N. 20 - Agosto 2009
(LI)
LA POVEST’ VREMENNYCH LET
Una fonte primaria per la storia della Rus’ kieviana
di Leilа Тavi
La
cronaca
può
essere
considerata
il
genere
medievale
per
eccellenza
ed è
proprio
una
cronaca
la
prima
opera
del
pensiero
russo:
la
Povest’
vremennych
let
(Cronaca
degli
anni
passati
o
Racconto
degli
anni
passati),
reputata
dagli
storici
una
preziosa
testimonianza
del
passaggio
dall’epoca
patriarcale
a
quella
feudale.
Tale
difficile
transizione
è
documentata
negli
scritti
dell’epoca,
non
attraverso
la
fedele
descrizione
dei
fatti
storici
ma,
come
per
la
tradizione
divulgativa
degli
scritti
d’ambito
monasteriale
occidentale,
servendosi
di
leggende
e
fonti
orali,
integrate
con
notizie
prese
dalle
opere
storiografiche
greche
e
slave
occidentali.
Nel
caso
della
Povest’
vremennych
let
le
fonti
hanno
determinato
in
modo
particolare
il
tipo
di
narrazione;
l’opera,
creata
da
molti
autori,
è lo
specchio
della
società
medievale
slava
orientale:
con
l’ideologia
di
coloro
che
detenevano
il
potere,
le
aspirazioni
del
popolo,
le
considerazioni
sulla
storia
russa
di
chi
custodiva
e
diffondeva
la
cultura,
i
monaci.
La
Povest’
vremennych
let
rappresenta
un’ottima
chiave
di
lettura
dell’attività
politica
di
quel
tempo,
diventando
essa
stessa
un
modello
per
i
cronisti
di
epoca
successiva,
che
vi
s’ispirarono
per
le
narrazioni
su
base
storica
del
periodo
feudale
e
della
zlaja
tatarščina,
in
cui
l’attività
letteraria
doveva,
per
volere
dei
regnanti,
consacrare
l’unità
delle
terre
russe.
Il
titolo
esteso
dell’opera
è
Se
pověsti
vremjan
ĭnychŭ
lětŭ,
otkudu,
estĭ
pošla
ruskaja
zemlja,
kto
vŭ
Kievě
nača
parvěe
knjažiti,
i
oktendu
ruskaja
zemlja
stala
estĭ;
si
tratta
di
una
compilazione
annalistica
della
storia
della
Rus'
kievana
condotta
dai
primordi
fino
all'anno
1117
(Riccardo
Picchio,
La
letteratura
russa
antica,
Milano,
Firenze,
Sansoni,
1968,
p.
66:
“Questo
titolo
è
riportato
dai
più
antichi
ed
attendibili
manoscritti
nelle
parole
iniziali
«Se
povesti
vremmjaninychu
letu
otkudu,
esti
pošla
ruskaja
zemlja,
kto
vu
kieve
nača
parvee
knjažiti,
i
otkudu
ruskaja
zemlja
stala
esti».
(Ecco
le
storie
[ossia
la
Cronaca]
degli
anni
passati,
di
dove
è
derivata
la
terra
russa,
chi
a
Kiev
incominciò
dapprima
a
regnare,
e di
dove
la
terra
russa
è
sorta).
L’edizione
del
XII
secolo
è
considerata
la
versione
più
attendibile
del
testo,
di
cui
un
monaco
di
Pečerskij
chiamato
Nestore
fu
l’estensore.
Questa
stessa
edizione
è la
fonte
principale
per
la
ricostruzione
della
storia
kieviana
delle
origini,
anche
se
gli
studi
di
ecdotica
ad
oggi
non
sono
stati
in
grado
di
stabilire
con
esattezza
il
nucleo
originario
dell’opera,
le
successive
stratificazioni
e
l’identità
di
tutti
gli
autori
che
hanno
partecipato
alla
redazione.
All’inizio
degli
studi,
nel
primo
Ottocento,
non
si
volle
rinunciare
a
trovare
un
autore
all’opera,
così
la
paternità
fu
attribuita
a
Nestore;
successivamente
si
giunse
alla
conclusione
che
la
Povest’
vremennych
let
è
una
raccolta,
un
corpus
(svod)
di
successive
compilazioni,
fino
a
stabilirne
la
genealogia.
Oggi
si
può
affermare
che
l’opera
è
composta
di
un
nucleo
originale
e
dalle
sue
filiazioni,
che
narrano
le
vicende
legate
al
primo
tentativo
di
cristianizzazione
della
Rus’.
Gli
studiosi
sono
concordi
nel
far
risalire
il
primo
nucleo
alla
raccolta
fatta,
all’epoca
di
Jaroslav
il
Saggio,
nella
Kievo-Pečerskaja
Lavra,
anche
detta
Monastero
delle
Grotte.
L’ordine
cronologico
e la
disposizione
del
materiale
storico
in
forma
di
cronaca
si
devono,
poi,
all’opera
di
Nikon
del
1073,
chiamata
tra
gli
studiosi
per
convenzione
“seconda
tappa”
(Cfr.
Riccardo
Picchio,
Letteratura
della
Slavia
ortodossa,
Bari,
Dedalo,
1991,
p.
67).
La
terza
tappa,
fondamentale,
arrivò
circa
venti
anni
più
tardi,
sempre
nel
Monastero
delle
Grotte:
un
anonimo
compilatore
raccolse
nel
1093,
su
commissione
del
principe
Svjatopolk,
nuovo
materiale
derivato,
probabilmente,
da
altri
manoscritti
custoditi
nel
monastero
o da
testi
di
cui
venne
a
conoscenza
tramite
frequentazione
di
personalità
dell’aristocrazia
militare.
Questo
nuovo
corpus,
generalmente
indicato
come
Načal’nyj
svod
(corpus
iniziale),
fu
in
un
primo
momento
erroneamente
identificato
come
il
nucleo
originario.
Nel
1113
si
operò
nel
Monastero
una
successiva
riorganizzazione
del
materiale
da
parte
del
monaco
Nestore
per
la
prima
volta
apportando
anche
delle
correzioni,
attribuendogli
il
nome
di
Cronaca
degli
anni
passati.
Il
corpus
nestoriano
non
si è
preservato
nella
sua
interezza
nel
tempo;
nel
1116
Vladimir
Monomach
incaricò
il
monaco
Sil’vestr,
priore
del
monastero,
di
una
nuova
redazione,
soprannominata
dagli
studiosi
“seconda
redazione”,
tramandata
attraverso
una
copia
che
costituisce
la
base
su
cui
è
stato
possibile
effettuare
studi.
Attraverso
manoscritti
di
altra
provenienza
è
stato
possibile
individuare
una
“terza
redazione”,
compilata
due
anni
dopo
quella
silvestriana
e
commissionata
dal
principie
Mstislav,
figlio
di
Vladimir
Monomach.
I
manoscritti
più
antichi
che
contengono
la
Cronaca
sono
il
Lavrent’evskij
(Lorenziano,
dal
nome
del
copista
Lavrentij,
Lorenzo),
del
1377,
e l’Ipat’evskij
(Ipaziano,
dal
monastero
di
Sant’Ipatij)
dell’inizio
del
XV
secolo;
nel
Lorenziano
è
contenuta
la
più
antica
copia
della
“seconda
redazione”
di
Sil’vestr.
Le
prime
informazioni
scritte
sui
monasteri
di
Kiev
risalgono
alla
prima
metà
dell’XI
secolo,
durante
il
principato
di
Jaroslav
Vladimirovič.
Nella
Povest’
vremennych
let
troviamo
la
notizia
della
fondazione
del
monastero
Pečerskij
nell’anno
6582,
secondo
il
calendario
bizantino
(1074
d.C.):
“В
этот
же
год
основана
была
церковь
Печерская
игуменом
Феодосием
и
епископом
Михаилом,
а
митрополит
Георгий
был
тогда
в
земле
Греческой,
Святослав
же в
Киеве
сидел”
(Quello
stesso
anno
fu
fondata
la
chiesa
del
[monastero]
Pečerskij
dall’igumeno
Feodosij
e
dal
vescovo
Michail;
il
metropolita
Giorgio
si
trovava
allora
in
Grecia;
Svjatoslav
risiedeva
a
Kiev.
Traduzione
di
Italia
Pia
Sbriziolo).
La
Kievo-Pečerskaja
Lavra
fu
il
primo
centro
religioso
fondato
invece,
secondo
Maria
Bylchova,
da
Antonij,
di
ritorno
da
un
lungo
soggiorno
sul
monte
Athos.
Il
monaco
s’insediò
nel
1051
in
una
grotta
nei
dintorni
di
Kiev
dove,
secondo
le
cronache,
avrebbe
operato
Ilarion
(Cfr.
Racconto
dei
tempi
passati.
Cronaca
russa
del
secolo
12.,Torino,
Einaudi,
1971,
p.
LXX).
Secondo
Dmitrij
Lichačëv
il
monastero
sarebbe
stato
fondato
da
Ilarion
negli
anni
in
cui
ricoprì
l’incarico
di
pop
nel
villaggio
di
Berestovo,
nei
cui
pressi
il
monaco
si
sarebbe
scavato
una
grotta
per
pregare
in
solitudine.
Quando,
nel
1051,
fu
nominato
metropolita
da
Jaroslav
nella
grotta
si
sarebbe
insediato,
su
consiglio
dello
stesso
Ilarion,
Antonij,
che
avrebbe
fondato
nei
pressi
del
Dnepr
il
monastero
(Cfr.
Racconto…
cit.,
p.
LXX).
Il
monastero
non
fu
soltanto
il
principale
centro
spirituale
della
Rus’,
ma
altresì
luogo
d’intensa
attività
letteraria:
al
suo
interno
furono
scritti
manuali
spirituali,
agiografie
e
cronache,
attraverso
cui
è
stato
possibile
recuperare
preziose
informazioni
sulla
vita
nella
Rus’.
Fu
una
sorta
di
laboratorio
d’edizione
dove
gli
amanuensi
copiavano
i
testi
epici
che
narravano
leggende
cristiane
o
gloriose
imprese
di
principi.
Puškin
nel
suo
Borìs
Godunòv
ci
ricorda
il
passaggio
di
consegne
da
un
monaco
all’altro:
“…descrivi,
senza
filosofare
astutamente,
tutto
ciò
di
cui
sarai
testimone
nella
vita:
la
guerra
e la
pace,
il
governo
dei
sovrani,
i
miracoli
dei
santi,
le
profezie
e i
segni
celesti”.
La
cronachistica
fu
il
genere
in
cui
si
riscontrano
chiaramente
le
influenze
erudite
bizantine;
ben
presto
furono
tradotte
in
slavo
le
cronache
di
Giovanni
Malalas
(o
Malala),
di
Giorgio
Sincello
e i
suoi
continuatori,
di
Giorgio
Monaco
detto
Amartolo.
Dall’altra
parte
anche
l’aspetto
leggendario
e
fiabesco
che
connotava
la
trattazione
dei
fatti
biblici
influenzò
il
nascente
stile,
così
dalla
letopis,
la
trattazione
rigorosamente
annalistica,
si
passò
alla
povest’,
da
cui
si
evince
un
forte
senso
di
appartenenza
alla
patria,
che
deriva
dalla
tradizione
poetica
della
družina,
anteriore
alla
letteratura
russa
scritta
e
dall’inconfondibile
pathos
patriottico
(Cfr.
Riccardo
Picchio,
La
letteratura…
cit.,
pp.
39-42).
Il
ricordo
degli
eventi
storici
nei
russi
assunse
il
connotato
eroico
e fu
indissolubilmente
legato
alla
rappresentazione
unitaria
delle
origini
della
storia
e
della
cultura
russe.
Le
cronache
erano,
inoltre,
l’espressione
della
potenza
divina,
supremo
ordine
sulla
vita
e
sul
destino
degli
uomini.
In
seguito,
nel
periodo
di
decadenza
della
Rus’,
a
questa
sorta
di
deus
ex
machina,
rappresentato
appunto
dalla
potenza
divina
nelle
cronache,
fu
contrapposto
il
paganesimo
del
genere
letterario
dello
Slovo,
in
cui
agli
uomini
era
permesso
essere,
essi
stessi,
artefici
del
proprio
destino;
così
come
si
può
riscontrare
nella
mitologia
nordica
dell’Edda
e in
quella
delle
origini
pagane
primordiali
della
Slavia
(Cfr.
Giovanni
Buttafava
e
Milli
Martinelli,
Storia
della
letteratura
russa,
vol.
I,
Milano,
Fabbri,
1969,
p.
17).
Proprio
al
monastero
Kievo-Pečerskij
è
legata
la
prima
produzione
della
cronachistica
russa;
è lì
che
ne
furono
sviluppati
anche
gli
aspetti
ideologici,
il
carattere
didascalico
e i
principi.
Ciò
ci
fa
meglio
comprendere
il
ruolo
politico
dei
monasteri
nell’antica
Rus’,
che
non
erano
isolati
luoghi
di
preghiera,
ma
rappresentavano
ognuno
un
diverso
orientamento
politico
all’interno
delle
lotte
feudali
del
tempo.
I
monasteri,
infatti,
erano
sotto
la
protezione
dei
principi
o di
ricche
famiglie,
da
cui
percepivano
ingenti
contributi.
Nello
specifico
il
monastero
Kievo-Pečersij
non
era
una
metropolia
sotto
la
protezione
dei
principi
di
Kiev,
ma,
al
contrario,
uno
dei
principali
centri
di
opposizione
sia
al
potere
del
patriarca
di
Costantinopoli,
che
a
quello
del
metropolita
greco
di
Kiev.
Nella
seconda
metà
dell’XI
secolo
il
monastero
rappresentò
una
sorta
di
guida
spirituale
della
tendenza
“russa-comune”,
in
contrapposizione
alla
Chiesa
greca,
che
si
era
manifestata
già
negli
anni
del
regno
di
Jaroslav
il
Saggio
(Cfr.
Racconto…
cit.,
p.
LXX.
Tale
contrapposizione
alla
Chiesa
greca
può
essere
accostata
alla
teoria
“normanna”
sull’origine
della
Rus’).
All’interno
del
genere
della
cronachistica
la
Povest’
vremennych
let
è,
come
abbiamo
già
accennato
sopra,
un
lavoro
collettivo
che
rimane
per
lo
più
anonimo,
nonostante
sia
stato
possibile
individuare
il
nome
di
alcuni
dei
cronisti;
al
più
famoso
di
loro,
Nestore
appunto,
secondo
un’erronea
interpretazione,
fu
attribuito
in
un
primo
momento
il
nucleo
primitivo
dell’opera.
La
critica
lo
riconosce
invece
oggi
come
il
più
importante
ordinatore
della
Povest’
vremennych
let.
La
cronaca
inizia
con
la
narrazione
del
diluvio
universale
e
delle
origini
della
stirpe
umana:
“Bot
повести
минувших
лет,
откуда
пошла
Русская
земля,
kto
b
киеве
стал
первым
княжить
и
kak
возникла
Русская
земля.Так
начнем
повесть
сию.
По
потопе
трое
сыновей
Ноя
разделили
землю
-
Сим,
Xaм,
Иaфeт”.
(Ecco
il
racconto
dei
tempi
passati:
da
dove
ha
avuto
origine
la
terra
russa,
chi
a
Kiev
cominciò
dapprima
a
regnare,
e da
dove
la
terra
russa
è
sorta.
Ecco,
cominciamo
questo
racconto.
Dopo
il
diluvio
i
tre
figli
di
Noè
–
Sem,
Cam
Jafet
– si
divisero
la
terra).
Si
tratta
dell’inequivocabile
tentativo
di
trovare
uno
spazio
per
il
popolo
russo
nella
storia
mondiale
e
“con
la
peculiare
attenzione
data
all’elemento
eroico,
alle
imprese
belliche,
alla
gloria
delle
armi
russe,
ci
trasferisce
in
una
sfera
poetica
epico-popolare
di
quella
storia
nazionale”
(Racconto…
cit.,
p.
XXX
).
Dopo
l’introduzione
il
cronista
passa
al
racconto
storico,
ordinato
secondo
un
rigido
schema
cronologico
di
articoli
per
anni,
di
cui
la
data
più
antica
è
l’anno
6360
(852
d.C.),
in
base
alle
indicazioni
fornite
da
alcune
cronache
bizantine.
Nella
Povest’
vremennych
let
trovano
spazio
poesia
epica
e
storia,
che
la
caratterizzano
nella
sua
natura
ambivalente
di
opera
letteraria
ed
espressione
del
pensiero
politico,
inteso
come
esegesi
dell’operato
dei
principi
regnanti.
Il
linguaggio
vigoroso
e
altisonante
utilizzato
dai
cronisti
non
è
frutto
d’invenzione,
ma
ricalca
fedelmente
i
discorsi
pronunciati
dai
principi
prima
di
ogni
battaglia
e
che
appartengono
alla
tradizione
dell’oratoria
bellica
russa:
“Святополк
же,
прогнав
Давыда,
стал
умышлять
на
Володаря
и
Василька,
говоря,
что
«это
волость
отца
моего
и
брата»;
и
пошел
на
них.
Услышав
это,
Володарь
и
Василько
пошли
против
него,
взяв
крест,
который
он
целовал
им
на
том,
что
«на
Давыда
пришел
я, а
с
вами
хочу
иметь
мир
и
любовь».
И
преступил
Святополк
крест,
надеясь
на
множество
своих
воинов.
И
встретились
в
поле
на
Рожни,
исполчились
обе
стороны,
и
Василько
поднял
крест,
сказав:
«Его
ты
целовал,
вот
сперва
отнял
ты
зрение
у
глаз
моих,
а
теперь
хочешь
взять
душу
мою.
Да
будет
между
нами
крест
этот!
».
И
двинулись
друг
на
друга
в
бой,
и
сошлись
полки,
и
многие
люди
благоверные
видели
крест,
высоко
поднятый
над
Васильковыми
воинами
(Ivi,
p.
156:
“Svjatopolk,
scacciato
Davyd,
cominciò
a
meditare
contro
Volodar’
e
contro
Vasil’ko,
dicendo
così:
«Questo
è il
potere
del
padre
mio
e
del
fratello»;
e
mosse
contro
di
loro.
Avendo
avuto
sentore
di
ciò,
Volodar’
e
Vasil’ko
[gli]
andarono
contro,
prendendo
la
croce
che
egli
aveva
baciato
con
loro
[dopo
aver
giurato]
su
questo:
«Sono
venuto
contro
Davyd
e
desidero
avere
con
voi
pace
ed
amicizia».
E
violò
Svjatopolk
[il
giuramento
del]la
croce,
facendo
assegnamento
sul
numero
dei
guerrieri.
E si
scontrarono
sul
Rožne
Pole,
schierati
ambedue
[gli
eserciti],
Vasil’ko
alzò
la
croce,
dicendo
così:
«Hai
baciato
questa,
ed
ecco
prima
hai
tolto
la
vista
ai
miei
occhi,
ed
ora
vuoi
prendere
anche
la
mia
anima.
Che
tra
noi
sia
la
croce».
E i
guerrieri
mossero
gli
uni
contro
gli
altri,
e
gli
eserciti
si
scontrarono,
e
molti
uomini
fedeli
videro
la
croce
al
di
sopra
dei
guerrieri
di
Vasil’ko”.
E
ancora:
“В
год
6479
[971].
Пришел
Святослав
в
Переяславец,
и
затворились
болгары
в
городе.
И
вышли
болгары
на
битву
со
Святославом,
и
была
сеча
велика,
и
стали
одолевать
болгары.
И
сказал
Святослав
своим
воинам:
«Здесь
нам
и
умереть;
постоим
же
мужественно,
братья
и
дружина!»
(Ivi,
p.
40:
“Anno
6479.
Giunse
Svjatoslav
a
Perejaslavec,
e si
rinchiusero
i
Bulgari
nella
città.
E
uscirono
i
Bulgari
per
combattere
Svjatoslav,
e vi
fu
una
mischia
grande,
e
vinsero
i
Bulgari.
E
disse
Svjatoslav
ai
guerrieri
suoi:
«Qui
ci è
destinato
morire;
moriamo
coraggiosamente
fratelli
e
družina!»).
Con
queste
parole
d’incoraggiamento
ai
suoi
uomini
Svjatoslav
ribalta
le
sorti
della
battaglia
e ne
esce
vittorioso
sui
Bulgari.
Il
tono
in
cui
il
principe
si
rivolge
ai
suoi
družinniki
è
espressione
della
sua
benevolenza
verso
di
loro
e
del
forte
legame
che
si
instaurava
tra
la
družina
e il
suo
condottiero:
“В
год
6551
[1043].
Послал
Ярослав
сына
своего
Владимира
на
греков
и
дал
ему
много
воинов,
а
воеводство
поручил
Вышате,
отцу
Яня.
И
отправился
Владимир
в
ладьях,
и
приплыл
к
Дунаю,
и
направился
к
Царьграду.
И
была
буря
велика,
и
разбила
корабли
русских,
и
княжеский
корабль
разбил
ветер,
и
взял
князя
в
корабль
Иван
Творимирич,
воевода
Ярослава.
Прочих
же
воинов
Владимировых,
числом
до
6000,
выбросило
на
берег,
и,
когда
они
захотели
было
пойти
на
Русь,
никто
не
пошел
с
ними
из
дружины
княжеской.
И
сказал
Вышата:
«Я
пойду
с
ними».
И
высадился
к
ним
с
корабля,
и
сказал:
"Если
буду
жив,
то с
ними,
если
погибну,
то с
дружиной
(Ivi,
p.
88:
“Anno
6551.
Inviò
Jaroslav
il
figlio
suo
Volodimir
contro
i
Greci,
e
dette
a
lui
molti
guerrieri,
e
affidò
il
comando
a
Vyšata,
padre
di
Jan.
E
mosse
Volodimir
con
le
navi,
e
giunsero
al
Danubio,
e
andarono
verso
Costantinopoli.
E vi
fu
una
tempesta
grande,
e
distrusse
le
navi
dei
Russi;
e la
nave
del
principe
distrusse
il
vento,
e
accolse
il
principe
sulla
nave
Ivan
Tvorimirič,
voevoda
di
Jaroslav.
I
rimanenti
guerrieri
di
Volodimir
furono
gettati
sulla
riva,
in
numero
di
seimila,
a
avrebbero
voluto
tornare
nella
Rus’,
e
non
andò
nessuno
con
loro
della
družina
del
principe.
E
disse
Vyšata:
«Io
andrò
con
loro».
E
scese
dalla
nave
[e
andò]
da
loro,
e
disse:
«Se
vivrò
sarò
con
loro,
se
morirò
[sarò]
con
la
družina»).
Brevità,
chiarezza
ed
enfasi
si
ritrovano
all’interno
della
Povest’
vremennych
let
anche
nei
discorsi
pronunciati
nelle
riunioni
del
veče.
Il
veče
(in
antico
russo:
вѣче,
in
russo
moderno:
вече,
in
polacco:
wiec,
in
ucraino:
віче)
era
un'assemblea
popolare
tipica
dei
paesi
slavi
nel
Medioevo,
spesso
ritenuta
una
delle
prime
forme
di
parlamento.
La
parola
deriva
da
una
radice
protoslava
*vēt-
che
significa
"consiglio"
o
"discussione"
(rappresentata
anche
nella
parola
“soviet”).
La
derivazione
semantica
che
rende
il
significato
della
parola
è
simile
a
quella
di
parlamento.
Si
ritiene
che
il
veče
degli
slavi
orientali
abbia
avuto
origine
dalle
assemblee
tribali
dell'Europa
orientale,
che
in
quel
tempo
depredavano
periodicamente
la
Rus'
di
Kiev.
Non
è
altresì
chiaro
se
fu
uno
sviluppo
puramente
slavo,
o si
basò
sul
modello
del
Thing
variago.
Pare
che
l'autorità
del
veče
sia
stata
più
forte
nelle
città
settentrionali.
I
primi
esempi
di
veče
nelle
cronache
russe
si
riferiscono
agli
esempi
di
Belgorod
nel
997,
di
Velikij
Novgorod
nel
1016
e di
Kiev
nel
1068.
Queste
assemblee
discutevano
questioni
di
pace
e di
guerra,
adottavano
leggi
e
chiamavano
ed
espellevano
dei
cosiddetti
"principi
governatori".
A
Kiev
il
veče
si
teneva
di
fronte
alla
cattedrale
di
Santa
Sofia.
Il
linguaggio
degli
ambasciatori
che
si
ritrova
nella
Cronaca
di
Nestore
è,
al
contrario,
complesso
e
articolato,
senza
l’utilizzo
di
forme
stereotipate
o
tradizionali.
Nelle
cronache
in
generale
un
alto
esempio
di
oratoria
si
può
riscontrare
nei
discorsi
in
occasione
delle
trizny
funebri,
uno
dei
momenti
della
vita
sociale
in
cui
si
rendeva
necessario
l’utilizzo
di
una
lingua
colta.
L’ustnaja
literaturnaja
reč
(discorso
letterario
orale)
è
utilizzata
nella
Povest’
vremennych
let
principalmente
nel
discorso
diretto,
anche
se
nella
descrizione
degli
avvenimenti
storici
il
cronista
si
avvale
spesso
di
immagini
artistiche,
che
appartenevano
più
alla
tradizione
orale
che
a
quella
scritta.
Un
largo
utilizzo
è
fatto
della
terminologia
specializzata:
militare,
feudale,
giuridica
e
venatoria,
accompagnata
da
espressioni
popolari
come:
взял
город
приступом,
“prese
la
città
con
la
lancia”,
nel
senso
di
“prendere
d’assalto
la
città”;
утер
пот
с
дружиною
своею,
“si
deterse
il
sudore
con
la
sua
družina”,
per
“far
ritorno
in
patria
vittorioso”,
a
riprova
del
fatto
che
la
lingua
parlata
ebbe
una
grande
influenza
sui
cronisti
dell’epoca
(Ivi,
p.
XXXV).
Nell’anno
6370
(862
d.C.)
si
narra
la
storia
della
fondazione
di
Kiev
per
opera
dei
tre
fratelli:
i
principi
Kij,
Sček,
Choriv
e
della
loro
sorella
Lybed’:
“И
спросили:
"Чей
это
городок?".
Те
же
ответили:
"Были
три
брата"
Кий
Щек
и
Хорив,
которые
построили
городок
этот
и
сгинули,
а мы
тут
сидим,
их
потомки,
и
платим
дань
хазарам".
Dal
nome
Kij
molto
probabilmente
deriva
il
nome
Kiev.
La
leggenda
della
fondazione
della
città
si
ritrova
in
uno
scritto
dello
storico
armeno
Zenobio
da
Glak
(o
Clag)
del
VIII
secolo
ed è
una
delle
tante
leggende
che
la
Povest’
vremennych
let
ci
ha
tramandato
insieme
ad
altre
forme
della
tradizione
orale
(Ivi,
p.
XVI).
Lichačëv
sottolinea
che:
“questi
racconti,
non
esatti
cronologicamente,
come
del
resto
tutto
ciò
che
si
tramanda
per
ricordo,
recano
tracce
di
motivi
fiabeschi
e
non
sono
esenti
da
attestazioni
poco
veridiche;
eroicizzano
questa
stirpe,
ne
sottolineano
la
ponderatezza
dimostrata
nel
disgregamento
generale
delle
forze
dello
stato
di
Kiev,
e la
vicinanza
alla
stirpe
dei
principi
kieviani”
(Ivi,
p.
XIX
).
Il
primo
quesito
che
gli
studiosi
si
sono
posti
nell’analisi
della
Povest’
vremennych
let
riguarda
la
giusta
attribuzione
del
termine
“letteratura”
all’opera;
d’altra
parte
quello
del
valore
letterario
è un
problema
comune
a
tutti
i
testi
scritti
nell’ambito
della
letteratura
slava
ortodossa
medievale.
Il
filologo
italiano
Riccardo
Picchio
ritiene
che
i
testi
antichi
opera
di
scrittori
religiosi
di
stretta
obbedienza
cristiano-ortodossa
avessero
il
dovere
di
comunicare
il
“vero”
(Cfr.
Cesare
G.
De
Michelis,
Realismo
socialista,
veridicità
e
letteratura
russa
antica,
in
“Europa
Orientalis”,
7,
1988,
pp.
185-197.
De
Michelis
paragona
il
concetto
di
verità
negli
scrittori
della
Rus’
e in
quelli
del
realismo
socialista;
le
stesse
parole
utilizzate
sono
diverse
si
parla
di
istina
(истина)
per
gli
autori
medievali
e di
pravda
(правда)
per
gli
scrittori
del
realismo
socialista).
Si
allontanavano
perciò
dai
canoni
della
letterarietà
(literaturnost’),
presenti
invece
nella
fictio,
che
ancora
oggi
rappresenta
quel
modo
di
scrivere
con
l’intento
di
valorizzare
l’espressione
artistica
dell’immaginazione
umana
(Cfr.
Riccardo
Picchio,
Levels
of
meaning
in
old
Russian
literature,
in
American
contributions
to
the
ninth
international
congress
of
slavists,
Kiev
September
1983,
vol.
II,
a
cura
di
P.
Debreczeny,
Columbus,
Ohio
1983,
pp.
358-370).
I
testi
antichi
slavi,
al
contrario,
avevano
uno
scopo
di
tipo
pratico-informativo
e
ciò
ha
aperto
un
dibattito
tra
gli
studiosi
riguardo
alla
“natura”
dei
fenomeni
letterari
agli
albori
della
cultura
slava,
ovvero
se
tali
testi
debbano
essere
studiati
solo
come
importante
testimonianza
della
loro
ambientazione
storico-culturale
o
come
espressione
artistico-letteraria
(Cfr.
Riccardo
Picchio,
Letteratura…
cit.,
p. 9
e V.
Dmitrij
Sergeevič
Lichačëv,
Poetica
della
letteratura
russa
antica
(Poètika
drevnerusskoj
literatury)
e
Tekstologija.
Na
materiale
russkoj
literatury
X-XVII
vv.,
Mosca-Leningrado,
1962).
Una
delle
ipotesi
più
accreditate
tra
gli
studiosi
è
che
i
bagatyri
servissero
a
risvegliare
un
ideale
di
dignità
patria
nei
periodi
di
sottomissione
allo
straniero
e
che
rappresentassero
la
russificazione
di
alcuni
simboli
eroici
comuni
a
diversi
popoli
(Cfr.
A.M.
Astachova,
Byliny,
itogi
i
problemy
izučenija,
Mosca-Leningrado,
1966,
pp.
6-20).
Lo
slavo
ecclesiastico,
veicolo
della
cristianità,
però,
non
offrì
la
possibilità
del
riconoscimento
da
parte
dei
vari
popoli
di
un’identità
panslava.
Ciò
fu
dovuto
soprattutto
al
fatto
che
le
varie
etnie
tra
i
secoli
X-XVI,
se
pur
accomunate
dal
rito
cristiano
ortodosso,
non
dimostrarono
un
senso
di
appartenenza
al
mondo
slavo,
ma
piuttosto
un
forte
sentimento
etnico-nazionale
(Cfr.
Marco
Clementi,
Per
una
genealogia
dell’Europa
orientale,
ovvero
la
Slavia
eterodossa,
Cosenza,
Periferia,
2001,
pp.
6-11).
Marco
Clementi
ritiene
che
“il
mondo
ecumenico
cristiano,
in
altre
parole,
conteneva
tout-court
quella
Slavia
composta,
a
sua
volta,
da
singole
comunità
nazionali,
tutte
tra
loro
ben
distinte
per
storia,
tradizione,
vita
politica,
forma
statale
e
aspirazioni
nazionali,
a
loro
volta
idealmente
unite
in
quel
medesimo
riparo
confessionale”
(Ivi,
p.
9).
L’area
politico-geografica
venutasi
a
formare
e
identificata
come
Slavia
era
sì
ortodossa,
come
sostiene
Picchio,
ma
allo
stesso
modo
“eterodossa”,
seguendo
il
pensiero
di
Clementi.
Picchio
è
dell’opinione
che
“si
può
certo
pensare
che
già
Nestore
conoscesse
canzoni
o
leggende
o
starom
Vladimire
e
o
starom
Jaroslave,
dove
vecchio
starebbe
ad
indicare
topicamente
l’inserimento
di
una
tradizione
già
allora
condizionante”,
e si
può
anche
non
giudicare
totalmente
infondata
l’opinione
di
Daškevič,
secondo
cui
la
cronaca
orale
(ustnaja
letopis’),
in
virtù
del
suo
significato
panpopolare-nazionale
(po
svoemu
obščenarodnomu
značeniju)
non
sia
inferiore
a
quella
contenuta
nei
libri,
poiché
la
Cronaca
iniziale
trasmetteva
la
verità
della
vita,
laddove
la
cronaca
d’epopea
orale
(letopis’
bylevaja)
esprimeva
per
di
più
la
verità
della
creazione
e
quella
d’una
concezione
morale
(Cfr.
Riccardo
Picchio,
Letteratura…
cit.,
pp.
92-93;
cfr.
inoltre
N.
Daškevič,
K
voprosu
o
proischoždenii
russkich
bylin.
Byliny
ob
Aleše
Popoviče
i o
tom,
kak
ne
ostalos’
na
Rusi
bogatyrej,
Kiev,
1883,
pp.
2-4).
La
stessa
Povest’
vremennych
let
distingue
tra
Ruotsi
e
Slavi¸
con
questi
ultimi
si
voleva
intendere
la
popolazione
autoctona,
nel
tentativo
di
distinguerla
dalla
minoranza
straniera
al
potere.
Secondo
la
Povest’
i
Variaghi,
genti
normanne
che
migrarono
dalla
Svezia
verso
Oriente,
giunsero
in
Russia
nel
IX
secolo
attraverso
il
mar
Baltico
su
richiesta
delle
locali
tribù
per
pacificare
l’aerea.
Sempre
secondo
la
leggenda,
Rjurik,
a
capo
dei
Variaghi,
elesse
come
sua
residenza
Novgorod
(Riccardo
Picchio,
La
letteratura…
cit.,
p.
17:
“Su
questo
problema
la
storiografia
moderna
è
stata
e
rimane
divisa.
I
cosiddetti
“normannisti”
insistono
sulle
origini
nordiche
della
Rus”,
mentre
gli
“antinormannisti”
vedono,
nella
formazione
del
primo
grande
complesso
politico
slavo
orientale,
il
prodotto
di
energie
locali,
influenzate
solo
superficialmente
dal
contributo
di
guerrieri
varjaghi”).
Controversa
è la
teoria
secondo
cui
il
ceppo
scandinavo-normanno
dei
Variaghi
si
stanziò
nella
regione
della
Rus’,
che
comprendeva
i
territori
a
sud
di
Kiev
fino
quasi
al
lago
Ladoga,
alla
fine
del
IX
secolo
(se
ne
parla
nella
leggenda
dell’invito
a
governare
rivolto
al
principe
Rjurik
dagli
Slavi
discordi).
Che
l’organizzazione
politica
e
che,
forse,
lo
stesso
nome
Rus’
potrebbe,
perciò,
derivare
dai
Variaghi
non
è
stato
ancora
scientificamente
accertato
(Cfr.
Giovanni
Buttafava
e
Milli
Martinelli,
Storia…
cit.,
pp.
11-20).
Lichačëv
ritiene
che
la
leggenda
dell’invito
dei
Variaghi
si
sia
formata
nel
tempo
e
per
gradi
al
semplice
scopo
di
sedare
le
lotte
per
la
successione
iniziate
al
tempo
dei
figli
di
Jaroslav
il
Saggio:
l’idea
di
essere
tutti
discendenti
da
uno
stesso
avo
avrebbe
dovuto
impedire
la
guerra
tra
principi.
Far
derivare
le
stirpi
slave
orientali
dalla
Scandinavia
significava
poi
allontanarle
ideologicamente
dal
potere
temporale
di
Costantinopoli
e fu
deciso,
nel
rispetto
della
tradizione
storiografica
medievale,
di
trovare
una
stirpe
“illustre”
straniera
per
fondare
la
Rus’
(Cfr.
Racconto…
cit.,
pp.
XCVI-XCVIII).
Con
la
conversione
del
principe
Vladimir
e
dei
suoi
sudditi
nel
988
al
Cristianesimo
ortodosso
ci
fu
un
cambiamento
culturale
significativo
e il
nuovo
Stato,
la
Rus’,
fu
caratterizzata
da
una
connotazione
spirituale
oltre
che
politica.
In
seguito
arrivò
la
pratica
della
conservazione
della
memoria
attraverso
la
scrittura
e
non
più
solo
la
parola;
la
lingua
utilizzata
non
fu
l’idioma
comune
agli
Slavi
orientali,
ma
divenne
lingua
ufficiale
ecclesiastica
un
dialetto
meridionale,
importato
dagli
evangelizzatori
Costantino
(o
Cirillo)
e
Metodio,
che
si
erano
serviti
di
questo
dialetto
per
la
cristianizzazione
di
queste
nuove
terre.
È
proprio
questo
utilizzo
a
scopi
di
conversione,
oltre
all’isolamento
storico
della
Rus’,
che
ha
causato
una
certa
immobilità
della
letteratura
antico
russa
nel
Medioevo.
È
necessario
sottolineare
uno
sviluppo
della
produzione
orale,
in
parallelo
ai
testi
rituali
di
matrice
religiosa,
che
traeva
spunto
dalla
mitologia
slava
precristiana.
Sono
stati
riscontrati
dagli
studiosi
contaminazioni
e
scambi
tra
i
due
generi
letterari,
che
hanno
portato
a
una
progressiva
“corruzione”
del
paleoslavo
attraverso
la
lingua
volgare
e,
viceversa,
a
una
poesia
popolare
che
si è
avvalsa
di
formule
stereotipate
prese
in
prestito
dai
testi
religiosi.
Il
risultato
fu,
“una
cultura
generalmente
solitaria
e un
po’
mummificata
nei
risultati,
ma
in
possesso
di
una
interna
vitalità
che
qua
emerge
in
una
sconcertante
isolata
epopea,
là
ispira
liricamente
pedanti
cronisti
o
anonimi
cantastorie,
là
ancora
si
accende
in
improvvisi
sfoghi
umani”
(Giovanni
Buttafava
e
Milli
Martinelli,
Storia…
cit.,
p.
12).
Nello
specifico,
analizzando
la
Cronaca
di
Nestore,
affiora
un
particolare
interessante
dal
punto
di
vista
storico:
la
conferma
che
i
rapporti
con
l’Occidente
cattolico,
già
a
quei
tempi,
non
furano
improntati
alla
sfiducia
e
all’ostilità;
ne è
prova
il
fatto
che
la
Boemia
fosse
il
paese
con
cui
i
rapporti
erano
più
frequenti.
Gli
studiosi
hanno
riscontrato
che
nella
Čtenie
di
Nestore
ci
sono
chiare
influenze
della
leggenda
latina
su
San
Venceslao
boemo
e
che,
nel
1095,
nel
monastero
boemo
di
Savana
fu
consacrato
un
altare
con
le
immagini
di
Boris
e
Gleb;
lo
stesso
testo
di
Nestore
considera
importante
il
culto
delle
icone
dei
due
santi.
Il
culto
di
Boris
e
Gleb
ha
acquisito
indubbiamente
una
particolare
valenza
simbolica
per
l’identità
slava
in
senso
lato
(Riccardo
Picchio,
La
letteratura…
cit.,,
p.
59).
I
maggiori
meriti
delle
indagini
moderne
sul
testo
stanno
nell’aver
delineato
l’estensione
temporale
della
Cronaca
tra
i
secoli
XI-XII
e
nell’aver
stabilito
che
si
tratta
di
un’opera
di
sintesi
attribuendole
un
titolo
che
deriva
direttamente
dalla
sua
tradizione.
La
Cronaca
di
Nestore
è il
miglior
esempio
di
letteratura
religiosa
appartenente
al
periodo
della
Rus’
kieviana,
e
rappresenta,
allo
stesso
tempo,
una
preziosissima
fonte
per
lo
studio
della
Slavia
ortodossa
in
generale.
Le
sue
caratteristiche
stilistiche
sono
principalmente
la
versatilità,
l’armonizzazione
di
diverse
narrazioni
e
l’originalità.
Al
suo
interno
troviamo
racconti
epici,
documenti
diplomatici,
descrizioni
geografiche
che
ancora
“conservano
la
struttura
scientifica
della
trattatistica
greca”,
leggende
di
santi,
storie
di
vita
monasteriale,
battaglie
che
quasi
anticipano
il
poema
cavalleresco.
Picchio
azzarda
a
dire
che
può
essere
considerata
più
un’antologia
che
una
storia
(Ivi,
p.
69).
Nel
testo
sono
presenti
documenti
che
risalgono
al
periodo
precedente
alla
cristianizzazione,
si
tratta
degli
accordi
conclusi
da
Oleg
e
Igor’
con
Bisanzio
rispettivamente
nel
911
e
nel
944;
sono
presenti
inoltre
alcuni
racconti
bellici
ispirati
alla
tradizione
orale.
Altri
ancora
furono
molto
probabilmente
raccontati
al
cronista
da
personaggi
storici
dell’XI
secolo,
come
gli
episodi
di
Vyšata
e di
suo
figlio
Jan.
Nelle
trattazioni
di
fatti
relativi
ai
principi
varjaghi
si
riscontrano
chiaramente
delle
influenze
nordiche,
come
negli
episodi
della
morte
di
Oleg
o
della
vendetta
di
Olga.
Nella
Povest’
vremennych
let
il
lettore
contemporaneo
percepisce
un
approccio
epico
alla
storia
patria;
il
cronista,
nel
tentativo
di
donare
al
popolo
russo
la
glorificazione
della
sua
storia,
ne
esalta
le
vicende
principali
come
un
cantore
epico,
ma,
allo
stesso
tempo,
le
rielabora
servendosi
di
una
nuova
concezione
storica
tipica
della
società
medievale,
che
utilizzò
la
cronachistica
per
plasmare
l’epos
a
immagine
e
somiglianza
della
famiglia
regnante.
La
Povest’
vremennych
let
va
letta,
sotto
quest’ottica,
piuttosto
come
espressione
del
pensiero
politico
dei
frammentati
centri
feudali
in
terra
russa,
che
la
sfruttarono
per
istaurare
una
tradizione
cronachistica
locale.