N. 73 - Gennaio 2014
(CIV)
L’IDRA DALLE TANTE TESTE
A proposito di POPULISMO - parte iI
di Giuseppe Tramontana
Che
le
acute
crisi
economiche
e
sociali,
in
passato
come
oggi,
creino
un
terreno
di
coltura
per
il
populismo,
che
soffino
sul
fuoco,
che
ne
diversifichino
e
varino
gli
elementi
messi
in
campo,
è
cosa
che,
anche
mediante
una
mappa
delle
localizzazioni
europee
ed
extraeuropee
dei
movimenti
populisti
per
l’Otto-Novecento
e
per
i
nostri
giorni,
si
potrebbe
fare
con
una
certa
facilità.
Conta
molto
su
quali
strati
sociali
va a
colpire
la
crisi,
quali
capacità
di
uscirne
hanno
le
singole
società,
quale
è la
capacità
di
resistenza
degli
assetti
democratici,
quali
leader
si
fanno
interpreti
di
una
anonima
rivolta
delle
vittime
sulle
quali
duramente
e
violentemente
si
fanno
sentire
gli
effetti
della
crisi
: in
questo
magma
sono
le
radici
di
un
populismo
spinoso
e
ambivalente.
Non
c’è
tuttavia
un
problema
di
come
da
Paese
a
Paese,
da
situazione
a
situazione,
si
evolva
il
populismo;
cambiano
certo
i
mezzi
di
coagulazione
di
una
opinione
diffusa
definibile
come
populista,
ma
si
mantiene
costante
una
inclinazione
di
fondo
che
ora
viene
in
superficie,
ora
ristagna
e
ribolle.
Magaret
Canovan
ha
suggerito
che,
accanto
ad
un
volto
prosaico
e
pragmatico,
il
populismo
solitamente
affianca
un
volto
salvifico
ed
emotivo.
Può
mai
il
popolo
sovrano
rassegnarsi
a un
uso
meramente
tecnico
della
sua
sovranità?
Può
acconciarsi
a
contemplare,
come
gli
accade
di
questi
tempi,
l’impotenza
del
regime
che
l’ha
posto
sul
trono?
Può
la
democrazia
concedersi
il
lusso
di
bistrattare
ed
escludere
il
demos?
Alla
democrazia,
come
alla
politica,
è
intimamente
associata
l’idea
che
l’ordine
sociale
non
sia
affatto
naturale,
che
gli
uomini
possano
migliorarlo,
costruendo
un
avvenire
migliore
del
presente.
Visto
che
la
democrazia
non
suscita
più
troppe
speranze,
come
stupirsi
se a
prenderne
il
posto
sono
state
la
paura,
l’angoscia,
il
disincanto
e il
risentimento
antipolitico
di
cui
si
nutrono
le
Nuove
destre?
L’avanzata
dei
movimenti
populisti
è
attribuita,
peraltro,
oltre
che
alle
trasformazioni
in
atto
nelle
società,
anche
ai
vizi
intrinseci
ad
una
democrazia
fondata
sulla
sovranità
popolare.
Come
scrive Mastropaolo,
“forse
le
cose
sarebbero
andate
in
tutt’altro
modo
se
invece
di
sottoporla
a
maltrattamenti
assai
ruvidi,
con
l’effetto
di
democratizzarla,
si
fosse
trattata
la
democrazia
con
più
rispetto”.
Infatti,
a
suo
avviso,
lo
stato
di
sofferenza
in
cui
versa
la
democrazia
è
conseguenza
non
solo
di
una
serie
di
mosse
ben
riuscite
di
chi
mal
la
tollerava,
ma
per
l’appunto
di
un
singolare
eccesso
di
sicurezza
e di
disinvoltura
da
parte
dei
ceti
democratici
e
degli
stessi
cittadini,
confusi
dagli
straordinari
risultati
in
termini
di
libertà,
di
sviluppo,
di
benessere
individuale
e
collettivo
che
la
democrazia
ha
garantito.
”Le
Nuove
destre
–
continua
–
sono
solo
un’impresa
politica
che
prospera
sul
malessere
democratico,
muovendosi
in
larga
parte
all’interno
del
senso
comune
neoliberale
e
anzi
riproponendone
i
temi
in
maniera
esasperata.
Se
tale
senso
comune
ha
revocato
in
dubbio
principi
come
uguaglianza
e
solidarietà,
ad
essi
preferendo
la
competizione
di
mercato,
le
Nuove
destre
si
spingono
solo
un
po’
più
oltre,
verso
l’intolleranza
e il
razzismo,
mentre,
per
rimediare
alla
dispersione
del
demos,
riscoprono
appartenenze
e
valori
tradizionali,
sollecitando
del
pari,
fino
alle
sue
estreme
conseguenze
plebiscitarie,
l’idea
di
democrazia
invalsa
nel
frattempo”.
Nondimeno,
occorre
puntualizzare
che
la
crisi
economica
e
sociale
rappresenta
una
condizione
necessaria,
ma
non
sufficiente
o
determinante.
Come
nota
Andreas
Schedler,
i
movimenti
o i
partiti
populisti
si
muovono
ai
margini
dei
sistemi
democratici,
“oscillando
tra
la
denuncia
del
sistema
in
quanto
tale
e la
denuncia
di
chi
occupa
semplicemente
i
posti
di
potere”.
Tuttavia,
affinché
il
populismo
sia
arginato,
è
sicuramente
rilevante
che
esista
un
sistema
di
regole
costituzionali
ben
consolidato,
credibile
e
guardato
con
favore
dai
cittadini,
ma è
parimenti
importante
che
sia
chiaro
il
suo
doppio
volto.
Infatti,
il
populismo
si
presenta,
da
un
lato,
come
un
movimento
sovversivo
dello
stato
di
cose
preesistente,
dall’altro,
come
il
punto
di
partenza
per
una
ricostruzione,
più
o
meno
radicale,
di
un
nuovo
ordine,
quando
il
precedente
è
scosso
o
scricchiolante.
Insomma,
come
sottolinea
Laclau,
occorre
che
il
sistema
istituzionale
sia
in
crisi
affinché
un
appello
populista
possa
avere
successo.
In
una
situazione
di
completa
stabilità,
al
contrario,
l’unica
possibile
opposizione
potrebbe
provenire
da
un
“puro
fuori”
cioè
da
strati
del
tutto
marginali
(e
inefficaci)
del
sistema
medesimo.
Ecco
perché,
allora,
il
populismo
non
emerge
mai
da
un
“fuori
assoluto”,
ma
cresce
all’interno
del
sistema
democratico
ed
ha,
come
requisito
indispensabile
per
la
sua
affermazione,
la
crisi
della
vecchia
struttura.
Stando
così
le
cose,
le
sue
possibilità
di
successo
–
ossia
di
ascendere
al
potere
-
sono
legate
all’entrata
del
sistema
preesistente
in
un
periodo
di
“crisi
organica”.
Solo
in
questo
caso,
le
forze
populiste
devono
fare
qualcosa
in
più
che
stare
sospesi
tra
la
sovversione
e la
costruzione:
devono
prendere
l’iniziativa
di
ricostruire
la
nazione
attorno
ad
un
nuovo
nucleo
popolare,
plebiscitariamente
interpretato,
mitologicamente
mobilitante
e
ideologicamente
posto
alla
base
della
propria
azione
politica.
Ove,
invece,
il
sistema
istituzionale
sia
largamente
auto-strutturato
o,
pur
essendo
meno
strutturato,
pone
mano
a
periodiche
ristrutturazioni,
in
questi
casi
esso
conserva
la
capacità
di
relegare
ai
margini
ogni
sfida
anti-istituzionale
e
quindi
le
forze
populiste
antisistema
resteranno
minoritarie
e
lontane
dai
centri
della
gestione
del
potere.
Populismo
e
fascismo:
quale
rapporto,
quale
pericolo?
Il
populismo,
tradizionalmente,
si
presta
a
molti
–ismi.
Ma
il
riscontro
più
interessante
è
quello
con
il
fascismo...
E,
d’altra
parte,
anche
il
fascismo
e il
nazismo,
non
sarebbero
approdati
alle
forme
di
dominio
che
conosciamo
se
non
avessero
avuto
alla
base,
nella
loro
insorgenza
necessaria,
l’elemento
populista.
è
indubbio,
infatti,
che
anche
il
leader
populista
si
fa
interprete
della
volontà
popolare.
Nasce
dal
“ventre
dell’antipolitica”
ed,
in
quanto
tale,
rifugge
da
qualsiasi
forma
di
rispetto
per
la
democrazia
liberale,
per
le
forme
di
confronto
riflessivo,
pacato,
preferendo,
come
abbiamo
visto,
lo
scontro,
la
trasformazione
dello
spazio
del
dibattito
in
un
agone
da
cui
solo
il
più
forte,
o
furbo,
uscirà
vincitore:
che
poi
sia
anche
il
più
bugiardo
e
politicamente
inaffidabile
è
irrilevante
agli
occhi
del
populista.
Ma
c’è
di
più.
Poiché,
per
il
populista,
la
legge
è
sempre
di
parte,
non
rispecchianti
valori
condivisi
dalla
comunità
e
per
il
benessere
della
comunità
a
prescindere
da
ideologie
e
schieramenti,
essa
si
presta
ad
essere
manipolata
per
i
fini
più
immediati
della
gestione
del
potere.
E
come
la
legge
anche
le
istituzioni
ed i
poteri.
E là
dove
tale
controllo
non
sia
possibile,
ecco
che
l’attacco
al
potere
(ad
esempio,
quello
giudiziario)
autonomo,
che
non
si
piega,
ed
alla
Costituzione
che
consente
una
simile
indipendenza.
In
tutto
questo,
passaggio
essenziale
è
l’utilizzazione
del
Parlamento
–
eletto
con
una
legge
elettorale
solitamente
maggioritaria
con
la
previsione
di
un
ampio
premio
di
maggioranza
(in
Italia,
fino
all’assurdo
della
cancellazione
delle
preferenze
che
ha
trasformato
il
Parlamento
in
un
club
di
nominati
e
cooptati)
-
come
instrumentum
regni,
come
un
consiglio
di
ratificatori
al
servizio
del
leader,
consiglio
che
si
limita
quindi
ad
approvare
i
decreti
ed i
voleri
del
capo:
il
Parlamento
– o
meglio
la
sua
m,maggioranza,
quella
che
sostiene
il
governo
populista
-
non
pensa,
approva.
E,
all’occorrenza,
fa
quadrato
nella
difesa
della
sua
guida
dagli
attacchi
dell’avversario
spesso
dipinto
con
colori
truci
come
il
nemico
non
solo
del
leader,
ma
di
tutta
la
nazione
o,
persino,
della
tradizione
e
della
civiltà.
Scegliendo
come
punto
di
osservazione
privilegiato
l’Italia
contemporanea,
si
può
affermare
che
come
nel
regime
fascista,
modernità
e
tradizione
si
presentano
nuovamente
uniti,
collegati,
nella
destra
neopopulista
attuale,
la
quale,
in
un
contesto
sociale
e
culturale
profondamente
mutato
cerca
di
ottenere
consensi
mediante
meccanismi
che
hanno
molte
analogie
con
il
passato.
Culto
del
capo
carismatico,
disarticolazione
delle
organizzazioni
intermedie,
riduzione
e
lettura
atomistica
della
società,
resa
“liscia,
puntiforme
e
poltigliosa
come
un
ammasso
di
coriandoli”,
eclettismo
ideologico
sembrano
i
motivi
di
più
evidente
continuità
con
il
fascismo.
Una
mescolanza
di
elementi
carismatici,
plebiscitari
e
tradizionalisti
caratterizza
il
bonapartismo
(concetto
–
ricorda
Gabriele
Turi
–
usato
anche
per
definire
il
fascismo)
così
come
il
populismo,
assieme
al
controllo
dei
mezzi
che
garantiscono
il
rapporto
diretto
e
centralizzato
con
il
popolo,
in
primo
luogo
i
mezzi
di
comunicazione
e di
informazione.
“Il
presupposto
per
stabilire
un
rapporto
diretto
governo-popolo
–
scrive
Turi
– è
la
disarticolazione
delle
forme
di
aggregazione
della
società.
La
‘partecipazione’
dei
cittadini
alla
vita
politica
e
civile,
alla
quale
poteva
ancora
richiamarsi
nel
1976
Giorgio
Amendola
come
antidoto
alla
‘gara
di
egoismi
corporativi’,
è
venuta
meno,
prima
che
l’opera
di
ottundimento
della
televisione,
con
il
crollo
del
sistema
dei
partiti,
che
è
cominciato
a
entrare
in
crisi
nel
1979
con
la
diminuita
affluenza
alle
elezioni”.
D’altra
parte,
un
altro
illustre
storico,
Giampiero
Carocci,
ha
sottolineato
come
“durante
gli
anni
ottanta
si
fece
univoca
nella
società
la
spinta
verso
destra,
la
negazione
dei
valori
collettivi,
il
ripiegamento
in
un
‘privato’
sentito
come
antagonista
del
‘pubblico’,
l’affermazione
straripante
dei
valori
indirizzati
all’individualismo,
all’acquisizione,
all’autoaffermazione”,
un
fenomeno
comune
al
mondo
occidentale
nell’era
della
Thatcher
e di
Reagan,nel
momento
della
ripresa
del
capitalismo
dopo
la
crisi
del
decennio
precedente.
Ciò
che
il
fascismo
aveva
attuato
con
la
violenza
(scioglimento
dei
partiti
e
delle
associazioni)
è
avvenuto
quasi
‘naturalmente’
con
il
venir
meno
della
forma
partito
nell’ultimo
ventennio,
ma
anche
con
l’uso
di
mezzi
capaci
di
rendere
obsolete
le
forme
di
comunicazioni
tradizionali.
Marcello
Veneziani
si è
posto
una
domanda:
“Cosa
c’è
di
destra
nel
consenso
a
Berlusconi?”.
E la
risposta
è
stata:
“C’è
il
triangolo
vincente
delle
nuove
destre:
leadership
forte,
comunicazione
diretta
e
democrazia
efficace,
senza
mediazioni
oligarchiche,
ideologiche
e
partitiche.
In
una
parola,
populismo.
In
una
accorta
miscela
di
estremismo
e
moderazione,
di
arcaismo
e
ipermodernità,
di
liberismo
e di
comunitarismo
ideologico,
pragmatico,
televisivo.”
Con
l’aggiunta
che
persino
i
nomi
–
Forza
Italia
o
casa
delle
libertà
–
evocano
sempre
aspetti
identitari
(o
calcistico-identitari)
comunitaristici
o
familistico-individualistici
(la
Casa
di
proprietà
connessa
alla
libertà
–
termine,
tuttavia,
declinato
al
plurale,
che,
si
ricorda,
nella
lingua
italiana,
è
sinonimo
di
“privilegi”
o
“arbitri”).
Come
evidenziava
già
Franz
Neumann
(Behemoth,
2007)
nel
suo
studio
pioneristico
sul
nazionalsocialismo,
l’atomizzazione
che
lascia
isolati
gli
individui
davanti
al
potere,
attuata
con
l’indebolimento
dei
gruppi
intermedi
tra
società
e
Stato,
è un
fenomeno
cui
hanno
concorso
e
concorrono
fattori
diversi:
dal
liberismo
che
mira
a
ridurre
gli
spazi
di
intervento
dello
Stato
e il
sistema
nazionale
di
welfare,
alle
proposte
di
flessibilità
nella
pubblica
amministrazione,
alla
centralità
dell’individuo
valorizzato
solo
all’interno
della
famiglia,
fino
alla
varietà
dei
linguaggi
e
delle
tradizioni
locali
rivendicate
in
modo
esclusivo
ed
escludente.
Oltre
a
ciò,
un
altro
tratto
caratteristico
è
l’eliminazione
del
ruolo
dell’intellettuale
elaboratore
di
cultura,
riducendolo
allo
‘scriba’
o
al’intellettuale-funzionario
tipico
dei
regimi
fascisti.
Tutti
gli
ideologi
della
destra,
non
a
caso,
insistono
sulla
“decadenza
inarrestabile
dell’intellettuale,
oscillando,
come
nei
regimi
fascisti,
tra
la
denigrazione
di
un
soggetto
critico
del
sistema
esistente
e il
tentativo
di
catturarne
il
consenso
riducendone
l’autonomia.
Eppure,
“nell’attuale
scardinamento
del
ella
forma
di
partito,
le
destre
sembrano
riscoprire
la
funzione
connettiva
di
un
ceto
intellettuale
che
nella
società
di
massa
e
dei
mass
media
si è
venuto
modificando
e
moltiplicando:
dagli
intellettuali
‘tradizionali’
(…)
ai
giornalisti
della
stampa
e
della
televisione,
ai
pubblicitari,
ai
sondaggisti”
(Turi).
I
quali,
è
giusto
sottolineare,
trovano
ognuno
la
sua
nicchia
espressiva
ed
il
proprio
ruolo
di
creatore
di
consensi
di
un
assemblaggio
di
voci,
culture
e
linguaggi
diversi
e
confusi
che
danno
tuttavia
origine
ad
un
eclettismo
ideologico
tipico
della
dimensione
interclassista
del
populismo.
E,
anche
in
questo
senso,
non
si
può
non
tenere
a
mente
il
fatto
che
la
forza
di
attrazione
del’ideologia
fascista
fu
il
suo
eclettismo,
dietro
il
quale
gli
intellettuali
di
regime
potevano
trincerarsi
senza
essere
immediatamente
identificati
con
il
fascismo
tout
court,
così’
da
facilitare
incontri
e
compromessi
con
i
fiancheggiatori.
Non
esisteva
e
non
doveva
esistere
una
cultura
“fascista”,
affermò
Giovanni
Gentile:
la
cultura
doveva
essere
“nazionale”,
come
scrisse
Delio
Cantimori
nel
Dizionario
di
politica
del
Pnf
del
1940.
E
come
Gentile
e il
fascismo
avevano
come
nemico
il
socialismo,
nel
comunismo
e
nel
giolittismo,
cioè
in
un
sistema
di
potere
considerato
corruttore
delle
forze
nazionali,
così
l’odierno
populismo
italiano
ha
come
nemico
un
comunismo
di
comodo,
rievocato
in
Italia
proprio
nel
momento
in
cui
finiva
la
sua
esistenza
nel
resto
del
mondo
all’indomani
del
1989
e
della
caduta
del
Muro.
In
realtà,
come
è
facile
vedere,
l’egemonia
della
cultura
di
sinistra
è un
argomento
usato
ad
deterrendum,
ripetuto
fino
alla
noia
per
obiettivi
che
di
culturale
hanno
poco,
ma
di
politico
tanto
ed
ai
quali
è
funzionale
anche
una
“riverniciatura
del
fascismo
come
regime
tollerante”.
Senza
contare
l’attacco
contro
la
scuola
pubblica,
laicamente
intesa,
i
cui
insegnamenti,
agli
occhi
delle
destre,
sono
inficiati
da
un’ideologia
di
sinistra
e,
all’interno
della
polemica
contro
la
scuola
e la
libertà
di
insegnamento
(ossia
contro
due
cardini
della
Costituzione
repubblicana),
le
bordate
contro
i
manuali
di
storia,
anch’essi
manipolati
dalla
cultura
e
dai
paradigmi
storiografici
di
discendenza
marxista.
Tale
attacco
si
riverbera
anche
contro
la
Resistenza,
se è
vero
quanto
sostiene
Gian
Enrico
Rusconi,
il
quale
sottolinea
come
“dopo
decenni
di
democrazia
ci
sono
ancora
politici
e
studiosi
che
torcono
il
naso
di
fronte
all’evidenza
storica
che
la
repubblica
abbia
come
atto
fondante
la
Resistenza.
E
che
quindi
la
sua
cultura
politica
debba
cominciare
da
qui.
Ritengono
invece
che
l’antifascismo
sia
una
cultura
dell’avversario
politico
anziché
una
componente
della
comune
cultura
repubblicana”.
Tutto
ciò
rilevato,
tuttavia,
occorre
porre
in
evidenza
anche
le
differenze
tra
i
due
sistemi,
il
populista
e il
fascista.
Esse
si
possono
esplicitare
in
sei
punti
essenziali:
-
manca
nel
populismo
un
progetto
totalitario,
tipico
dei
regimi
fascisti
o
totalitari.
Non
hanno
di
mira
il
controllo
dei
cittadini
“dalla
culla
alla
tomba”
e
sono
lontani
dal
tentativo
di
inquadramento
dell’intera
popolazione
della
nazione;
-
manca
un
collegamento
stabile
con
un
partito-esercito
a
vocazione
egemonica
e
non
ha
tra
i
suoi
programmi
la
militarizzazione
della
società;
-
risulta
molto
più
sfumato,
moderno,
il
tentativo
di
indottrinare
le
masse,
le
quali
solo
indirettamente
vengono
chiamate
a
prestate
il
loro
consenso
alla
politica
di
governo,
facendo
leva
sull’efficientismo
e
sul
pragmatismo
piuttosto
che
su
una
spinta
ideale
o
progettuale;
-
più
che
esclusivamente
sulle
classi
medie,
le
forze
populiste
tentato
di
cooptare
anche
sugli
strati
popolari
in
una
miscellanea
programmatica
contraddittoria,
eclettica
e
interclassista;
- è
decisamente
meno
sviluppato
il
richiamo
alle
mitologie
razziali,
preferendo,
al
limite,
contaminare
gli
aspetti
etnici
con
quelli
a
più
rilevanza
economica.
-
manca
il
ricorso
alla
violenza
fisica
ed
alla
costrizione
palese
per
i
dissidenti,
così
come
è
assente
qualsiasi
forma
di
prospettiva
concentrazionaria.
Tv,
web
e
fenomeni
populisti
A
differenza
dei
movimenti
populistici
tradizionali,
quelli
moderno
non
posso
prescindere
da
un
uso
massiccio
della
televisione.
Tradizionalmente
essi,
quando
scendevano
in
campo,
costruivano
un’organizzazione
stabile,
un
radicamento
sociale,
territoriale,
raccogliendo
tessere
e
militanti.
Questo,
in
alcuni
di
questi
movimenti
è
avvenuto
ancora,
anche
in
tempi
recenti,
come
ad
esempio
la
Lega
Nord.
Tuttavia,
l’uso
del
mezzo
televisivo
è
ormai
imprescindibile.
In
tal
senso
l’esempio
più
clamoroso,
probabilmente,
viene
da
Forza
Italia,
che,
con
spot
e
messaggi,
grazia
all’abilità
comunicativa
del
suo
leader,
Silvio
Berlusconi,
si è
affermata
innanzi
tutto
mediate
i
canali
televisivi.
Una
forma
nuova
di
costruzione
di
un
partito
e
del
suo
leader,
che
lasciava
intravedere
quanto
Forza
Italia
e
Berlusconi
non
fossero
in
realtà
i
prodotti
diretti
di
un
movimento
politico
insidiato
e
radicato
nel
territorio.
Come
scrive
Diego
Giachetti,
“essi
diedero
forma,
vita,
idee
a
un’
‘attesa’
e a
un
bisogno
che
già
albergava
nella
società.
Una
domanda
di
rappresentanza
politica
da
parte
di
una
‘moltitudine’,
sparsa,
frammentata,
individualizzata,
colta
bene
nell’apparente
paradossale
messaggio
pubblicitario
di
Berlusconi
‘presidente
operaio’”.
Nel
caso
di
Berlusconi,
ovviamente,
oltre
alla
sua
abilità
comunicativa,
c’è
da
aggiungere
la
conoscenza
del
funzionamento
del
mezzo
televisivo
che
è
divenuto
‘asse
portante
di
una
nuova
modalità
della
campagna
elettorale
e
del
modo
di
veicolare
il
messaggio
politico.
L’uso
della
televisione
è
risultato
efficace
perché
si è
immesso
in
una
società
frammentata,
composta
da
una
moltitudine
atomizzata
e
poltigliosa.
Il
mezzo
televisivo
ha
colmato
quel
vuoto
di
relazioni
sociali
e
solidali
dovute
all’indebolimento
delle
istanze
collettive
che
definiscono
l’appartenenza,
ha
costruito
virtualmente
un
legame
tra
esseri
isolati.
Apparentemente
la
televisione
ha
avvicinato
il
politico
al
cittadino,
introducendolo
in
ogni
casa,
girono
dopo
giorno,
spettacolo
dopo
spettacolo.
Ciò,
secondo
Donatella
Campus,
ha
condotto
i
contadini
in
un
mondo
immaginario,
virtuale,
leggero,
lontano
dalla
propria
esperienza
quotidiana
e di
vita.
E
non
si
creda
che
tale
assuefazione
e
rappresentazione
siano
dovute
solo
ai
messaggi
politici.
In
realtà,
ancor
prima,
il
compito
di
stabilire
un
rapporto
diretto
con
il
leader
e il
suo
modo
di
vedere
il
mondo,
sono
stati
le
telenovelas,
le
televendite,
gli
spettacoli
popolari,
i
talk
show:
questi
hanno
creato
un
“rapporto
quasi
carnale”
(Lazar,
Democrazia
ala
prova.
L’Italia
dopo
Berlusconi,
2007)
tra
gli
spettatori
che
osservano
il
mondo
dall’oblò
del
loro
televisore
e il
leader
che,
senza
che
loro
se
ne
accorgano,
li
plasma,
li
modella
-
usando
emozioni,
empatia,
comunicazione
-
per
avvicinarli
sempre
più
ad
un
progetto
politico
di
egemonia
plebiscitaria.
Come
sostiene
ancora
Marc
Lazar,
“la
televisione
è
diventata
la
scena
più
importante
della
vita
politica,
se
non
è
l’unica;
tende
ad
eclissare
altri
luoghi”,
verso
i
quali
esprime
diffidenza
e
critica.
Di
fatti,
di
volta
in
volta,
sono
presi
di
mira
l’èlite
culturale
e il
ceto
politico
tradizionale,
i
meccanismi
decisionali
della
democrazia
rappresentativa,
accusati
di
frenare
e
intralciare
l’agire
secondo
un’ottica
aziendale
basata
sull’efficienza,
sul
decisionismo,
sull’assunzione
dell’iniziativa
e
della
responsabilità
del
manager
prestato
alla
politica.
A
questa
forma
di
democrazia
si
tende
a
sostituire
un’altra
che
esalta
l’individualismo
e
l’individuo,
“colui
che
forgia
il
proprio
destino
con
la
propria
intelligenza.
(…)
L’individuo
libero,
l’agente
economico
razionale,
piuttosto
che
il
cittadino
che
si
unisce
ad
altri
al
termine
di
un
atto
volontario
e
contrattuale.
La
democrazia
non
ha
soltanto
la
vocazione
di
favorire
e
garantire
la
pienezza
dell’individuo:
essa
deve
essere
messa
al
servizio
dei
suoi
interessi”.
La
televisione
da
rappresentazione
a
questo
sentire
e
modo
di
pensare.
E
contemporaneamente,
rappresentandolo,
mettendolo
nel
circuito
della
comunicazione,
lo
fa
diventare
familiare
e
modella
quello
stesso
tipo
di
società.
Nuovi
scenari
populisti,
poi,
si
sono
aperti
col
Web,
con
la
Rete,
e
questo
è un
altro
capitolo
importante
che
si è
cominciato
a
scrivere.
La
Rete
è un
veicolo
che
contribuisce
a
diffondere
e
moltiplicare
sospetti,
ansie,
diffidenze
che
provengono
da
una
folla
che
vuole
farsi
avvertire,
che
lancia
i
suoi
messaggi
per
bloccare
le
logiche
perverse
dei
potenti
che
schiacciano
gli
umili,
che
scrivono
a
loro
modo
la
storia
del
mondo.
Nel
populismo
che
viene
dal
Web,
dalla
Rete,
trova
posto
in
primo
luogo
una
domanda
di
democrazia
digitale
(come
viene
chiamata)
,
diretta,
fuori
dai
canali
tradizionali.
E
può
esprimersi
poi
un
bisogno
apocalittico
di
demolizione
delle
impalcature
della
politica.
Indubbiamente
il
populismo
contemporaneo
si
nutre
di
questo
abbattimento
di
ogni
limite
alla
comunicazione
e
può
operare
su
di
uno
spazio
più
esteso
di
interrelazioni:
il
soggetto-popolo
viene
ad
essere
più
e
rafforzato,
ha
più
voce,
ha
maggiore
spessore
rispetto
alla
sua
stessa
rappresentanza.
Il
Web
diventa
un
nuovo
totem
e
con
esso
anche
i
messaggi,
più
o
meno
controllati
e
controllabili,
che
in
esso
circolano.
Ma
tutto
finalizzato
alla
costruzione
di
una
tipologia
di
populismo
che,
in
molti
casi,
non
differisce
fenomenologicamente
da
quello
conosciuto
fino
ad
ora.
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