia,
come
già
era
accaduto
nella
prima
guerra
del
golfo,
nel
1991,
dove
tutti
ricordano
le
immagini
delle
bombe
cosiddette
intelligenti,
che
colpivano
a
distanza
i
bersagli,
non
sempre
però
con
precisione,
lasciando
sul
campo
anche
vittime
innocenti.
Bisognava
quindi
evitare
a
tutti
i
costi
di
ripetere
proprio
questo
errore.
Una
nuova
guerra
richiedeva
quindi
una
nuova
tipologia
di
armi
intelligenti,
più
precise
e
più
facilmente
controllabili.
Fu
questo
che
si
richiese
all’RQ-1
Predator,
il
primo
aereo
senza
pilota.
La
gestione
di
questo
drone
richiese
una
stretta
collaborazione
tra
la
C.I.A.
e
l’aeronautica,
che
dovettero
mettere
da
parte
vecchi
rancori
e
rivalità
nell’interesse
del
paese.
In
realtà
il
Predator
era
nato
come
areo
da
sola
ricognizione
e
pattugliamento,
e fu
usato
già
durante
la
guerra
in
Bosnia,
tra
il
1995
e il
1999,
con
quelle
funzioni,
in
seguito
al
successo
dei
voli
di
prova
del
1994.
Ma
dalla
campagna
di
Afghanistan
le
cose
cambiarono.
La
prima
missione
in
modalità
da
guerra
risale
proprio
a
quel
conflitto,
dove
i
droni
vennero
usati
per
scovare
bin
Laden
e i
suoi
luogotenenti.
Nel
2002
inoltre,
venne
usato
per
colpire
Qaed
Salim
Sinan
al-Harethi,
uno
degli
ideatori
del
drammatico
attentato
suicida
del
2000
-oltre
che
affiliato
di
al-Qaida-
al
cacciatorpediniere
USS
Cole,
in
Yemen.
Il 2
novembre
2002
il
terrorista
si
trovava
in
un
auto
nel
sud
del
paese
con
altri
uomini,
quando
la
vettura
saltò
improvvisamente
in
aria,
centrata
in
pieno
da
un
missile
Hellfire,
lanciato
da
parecchi
chilometri
di
altezza
da
un
Predator.
Poco
dopo
un
altro
drone
uccise
a
Jalalabad,
in
Afghanistan,
il
numero
tre
di
al-Qaida,
Mohammed
Atef.
Il
suo
ruolo
polivalente,
che
contempla
ancora
la
ricognizione,
fu
molto
utile
anche
nel
2004,
quando
nella
base
americana
di
Balad,
in
Iraq,
fu
grazie
ai
suoi
sensori
ottici
a
infrarossi,
che
fu
evitato
un
attentato
esplosivo
alla
base
stessa.
I
fondi
per
i
droni
erano
quindi
diventati
praticamente
illimitati.
Tra
il
1997
e il
2002
la
somma
lievitò
vertiginosamente,
giungendo
a
toccare
i
118.000.000
di
dollari.
Anche
la
sigla
era
cambiata:
da
RQ-1,
che
indicava
la
sola
modalità
ricognitiva,
a
MQ-1,
che
sottolineava
appunto
la
capacità
polivalente
di
trasportare
anche
armi.
Un
ulteriore
evoluzione
fu
poi
il
Reaper,
un
modello
più
avanzato,
che
poteva
sostenere
un
carico
di
armi
più
pesante.
Nel
2009
venne
poi
varato
l’RQ-170
Sentinel,
con
sole
funzioni
di
ricognizione.
Non
bisogna
dimenticare
inoltre,
che
i
cospicui
fondi
destinati
a
questi
droni,
non
riguardano
soltanto
l’aereo
in
sé,
ma
anche
tutto
l’apparato
umano
e
tecnologico
che
c’è
dietro.
Innanzitutto
l’aeronautica
deve
addestrare
dei
piloti
appositamente
per
guidare
da
terra
il
Predator.
Poi
sono
necessari
dei
satelliti
per
connettersi
con
i
droni;
è
inoltre
necessaria
la
presenza,
per
controllare
le
informazioni
di
un
solo
drone,
di
almeno
una
cinquantina
di
uomini;
per
concludere
poi
con
le
ovvie
operazioni
di
manutenzione,
sia
dei
droni,
che
degli
apparati
satellitari
e di
terra,
che
li
supportano.
Un
dispiego
di
forze
e
mezzi,
insomma,
non
indifferente.
Nonostante
però,
che
dal
2003
al
2009
le
missioni
eseguite
dai
droni
hanno
subito
un
sostanziale
incremento,
il
numero
di
vittime
tra
i
soldati
americani,
soprattutto
in
Iraq,
è
stato
molto
alto;
dimostrazione
che
per
quanto
la
tecnologia
possa
apportare
un
beneficio
notevole,
per
vincere
una
guerra
bisogna
sempre
sporcarsi
le
mani
di
persona,
coinvolgendo
quindi
il
fattore
umano.
Al
momento,
quindi,
l’idea
di
una
guerra
supertecnologica,
combattuta
solo
da
macchine,
come
abbiamo
imparato
a
vedere
nei
film
della
saga
di
Terminator,
è
ancora
lungi
dall’essere
realizzabile.
Riferimenti bibliografici:
Locatelli
Andrea,
Tecnologia
militare
e
guerra,
Vita
e
Pensiero,
Milano,
2010
Jacobsen
Annie,
Area
51,
Piemme,
Milano,
2012