N. 113 - Maggio 2017
(CXLIV)
L'era della "post-verità"
L'arte della menzogna ereditata dal passato e
divenuta verità
di Norberto Soldano
Circola,
con
frequenza
indiscussa,
nel
dibattito
pubblico
e
nei
canali
divenuti
multimediali
dell’informazione,
un
affascinante
neologismo
dall’inedito
significato
e
caratterizzato
anch’esso,
come
tante
nuove
voci
che
hanno,
di
recente,
fatto
la
loro
comparsa
nel
linguaggio
della
comunicazione,
dal
prefisso
‘post’:
il
fatidico
vocabolo
è
“post-verità”.
Cos’è
la
post-verità?
L’Enciclopedia
Treccani
ci
offre
una
succinta,
ma
precisa
definizione:
“la
post-verità
è
un’argomentazione,
caratterizzata
da
un
forte
appello
all'emotività,
che
basandosi
su
credenze
diffuse
e
non
su
fatti
verificati
tende
a
essere
accettata
come
veritiera,
influenzando
l'opinione
pubblica”.
Per
dirla
à la
John Searle,
la
post-verità
è, a
tutti
gli
effetti,
un
“fatto
istituzionale”,
un
prodotto
dell’attività
creativa
dell’uomo,
collettivamente
condiviso
in
un
determinato
contesto
sociale.
L’intenzionalità
collettiva
è la
condizione
necessaria
di
esistenza
della
post-verità.
Nel
nostro
preliminare
intento
di
ricostruzione
semantica,
si
rivelerà
prezioso
il
contributo,
offerto
da
Marco
Biffi,
Viviamo
nell’epoca
della
postverità?
reso
noto
sulla
piattaforma
online
de l’Accademia
della
Crusca:
«il
lessema “post-verità” è
esploso
nella
nostra
lingua
a
seguito
della
Brexit
e
più
recentemente
delle
elezioni
americane
vinte
da
Donald
Trump:
al
22
novembre
2016,
ricercando
con Google sulle
pagine
italiane
del
web,
si
contavano
oltre
30.000
risultati.
La
frequenza
d’uso
di “post-verità” è
destinata
a
crescere,
data
la
decisione
degli Oxford
Dictionaries di
eleggerla
parola
dell’anno
per
il
2016».
Il
termine
ha
fatto
il
giro
del
mondo
nel
giro
di
poche
settimane.
Lo
si
pronuncia
quotidianamente
con
estrema
solerzia.
È la
parola
in
voga
del
momento.
Ne
fanno
un
abbondante
utilizzo
i
giornali
inglesi
e
americani
soprattutto,
capofila
il
New
York
Times.
Anche
in
Italia
la
post-truth
ha
riscontrato
grande
successo.
Nella
prima
puntata
domenicale
del
2017,
Lucia
Annunziata
su
Rai
3,
durante
la
trasmissione
In
mezz’ora,
ha
dialogato
sul
tema
con
due
autorevoli
giornalisti
italiani:
Enrico
Mentana,
direttore
del
Tg
La7
e
Francesco
Merlo,
prestigiosa
firma
de
La
Repubblica.
Nel
corso
della
trasmissione,
la
nota
giornalista
e
conduttrice
italiana
definì
la
post-verità
come
la
“fine
della
verità”,
mentre
il
direttore
del
Tg
La7
volle
porre
in
rilievo,
in
codesta
sede,
quanto
la
post-verità
fosse
una
vera
e
propria
risposta
dell’opinione
pubblica,
diretta
conseguenza
della
mancata
accettazione
della
verità,
nonché
della
complessiva
crisi
che
investe,
da
un
paio
d’anni
orsono,
il
mondo
dell’editoria.
Gianni
Riotta
in
un
articolo
intitolato
I
fatti
non
contano
più:
è
l’epoca
della
‘postverità’
su
La
Stampa
è
stato
molto
critico:
«‘Ex
falso
sequitur
quodlibet’,
dal
falso
deriva
ogni
cosa
in
modo
indifferente:
la
massima
medievale
anticipa
l’era
della
post-verità,
un
solo
1%
di
falso
basta
a
rendere
poco
attendibile
il
99%
di
vero».
Alquanto
scettico
si è
mostrato
anche
il
filosofo
Massimo
Cacciari
in
una
sua
accurata
analisi
intitolata
Stampa
e
opinione
pubblica,
ci
resta
solo
la
postverità
sul
settimanale
L’Espresso:
«dunque,
con
essa
siamo
destinati
a
rimanere
nel
disordine
attuale.
Esso
si
riflette
altrettanto
chiaramente
nel
magma
senza
senso
e
senza
fine
di
informazioni,
pseudo-comunicazioni,
scatenamento
di
pulsioni,
nella
cui
rete
oggi
viviamo,
nella
chiacchiera
babelica
in
cui
è
caduta
la
politica
occidentale
da
quando
è
venuto
meno
l’ordine
dettato
dai
due
titani
vincitori
dell’ultima
guerra.
Specchio
di
disordine
di
idee
e
foriera
di
colossali
errori».
Ricorderete
tutti
anche
le
parole
conclusive
del
discorso
dimissionario
dell’ex
Presidente
del
Consiglio,
Matteo
Renzi,
nella
lunga
notte
del
4
dicembre:
«ora
per
me è
il
tempo
di
rimettersi
in
cammino,
ma
vi
chiedo
nell’era
della
post-verità,
nell’era
in
cui
in
tanti
nascondono
quella
che
è la
realtà
dei
fatti,
di
essere
fedeli
e
degni
interpreti
della
missione
importante
che
voi
avete
e
per
la
vostra
laica
vocazione».
Secondo
quali
presupposti,
viene
definita
la
nostra,
come
l’era
della
‘post-verità’?
Di
contro,
vi è
mai
stata
per
caso
in
passato
l’era
della
‘verità’?
Sembra
che
nulla
ci
abbia
insegnato
la
storia.
La
secolare
tradizione
antisemita
che
accusava
gli
ebrei
di
aver
condannato
a
morte
Gesù,
senza
elementi
storici
sufficienti
per
provarlo,
cos’era
se
non
una
post-verità?
La
recente
esperienza
nazista
con
i
suoi
manifesti
e
tanto
sbandierati
studi
scientifici
sulla
razza?
L’esperienza
romana
dovrebbe
farci
da
spia.
Quante
volte
nell’antica
Roma
si è
ricorsi
alla
manipolazione
della
verità,
all’arte
della
menzogna,
alla
cosiddetta
“lingua
di
Satana”
mescolando
al
vero
quella
puntina
di
falso
necessaria
per
vincere
le
sanguinose
guerre
per
il
potere?
Il
suggestivo
motto
dei
crociati
“Dio
lo
vuole”
inculcato
nell’animo
di
giovani
cavalieri
e
soldati
cristiani
in
partenza
per
la
Terra
Santa
con
il
solo
scopo
di
trucidare
impietosamente
i
musulmani?
Le
pedisseque
prediche
dei
parroci,
arruolati
dalla
Democrazia
Cristiana,
con
i
loro
giornalieri
e
logorroici
aneddoti
sui
bambini
divorati
dai
comunisti?
E le
pesanti
provocazioni
lanciate
da
Silvio
Berlusconi
ai
magistrati?
Dalle
sottintese
risposte
ai
nostri
interrogativi
si
ricava
un
dato
di
fatto,
chiaro
ed
incontrovertibile:
la
post-verità
non
è
nata
negli
ultimi
scorci
del
2016
ed
ha
alle
sue
spalle,
come
ogni
fenomeno
che
si
rispetti,
una
articolata
genealogia
che
indubbiamente
merita
di
essere
ripercorsa.
Nelle
vicende
politiche
della
Grecia
antica
la
post-verità
era
uno
strumento
formidabile
per
l’eliminazione
dei
propri
avversari
politici.
Vi
dice
niente
il
fenomeno
dell’ostracismo?
Maurizio Bettini,
nel
2002,
in
una
riflessione
storica
intitolata
Seimila
voti
ed
era
subito
ostracismo
su
La
Repubblica
ce
ne
offre
uno
spaccato
significativo.
«Il
nome
viene
da
un
oggetto
umile,
un
pezzo
di
coccio,
che
in
greco
si
chiamava
appunto
‘ostrakon’.
In
tutto
il
mondo
antico
i
cocci
veniva
usati
come
materiale
di
scrittura,
ma
ad
Atene
li
si
usava
in
particolare
per
scriverci
sopra
il
nome
del
malcapitato
che
l'assemblea
si
apprestava
ad
allontanare
dalla
città.
Di
questi
‘ostraka’
ateniesi
gli
scavi
archeologici
ce
ne
hanno
restituiti
un
gran
numero:
vi
si
può
leggere
ancora
il
nome
di
Santippe,
padre
di
Pericle,
o
quello
di
Temistocle,
e la
cosa
fa
una
certa
impressione.
Sull'ostracismo
giravano
anche
numerosi
aneddoti
e
racconti,
ma
il
più
noto
è
senz'
altro
il
seguente.
Si
trattava
di
votare
se
ostracizzare
o
meno
Aristide,
noto
uomo
politico
ateniese
soprannominato
‘il
Giusto’.
Dunque
quel
giorno
lo
stesso
Aristide
sedeva
disciplinatamente
in
assemblea
come
tutti
gli
altri,
quando
il
suo
vicino,
che
era
analfabeta,
gli
chiese
se
per
favore
poteva
scrivergli
il
nome
“Aristide”
sul
suo ostrakon.
Non
lo
aveva
riconosciuto,
evidentemente.
Aristide
si
stupì,
e
gli
chiese
se
questo
Aristide
gli
avesse
fatto
qualcosa
di
male.
“Non
mi
ha
fatto
niente”
rispose
l'altro
“non
lo
conosco
neppure,
ma
sono
stufo
di
sentire
ripetere
da
tutti
che
è un
uomo
giusto”.
Aristide
non
replicò,
scrisse
il
proprio
nome
sul
coccio
e lo
riconsegnò
al
vicino.
Fu
condannato
e
lasciò
Atene
chiedendo
agli
dei
che
la
città
non
dovesse
mai
trovarsi
in
un
frangente
tale
da
essere
costretta
a
richiamarlo
indietro».
La
post-verità
nasce
dal
rifiuto
di
quella
verità
connotata
dagli
schemi
stereotipati
e
individuabile
mediante
i
criteri
tradizionali.
Definire
le
popolazioni
slave
“subumane”
era
una
post-verità
novecentesca?
Additare
i
saraceni
come
nemici
di
Dio
costituiva
una
post-verità
medievale?
Il
concetto
medesimo
di
post-verità
è
figlio
del
passato.
Inutile
negarlo,
è un
retaggio
storico
consolidatosi,
è
l’arte
della
menzogna
e
della
manipolazione
divenuta
viscida
professione
nella
società
postmoderna.
È
espressione
di
una
società
in
cui
i
confini
fra
gli
Stati
sono
stati
travolti
dalla
globalizzazione,
le
frontiere
sono
cadute
sotto
i
colpi
di
mortaio
delle
migrazioni,
segnata
dal
crollo
delle
ideologie,
dalla
messa
in
crisi
di
valori
ed
istituzioni
millenarie,
quali
ad
esempio
la
famiglia.
È la
cartina
al
tornasole
del
disorientamento
generale
e
contagioso
avvertito,
come
non
mai,
dalla
società
postmoderna.
Una
società
in
cui
il
dubbio
sembra
costantemente
prevalere
sulla
certezza.
L’aleatorietà
sulle
solide
garanzie.
I
giochi
di
borsa
sull’economia
reale.
L’esistenza
umana
sembra
ridursi
a
cronaca,
a
mera
narrazione.
Non
c’è
spesso
un
fondamento
ontologico
nella
nostra
routine.
Sintomo
di
tale
spontaneità
sono
le
“storie”
di
Instagram,
le
“dirette”
di
Facebook
e
tanti
altri
artefici
dei
social networks
che
tanto
divertono,
quasi
appassionano,
gli
affezionati
utenti.
La
nostra
è
l’era
della
‘post-verità’,
possiamo
proclamarlo
con
certezza,
a
ragion
veduta,
in
virtù
del
fatto
che
nel
nostro
dinamico
presente,
suscettibile
senza
sosta
di
inattesi
sviluppi,
come
non
mai
verificatosi
nel
corso
della
storia,
la
società
è
dichiaratamente
disposta
ad
accoglierla
favorevolmente
nelle
proprie
tiepide
case.
Terreno
fertile
e
fecondo
per
l’affermazione
della
post-verità
sono
senz’altro
la
superficialità
con
la
quale
i
cittadini
si
approcciano
alle
vicende
di
politiche,
la
velocità
con
la
quale
le
stesse
news
scorrono
nel
nostro
mondo
nonché
la
pluralità
di
attori
presenti
sulla
scena
politica
e
nel
panorama
dell’informazione.
In
pochi
sono
coloro
che
approfondiscono.
I
lettori
e i
telespettatori,
spesso
inadeguatamente
preparati,
quando
leggono
i
titoli
dei
quotidiani
e
assistono
ai
programmi
televisivi
sono,
infatti,
bersaglio
facile
e
prede
ideali
di
chi
intende
manipolare
il
sistema
mediatico
perseguendo
i
propri
interessi
influenzando
l’opinione
pubblica.
Il
confronto
politico
si è
impoverito
notevolmente
negli
ultimi
anni,
vedendosi
ormai
ridotto
a
reciproco
scambio
di
insulti
e
presunte
irresponsabilità
spesso
spudoratamente
infondate.
La
democrazia
“rappresentativa”
è in
crisi:
i
nuovi
modelli
di
democrazia
“partecipativa”
sembrano
profilarsi
all’orizzonte
per
la
grande
gioia
delle
tecnocrazie
comunitarie.
Il
cittadino,
ignaro
di
ciò,
perde
quotidianamente
il
proprio
peso,
la
propria
forza
politica,
la
capacità
di
incidere
nei
confronti
delle
istituzioni.
Il
crepuscolo
dei
partiti
di
massa
presenta
oggi
il
caro
prezzo
da
pagare.
Quest’ultimo
nefasto
presagio
turbava
il
sonno
di
intellettuali
e
statisti
già
nel
secolo
scorso.
Enrico
Berlinguer
si
era
profeticamente
pronunciato
sulla
questione
in
una
famosa
intervista
rilasciata
a
Ferdinando
Adornato
nel
lontano
1983:
“certo,
si
può
immaginare
un
mondo
nel
quale
la
politica
si
riduca
solo
al
voto
e ai
sondaggi;
ma
tutto
questo
sarebbe
inaccettabile,
perché
significherebbe
stravolgere
l’essenza
della
vita
democratica…”.
La
capillare
e
rapida
diffusione
delle
notizie
ha
raggiunto
oggi
livelli
inimmaginabili
nel
passato.
Già
Karl Marx,
nel
1848,
faceva
notare
che
se
“ai
cittadini
del
Medioevo
con
le
loro
strade
di
campagna
occorsero
dei
secoli
per
realizzare
l’unione,
i
proletari
moderni,
utilizzando
le
ferrovie,
la
raggiungono
in
pochi
anni”.
Oggi
l’unione,
ovviamente
spogliata
dalla
retorica
e
dall’accezione
marxista,
è
alla
portata
di
un
comodo
“touch”
sulle
chat
di
WhatsApp.
L’avvento
di
Internet
ha
rappresentato
un
passaggio
rivoluzionario.
Rovescio
della
medaglia,
la
rete
oggi
è
corsia
agevole
per
la
post-verità.
Più
rapidamente
fluisce
una
notizia
falsa,
maggiormente
si
diffonde,
sempre
più
destinatari
ne
vengono
a
conoscenza
e,
istantaneamente,
ne
assorbono
i
contenuti.
E
come
il
Ministro
della
Propaganda
del
Terzo
Reich,
Joseph
Goebbels
in
un’occasione,
con
spietata
freddezza,
affermò:
«ripetete
una
bugia
cento,
mille,
un
milione
di
volte
e
diventerà
una
verità».
Come
dargli
torto?
La
post-verità
è la
falsità
che
assume
le
sembianze
della
verità,
tanto
da
rapirne
selvaggiamente
le
vesti,
spodestandola
in
tronco;
è
un’arma
letale,
un
pericoloso
ordigno
ad
orologeria,
dal
delicato
e
sofisticato
ingranaggio.
È
alla
portata
di
tutti.
Il
paradosso
vuole
che
però,
soltanto
in
pochi
sappiano
padroneggiarlo
con
estrema
abilità.
Costoro
domineranno
il
mondo.