ARIA DI TEMPESTA IN MEDIO ORIENTE
UN NUOVO “AUTUNNO ARABO”
di Gian Marco Boellisi
Dopo un anno di conflitto in Ucraina
un trend che si vede ripetersi
nonostante il passare dei mesi è la
monotematicità del dibattito nelle
relazioni internazionali. Infatti,
per quanto questo conflitto abbia
sconvolto e sconvolgerà numerosi
equilibri globali, sembra che nella
maggior parte dei casi l’unico tema
rilevante in politica estera siano i
combattimenti in Ucraina e tutto ciò
che riguarda le potenze che vi sono
coinvolte, direttamente o
indirettamente.
Questo ha portato a trascurare
numerose dinamiche in corso in
diverse aree del mondo altrettanto
vitali per gli equilibri globali.
Tra queste vi è senza dubbio la
crisi profonda che stanno
affrontando numerosi paesi del Nord
Africa e del Medio Oriente, la quale
potrebbe esplodere in maniera
repentina analogamente a quanto
accaduto nel 2011 con il fenomeno
delle cosiddette “Primavere”. È
quindi interessante analizzare quali
Paesi siano coinvolti e quali
importanti dinamiche siano in atto
in quest’area del mondo.
In primis fra tutti, ad oggi l’Iran
risulta essere ancora oggi sconvolto
dall’interno da proteste in tutto il
paese. Ciò ha avuto inizio il 16
settembre 2022 a seguito della morte
della giovane Mahsa Amiri in
circostanze ancora non del tutto
chiarite da parte delle forze di
sicurezza iraniane. Da allora
l’intero paese è stato scosso da
manifestazioni che hanno coinvolto
ampie frange della popolazione,
quali studenti, giovani di tutte le
età e anche i gruppi etnici
minoritari. Con il passare del
tempo, l’apparato repressivo dello
Stato iraniano si è fatto via via
più forte, portando innumerevoli
persone ad essere arrestate,
giustiziate o semplicemente a
scomparire.
Le proteste hanno fatto tremare così
a fondo le fondamenta della
Republica Islamica che molti
analisti hanno visto questi
movimenti come uno spartiacque nella
storia recente iraniana, in cui lo
stato stesso dell’Iran potrebbe
mutare forma. Sebbene ora dopo tanti
mesi le proteste siano leggermente
scemate, è verosimile ritenere che i
giochi non siano ancora finiti e che
i Pasdaran, i cosiddetti “Guardiani
della Rivoluzione”, abbiano colto
l’occasione delle proteste per
stringere ancora di più il proprio
controllo sui vertici statali.
Non è un segreto infatti che i
Pasdaran siano in possesso,
direttamente o indirettamente, dei
maggior apparati dell’economia
iraniana e che questa situazione di
estrema instabilità possa essere
stata l’occasione per accelerare la
loro scalata al potere. Si
passerebbe così da un regime
teocratico a uno militarista. È
opportuno inoltre ricordare come
questi enormi movimenti di protesta
abbiano dimostrato una debolezza
strutturale dello stato iraniano,
motivo per cui il tempo per un “regime
change” interno potrebbe essere
più propizio di quanto si pensi.
Un’altra regione interessata da una
crisi implacabile è quella di
Israele e della Palestina. Il 2023
si aperto con l’entrata al governo
dell’ennesimo Governo Netanyahu, il
quale ha incluso come ormai è
tradizione elementi di governi
giudicati estremisti da svariati
osservatori e non solo. Esempio
cardine in questo senso è Itamar Ben
Gvir, leader del partito Potere
Ebraico, il quale ha avuto la
brillante idea di effettuare una
passeggiata i primi giorni di
gennaio nella spianata delle
moschee.
Ancora, il nuovo esecutivo è stato
messo recentissimamente in grande
difficoltà da proteste interne
contro la riforma della giustizia,
mostrando come la tenuta di questo
nuovo governo non sia così salda
come Netanyahu ha sempre cercato di
mostrare. Oltre a queste novità
politiche, vi sono stati anche
svariati attentati in Israele
dall’inizio del 2023, con
conseguenti interventi delle forze
armate israeliane in Cisgiordania a
caccia di sospetti terroristi. Il
solito mix esplosivo insomma.
Un esempio fra tutti è stato il
blitz israeliano nel campo profughi
di Jenin, dove sono morti dieci
palestinesi (due di questi
appartenevano a una cellula della
Jihad Islamica ed erano i veri
obiettivi dell’azione militare).
Ovviamente Hamas e la stessa Jihad
Islamica hanno subito giurato
vendetta a Israele, portando così,
nei primi tre mesi del 2023,
ulteriore benzina su un fuoco che
non si è mai spento da
settantacinque anni a questa parte.
Al confine est di Israele la
situazione non è certo migliore. In
Giordania la crisi economica, dovuta
in prima istanza al Covid-19 e poi
alle conseguenze della guerra in
Ucraina, stanno portando l’intero
paese sull’orlo della rivolta. I
prezzi dei principali beni di
consumo hanno subito un aumento
vertiginoso, provocando una povertà
ormai estesa a quasi tutta la
popolazione. Particolarità nazionale
è il prezzo del petrolio, il quale
mentre all’estero è tornato a salire
o scendere in funzione dei mercati
globali qui subisce solo aumenti
senza mai abbassarsi. Unito a ciò il
tasso di disoccupazione ha ormai
raggiunto soglie a doppia cifra
superando il 20%, per non parlare
del debito pubblico che sta
raggiungedo soglie critiche secondo
il Fondo Monetario Internazionale.
Tutta questa situazione ha portato
il paese da alcuni mesi a questa
parte a scendere in piazza contro i
regnanti al governo. Le
manifestazioni sono partite dal sud
del paese, regione storica piena di
squilibri economici e non solo, per
poi estendersi anche in altre
regioni giordane. Ad oggi gli
osservatori internazionali sono
particolarmente preoccupati per
l’estendersi delle proteste, essendo
la situazione estremamente grave e
capace di infettare numerosi Paesi
dell’area, i quali soffrono degli
stessi problemi.
Difficoltà analoghe infatti
colpiscono anche l’Egitto, paese tra
i più importanti in Medio Oriente e
in generale nel concerto della
comunità globale degli stati. Anche
qui lo stallo socio-economico che si
è raggiunto era sicuramente
pre-esistente, ma tra pandemia e
guerra di Ucraina la situazione è
precipitata. Basti pensare che
l’Egitto risultava essere uno dei
più grandi importatori di grano
ucraino, vista l’enorme popolazione
in crescita e vista soprattutto
l’incapacità di generare grano atto
al proprio sostentamento. Proprio in
funzione della sua posizione di
estrema rilevanza all’interno del
panorama politico internazionale,
per evitare l’innescarsi di nuove
tensioni sociali il Cairo ha
ricevuto decine e decine di milioni
di dollari da parte di molte
monarchie dell’area, tra cui Arabia
Saudita ed Emirati Arabi Uniti,
nonché anche da enti internazionali
come la Banca di Sviluppo Africana e
l’FMI.
Nonostante i fondi, la situazione
non è migliorata. I soldi sono stati
spesi per lo più in progetti
infrastrutturali e spese che non
hanno avuto un diretto impatto sulla
popolazione. Sono stati infatti
costruite strade, ponti, palazzi
nella nuova capitale amministrativa
poco fuori il Cairo (è in
costruzione il grattacielo più alto
d’Africa) o dulcis in fundo un nuovo
jet presidenziale da 500 milioni di
dollari.
In tutto ciò la moneta egiziana si è
svalutata esponenzialmente, tanto da
essere cambiata con un dollaro a 29
sterline egiziane. Per questo motivo
anche qui l’inflazione ha raggiunto
circa il 20%, con grandissime fette
della popolazione che hanno
difficoltà ad acquisire il cibo
giornalmente per poter mangiare. Ad
oggi alcuni sintomi di malcontento
popolare si sono fatti sentire, ma
non sono sfociati in aperte proteste
contro il governo, complice anche
l’enorme efficienza dell’apparato di
sicurezza egiziano.
Il presidente Al-Sisi è intervenuto
recentemente appellandosi ai suoi
cittadini, dichiarando di come il
governo stia facendo sforzi
straordinari per calmierare la crisi
economica in atto e di come gran
parte dei problemi esistenti sia
stato ereditata dai decenni passati
in cui lui non era al governo. Di
particolare interesse il passaggio
in cui Al-Sisi ha messo in guardia
gli egiziani sullo sfociare del
malcontento in proteste aperte, le
quali potrebbero portare alla fine
dell’Egitto per come lo si conosce
oggi.
Visto che in politica è sempre
valido il detto excusatio non
petita, accusatio manifesta, è
interessante dedurre come il governo
egiziano stia temendo concretamente
nuove manifestazioni contro gli
apparati statali e stia cercando
parallelamente di distrarre la
popolazione dalle problematiche
fondanti di questa epoca storica.
Ovvio è che se il sistema Egitto
dovesse fuoriuscire da quell’aura di
pseudo stabilità che ha acquisito
con Al-Sisi, tutto il Nord-Africa
potrebbe seguire nell’arco di pochi
mesi, e questo lo sa Al-Sisi, come
lo sa Washington, o Mosca, o
Pechino.
Situazione ben peggiore si vive in
Tunisia, dove quella che è stata
definita la miglior democrazia
uscita fuori dalla Primavera Araba
si sta dimostrando un altro
fallimento su tutta la linea. Il
paese sta attraversando una crisi
economica, sociale e politica tra le
più drammatiche di tutta l’area.
Basti pensare che la sfiducia verso
le istituzioni è tale che alle
ultime elezioni si è recato alle
urne solo l’11% degli aventi diritto
al voto.
Il presidente Kais Saied, eletto nel
2019 come riformatore del sistema
uscito dalla caduta del regime di
Ben Alì nel 2011, è diventato ciò
che egli stesso aveva giurato di
distruggere. Accusando di blocco
istituzionale i vari partiti di
opposizione che si erano avvicendati
in parlamento nel corso degli anni,
Saied decise di sciogliere il
Parlamento, cacciare via il Primo
Ministro e accentrare sempre una
maggior parte di poteri sulla sua
persona. Già nel 2021 si
registrarono settimane di proteste
per la crisi sanitaria e l’imperante
inflazione economica, ma con la
pseudo presa al potere di Saied il
tutto sembrò tranquillizzarsi per un
breve periodo di tempo. Ad oggi le
promesse di Saied non sono state
mantenute, e tutti i partiti di
opposizione hanno incitato i
cittadini tunisini a scendere per
strada per richiedere interventi
tempestivi sull’economia nonché le
dimissioni del presidente. Un
ricorso divertente sta nel fatto che
gli slogan di oggi dei manifestanti
sono gli stessi di 12 anni fa contro
Ben Alì.
L’economia tunisina è a pezzi, con
il paese che ogni giorno si avvicina
a una bancarotta disastrosa, quasi a
voler imitare il cugino
mediterraneo, il Libano. Il potere
di acquisto dei ceti bassi e anche
della classe media è stato
annichilito, con una carenza di
generi alimentari di prima necessità
in tutto il paese. Le riserve di
valuta estere diminuiscono di mese
in mese e conseguentemente la
Tunisia fatica sempre pù a importare
beni necessari per sfamare il
proprio popolo. Secondo alcune stime
dell’FMI, l’inflazione dovrebbe
essere oltre il 10% e le persone che
sono al di sotto della soglia di
povertà sono oltre 12 milioni. Con
numeri similari è incerto quanto il
regime di Saied possa durare ancora,
ed è ancora più incerta quale strada
prenderà la questione migratoria,
tanto cara all’Italia nell’ultimo
periodo.
Una partita che non si è mai chiusa
è quella della Libia, nella quale la
guerra non è mai veramente terminata
dal 2011 a questa parte. Ad oggi vi
sono ancora due governi nel paese,
uno a Tripoli, riconosciuto dalla
comunità internazionale, guidato da
Abdul Hamid Ddeibah. L’altro invece
si trova a Sirte, guidato esso da
Fathi Bashaga. Il territorio libico
è un mosaico eterogeneo di milizie,
frange estremiste e liberi
mercenari, ognuno pronto a sfruttare
il momento per accollarsi sul carro
del vincitore.
Ad oggi vi sono numerosi giocatori
esteri con grandi interessi in Libia
e lo stallo che sembra essere stato
raggiunto è dovuto a un accordo,
seppur parziale, dei due maggiori
giocatori presenti nel paese: Russia
e Turchia. Quanto questo stallo
durerà e verso dove andrà è molto
difficile dirlo, specie considerando
che gli stessi Russia e Turchia
hanno agende molto più calde
attualmente in corso che
determineranno a cascata le agende
in questo momento secondarie, come
la Libia.
Un ultimo punto da analizzare è la
recentissima notizia della ripresa
delle relazioni diplomatiche tra
Iran e Arabia Saudita, le quali
hanno annunciato congiuntamente che
le rispettive ambasciate verranno
riaperte entro due mesi. Al
contrario di quanto descritto finora
per gli altri paesi dell’area,
questo è un evento di unione e
riassestamento non indifferente,
visti i trascorsi. Infatti Iran e
Arabia Saudita avevano interrotto i
propri rapporti diplomatici dal
2016. Il tutto fu causato
dall’esecuzione del leader sciita
Nimr al-Nimr da parte di Riad, al
quale si ebbe in risposta l’assalto
dell’ambasciata saudita da parte di
cittadini infuriati a Teheran. Ad
oggi la promessa tra i due paesi è
quella di rispettare le sovranità
reciproche, senza intervenire
direttamente negli affari interni
l’uno dell’altro.
L’aspetto forse più importante
dell’intera vicenda tuttavia non è
tanto la ripresa dei rapporti tra
Riad e Teheran, ma il fatto che a
far da garante e da paciere tra le
due nazioni sia stata la Cina. Per
il dragone si tratta di un’enorme
successo diplomatico, spendibile sia
in Medio Oriente sia in altre aree
del mondo. La catena di successi in
questo senso è iniziata proprio a
Riad, a seguito degli accordi
commerciali ed energetici conseguiti
tra Cina e Arabia Saudita. Proprio
in questa sede re Salman ha firmato
un accordo di partenariato
strategico a tutto tondo con la
Cina, lasciando fuori dalla porta i
(non più) storici alleati
statunitensi.
Questo a testimonianza di come i
paesi mediorentali abbiano iniziato
a considerare gli Stati Uniti come
parner non affidabili, specie alla
luce del loro burrascoso ritiro
dall’Afghanistan del 2021. Ciò è
stato dovuto soprattutto
all’attitudine che Washington ha
usato con i vari stati dell’area
mediorientale, quasi imponendo a
ogni nazione ivi presente
un’esclusività di rapporti e di
visione della politica estera. I
rapporti che qui sono stati
coltivati e portati avanti sono
stati spesso e volontieri di
subordinazione (politica, economica,
militare), non di cooperazione.
Ed è qui che sta la differenza
sostanziale tra Cina e Stati Uniti.
La prima tratta, o dichiara di
trattare, con gli Stati nel mondo da
partner in affari, non da
clientes. La perdita di
influenza americana nell’area è
dovuta inoltre anche a un
riassestamento generale delle
priorità di politica estera della
Casa Bianca, sia a seguito del
ritiro dal Medio Oriente sia alla
luce del supporto a breve termine
dell’Ucraina e di quello nel
medio-lungo termine contro la Cina.
Questa “distrazione” può portare
Pechino a maturare importanti
opportunità come quella conseguita
tra Iran e Arabia Saudita.
D’altronde si sa, in politica non è
ammesso il vuoto.
In conclusione, il Medio Oriente
risulta essere ancora oggi un’area
tutt’altro che tranquilla. Le
dinamiche di potere si stanno
riassestando nuovamente, tuttavia è
innegabile come alcuni eventi
globali, come la pandemia di Covid e
la guerra in Ucraina, abbiano
portato al collasso economie di
molti paesi mediorientali e
nordafricani già in estrema
difficoltà.
Alcuni analisti vedono la concreta
possibilità che, se uno solo dei
paesi sopra menzionati dovesse
cadere analogamente a quanto
successo nel 2011, si potrebbe
assistere a una seconda ondata di
Primavere Arabe, con un potenziale
esito del tutto incerto. Questo tipo
di scenari permettono a nuovi
attori, come Cina e Turchia, di
affacciarsi a scenari fino a poco
prima a loro sconosciuti,
sostituendo in parte i vecchi quanto
ormai stantii partner occidentali.
Per quanto questo possa contribuire
alla complessità delle dinamiche in
atto, è innegabile che l’esperimento
del 2011 delle Primavere si è
dimostrato fallimentare su tutti i
fronti, e ripeterlo con lo stesso
modus operandi di 12 anni fa
porterebbe a mostrarci, come ormai
siamo troppo spesso abituati, come
l’uomo non impari mai dalla storia e
dai propri errori.