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ATTUALITà


N. 73 - Gennaio 2014 (CIV)

L’IDRA DALLE TANTE TESTE
A proposito di POPULISMO - parte iI

di Giuseppe Tramontana

 

Che le acute crisi economiche e sociali, in passato come oggi, creino un terreno di coltura per il populismo, che soffino sul fuoco, che ne diversifichino e varino gli elementi messi in campo, è cosa che, anche mediante una mappa delle localizzazioni europee ed extraeuropee dei movimenti populisti per l’Otto-Novecento e per i nostri giorni, si potrebbe fare con una certa facilità.

 

Conta molto su quali strati sociali va a colpire la crisi, quali capacità di uscirne hanno le singole società, quale è la capacità di resistenza degli assetti democratici, quali leader si fanno interpreti di una anonima rivolta delle vittime sulle quali duramente e violentemente si fanno sentire gli effetti della crisi : in questo magma sono le radici di un populismo spinoso e ambivalente.

 

Non c’è tuttavia un problema di come da Paese a Paese, da situazione a situazione, si evolva il populismo; cambiano certo i mezzi di coagulazione di una opinione diffusa definibile come populista, ma si mantiene costante una inclinazione di fondo che ora viene in superficie, ora ristagna e ribolle.

 

Magaret Canovan ha suggerito che, accanto ad un volto prosaico e pragmatico, il populismo solitamente affianca un volto salvifico ed emotivo. Può mai il popolo sovrano rassegnarsi a un uso meramente tecnico della sua sovranità? Può acconciarsi a contemplare, come gli accade di questi tempi, l’impotenza del regime che l’ha posto sul trono?

 

Può la democrazia concedersi il lusso di bistrattare ed escludere il demos? Alla democrazia, come alla politica, è intimamente associata l’idea che l’ordine sociale non sia affatto naturale, che gli uomini possano migliorarlo, costruendo un avvenire migliore del presente.

 

Visto che la democrazia non suscita più troppe speranze, come stupirsi se a prenderne il posto sono state la paura, l’angoscia, il disincanto e il risentimento antipolitico di cui si nutrono le Nuove destre?

 

L’avanzata dei movimenti populisti è attribuita, peraltro, oltre che alle trasformazioni in atto nelle società, anche ai vizi intrinseci ad una democrazia fondata sulla sovranità popolare. Come scrive Mastropaolo, “forse le cose sarebbero andate in tutt’altro modo se invece di sottoporla a maltrattamenti assai ruvidi, con l’effetto di democratizzarla, si fosse trattata la democrazia con più rispetto”.

 

Infatti, a suo avviso, lo stato di sofferenza in cui versa la democrazia è conseguenza non solo di una serie di mosse ben riuscite di chi mal la tollerava, ma per l’appunto di un singolare eccesso di sicurezza e di disinvoltura da parte dei ceti democratici e degli stessi cittadini, confusi dagli straordinari risultati in termini di libertà, di sviluppo, di benessere individuale e collettivo che la democrazia ha garantito.

 

”Le Nuove destre – continua – sono solo un’impresa politica che prospera sul malessere democratico, muovendosi in larga parte all’interno del senso comune neoliberale e anzi riproponendone i temi in maniera esasperata. Se tale senso comune ha revocato in dubbio principi come uguaglianza e solidarietà, ad essi preferendo la competizione di mercato, le Nuove destre si spingono solo un po’ più oltre, verso l’intolleranza e il razzismo, mentre, per rimediare alla dispersione del demos, riscoprono appartenenze e valori tradizionali, sollecitando del pari, fino alle sue estreme conseguenze plebiscitarie, l’idea di democrazia invalsa nel frattempo”.

 

Nondimeno, occorre puntualizzare che la crisi economica e sociale rappresenta una condizione necessaria, ma non sufficiente o determinante. Come nota Andreas Schedler, i movimenti o i partiti populisti si muovono ai margini dei sistemi democratici, “oscillando tra la denuncia del sistema in quanto tale e la denuncia di chi occupa semplicemente i posti di potere”.

 

Tuttavia, affinché il populismo sia arginato, è sicuramente rilevante che esista un sistema di regole costituzionali ben consolidato, credibile e guardato con favore dai cittadini, ma è parimenti importante che sia chiaro il suo doppio volto. Infatti, il populismo si presenta, da un lato, come un movimento sovversivo dello stato di cose preesistente, dall’altro, come il punto di partenza per una ricostruzione, più o meno radicale, di un nuovo ordine, quando il precedente è scosso o scricchiolante.

 

Insomma, come sottolinea Laclau, occorre che il sistema istituzionale sia in crisi affinché un appello populista possa avere successo. In una situazione di completa stabilità, al contrario, l’unica possibile opposizione potrebbe provenire da un “puro fuori” cioè da strati del tutto marginali (e inefficaci) del sistema medesimo. Ecco perché, allora, il populismo non emerge mai da un “fuori assoluto”, ma cresce all’interno del sistema democratico ed ha, come requisito indispensabile per la sua affermazione, la crisi della vecchia struttura.

 

Stando così le cose, le sue possibilità di successo – ossia di ascendere al potere - sono legate all’entrata del sistema preesistente in un periodo di “crisi organica”. Solo in questo caso, le forze populiste devono fare qualcosa in più che stare sospesi tra la sovversione e la costruzione: devono prendere l’iniziativa di ricostruire la nazione attorno ad un nuovo nucleo popolare, plebiscitariamente interpretato, mitologicamente mobilitante e ideologicamente posto alla base della propria azione politica.

 

Ove, invece, il sistema istituzionale sia largamente auto-strutturato o, pur essendo meno strutturato, pone mano a periodiche ristrutturazioni, in questi casi esso conserva la capacità di relegare ai margini ogni sfida anti-istituzionale e quindi le forze populiste antisistema resteranno minoritarie e lontane dai centri della gestione del potere.

 

 

Populismo e fascismo: quale rapporto, quale pericolo?

 

Il populismo, tradizionalmente, si presta a molti –ismi. Ma il riscontro più interessante è quello con il fascismo... E, d’altra parte, anche il fascismo e il nazismo, non sarebbero approdati alle forme di dominio che conosciamo se non avessero avuto alla base, nella loro insorgenza necessaria, l’elemento populista.

 

è indubbio, infatti, che anche il leader populista si fa interprete della volontà popolare. Nasce dal “ventre dell’antipolitica” ed, in quanto tale, rifugge da qualsiasi forma di rispetto per la democrazia liberale, per le forme di confronto riflessivo, pacato, preferendo, come abbiamo visto, lo scontro, la trasformazione dello spazio del dibattito in un agone da cui solo il più forte, o furbo, uscirà vincitore: che poi sia anche il più bugiardo e politicamente inaffidabile è irrilevante agli occhi del populista.

 

Ma c’è di più. Poiché, per il populista, la legge è sempre di parte, non rispecchianti valori condivisi dalla comunità e per il benessere della comunità a prescindere da ideologie e schieramenti, essa si presta ad essere manipolata per i fini più immediati della gestione del potere. E come la legge anche le istituzioni ed i poteri. E là dove tale controllo non sia possibile, ecco che l’attacco al potere (ad esempio, quello giudiziario) autonomo, che non si piega, ed alla Costituzione che consente una simile indipendenza.

 

In tutto questo, passaggio essenziale è l’utilizzazione del Parlamento – eletto con una legge elettorale solitamente maggioritaria con la previsione di un ampio premio di maggioranza (in Italia, fino all’assurdo della cancellazione delle preferenze che ha trasformato il Parlamento in un club di nominati e cooptati) - come instrumentum regni, come un consiglio di ratificatori al servizio del leader, consiglio che si limita quindi ad approvare i decreti ed i voleri del capo: il Parlamento – o meglio la sua m,maggioranza, quella che sostiene il governo populista - non pensa, approva. E, all’occorrenza, fa quadrato nella difesa della sua guida dagli attacchi dell’avversario spesso dipinto con colori truci come il nemico non solo del leader, ma di tutta la nazione o, persino, della tradizione e della civiltà.

 

Scegliendo come punto di osservazione privilegiato l’Italia contemporanea, si può affermare che come nel regime fascista, modernità e tradizione si presentano nuovamente uniti, collegati, nella destra neopopulista attuale, la quale, in un contesto sociale e culturale profondamente mutato cerca di ottenere consensi mediante meccanismi che hanno molte analogie con il passato.

 

Culto del capo carismatico, disarticolazione delle organizzazioni intermedie, riduzione e lettura atomistica della società, resa “liscia, puntiforme e poltigliosa come un ammasso di coriandoli”, eclettismo ideologico sembrano i motivi di più evidente continuità con il fascismo.

 

Una mescolanza di elementi carismatici, plebiscitari e tradizionalisti caratterizza il bonapartismo (concetto – ricorda Gabriele Turi – usato anche per definire il fascismo) così come il populismo, assieme al controllo dei mezzi che garantiscono il rapporto diretto e centralizzato con il popolo, in primo luogo i mezzi di comunicazione e di informazione. “Il presupposto per stabilire un rapporto diretto governo-popolo – scrive Turi – è la disarticolazione delle forme di aggregazione della società. La ‘partecipazione’ dei cittadini alla vita politica e civile, alla quale poteva ancora richiamarsi nel 1976 Giorgio Amendola come antidoto alla ‘gara di egoismi corporativi’, è venuta meno, prima che l’opera di ottundimento della televisione, con il crollo del sistema dei partiti, che è cominciato a entrare in crisi nel 1979 con la diminuita affluenza alle elezioni”.

 

D’altra parte, un altro illustre storico, Giampiero Carocci, ha sottolineato come “durante gli anni ottanta si fece univoca nella società la spinta verso destra, la negazione dei valori collettivi, il ripiegamento in un ‘privato’ sentito come antagonista del ‘pubblico’, l’affermazione straripante dei valori indirizzati all’individualismo, all’acquisizione, all’autoaffermazione”, un fenomeno comune al mondo occidentale nell’era della Thatcher e di Reagan,nel momento della ripresa del capitalismo dopo la crisi del decennio precedente.

 

Ciò che il fascismo aveva attuato con la violenza (scioglimento dei partiti e delle associazioni) è avvenuto quasi ‘naturalmente’ con il venir meno della forma partito nell’ultimo ventennio, ma anche con l’uso di mezzi capaci di rendere obsolete le forme di comunicazioni tradizionali. Marcello Veneziani si è posto una domanda: “Cosa c’è di destra nel consenso a Berlusconi?”.

 

E la risposta è stata: “C’è il triangolo vincente delle nuove destre: leadership forte, comunicazione diretta e democrazia efficace, senza mediazioni oligarchiche, ideologiche e partitiche. In una parola, populismo.

 

In una accorta miscela di estremismo e moderazione, di arcaismo e ipermodernità, di liberismo e di comunitarismo ideologico, pragmatico, televisivo.” Con l’aggiunta che persino i nomi – Forza Italia o casa delle libertà – evocano sempre aspetti identitari (o calcistico-identitari) comunitaristici o familistico-individualistici (la Casa di proprietà connessa alla libertà – termine, tuttavia, declinato al plurale, che, si ricorda, nella lingua italiana, è sinonimo di “privilegi” o “arbitri”).

 

Come evidenziava già Franz Neumann (Behemoth, 2007) nel suo studio pioneristico sul nazionalsocialismo, l’atomizzazione che lascia isolati gli individui davanti al potere, attuata con l’indebolimento dei gruppi intermedi tra società e Stato, è un fenomeno cui hanno concorso e concorrono fattori diversi: dal liberismo che mira a ridurre gli spazi di intervento dello Stato e il sistema nazionale di welfare, alle proposte di flessibilità nella pubblica amministrazione, alla centralità dell’individuo valorizzato solo all’interno della famiglia, fino alla varietà dei linguaggi e delle tradizioni locali rivendicate in modo esclusivo ed escludente.

 

Oltre a ciò, un altro tratto caratteristico è l’eliminazione del ruolo dell’intellettuale elaboratore di cultura, riducendolo allo ‘scriba’ o al’intellettuale-funzionario tipico dei regimi fascisti.

 

Tutti gli ideologi della destra, non a caso, insistono sulla “decadenza inarrestabile dell’intellettuale, oscillando, come nei regimi fascisti, tra la denigrazione di un soggetto critico del sistema esistente e il tentativo di catturarne il consenso riducendone l’autonomia.

 

Eppure, “nell’attuale scardinamento del ella forma di partito, le destre sembrano riscoprire la funzione connettiva di un ceto intellettuale che nella società di massa e dei mass media si è venuto modificando e moltiplicando: dagli intellettuali ‘tradizionali’ (…) ai giornalisti della stampa e della televisione, ai pubblicitari, ai sondaggisti” (Turi).

 

I quali, è giusto sottolineare, trovano ognuno la sua nicchia espressiva ed il proprio ruolo di creatore di consensi di un assemblaggio di voci, culture e linguaggi diversi e confusi che danno tuttavia origine ad un eclettismo ideologico tipico della dimensione interclassista del populismo. E, anche in questo senso, non si può non tenere a mente il fatto che la forza di attrazione del’ideologia fascista fu il suo eclettismo, dietro il quale gli intellettuali di regime potevano trincerarsi senza essere immediatamente identificati con il fascismo tout court, così’ da facilitare incontri e compromessi con i fiancheggiatori.

 

Non esisteva e non doveva esistere una cultura “fascista”, affermò Giovanni Gentile: la cultura doveva essere “nazionale”, come scrisse Delio Cantimori nel Dizionario di politica del Pnf del 1940. E come Gentile e il fascismo avevano come nemico il socialismo, nel comunismo e nel giolittismo, cioè in un sistema di potere considerato corruttore delle forze nazionali, così l’odierno populismo italiano ha come nemico un comunismo di comodo, rievocato in Italia proprio nel momento in cui finiva la sua esistenza nel resto del mondo all’indomani del 1989 e della caduta del Muro.

 

In realtà, come è facile vedere, l’egemonia della cultura di sinistra è un argomento usato ad deterrendum, ripetuto fino alla noia per obiettivi che di culturale hanno poco, ma di politico tanto ed ai quali è funzionale anche una “riverniciatura del fascismo come regime tollerante”.

 

Senza contare l’attacco contro la scuola pubblica, laicamente intesa, i cui insegnamenti, agli occhi delle destre, sono inficiati da un’ideologia di sinistra e, all’interno della polemica contro la scuola e la libertà di insegnamento (ossia contro due cardini della Costituzione repubblicana), le bordate contro i manuali di storia, anch’essi manipolati dalla cultura e dai paradigmi storiografici di discendenza marxista.

 

Tale attacco si riverbera anche contro la Resistenza, se è vero quanto sostiene Gian Enrico Rusconi, il quale sottolinea come “dopo decenni di democrazia ci sono ancora politici e studiosi che torcono il naso di fronte all’evidenza storica che la repubblica abbia come atto fondante la Resistenza. E che quindi la sua cultura politica debba cominciare da qui. Ritengono invece che l’antifascismo sia una cultura dell’avversario politico anziché una componente della comune cultura repubblicana”.

 

Tutto ciò rilevato, tuttavia, occorre porre in evidenza anche le differenze tra i due sistemi, il populista e il fascista. Esse si possono esplicitare in sei punti essenziali:

- manca nel populismo un progetto totalitario, tipico dei regimi fascisti o totalitari. Non hanno di mira il controllo dei cittadini “dalla culla alla tomba” e sono lontani dal tentativo di inquadramento dell’intera popolazione della nazione;

- manca un collegamento stabile con un partito-esercito a vocazione egemonica e non ha tra i suoi programmi la militarizzazione della società;

- risulta molto più sfumato, moderno, il tentativo di indottrinare le masse, le quali solo indirettamente vengono chiamate a prestate il loro consenso alla politica di governo, facendo leva sull’efficientismo e sul pragmatismo piuttosto che su una spinta ideale o progettuale;

- più che esclusivamente sulle classi medie, le forze populiste tentato di cooptare anche sugli strati popolari in una miscellanea programmatica contraddittoria, eclettica e interclassista;

- è decisamente meno sviluppato il richiamo alle mitologie razziali, preferendo, al limite, contaminare gli aspetti etnici con quelli a più rilevanza economica.

- manca il ricorso alla violenza fisica ed alla costrizione palese per i dissidenti, così come è assente qualsiasi forma di prospettiva concentrazionaria.

 

 

Tv, web e fenomeni populisti

 

A differenza dei movimenti populistici tradizionali, quelli moderno non posso prescindere da un uso massiccio della televisione. Tradizionalmente essi, quando scendevano in campo, costruivano un’organizzazione stabile, un radicamento sociale, territoriale, raccogliendo tessere e militanti.

 

Questo, in alcuni di questi movimenti è avvenuto ancora, anche in tempi recenti, come ad esempio la Lega Nord. Tuttavia, l’uso del mezzo televisivo è ormai imprescindibile. In tal senso l’esempio più clamoroso, probabilmente, viene da Forza Italia, che, con spot e messaggi, grazia all’abilità comunicativa del suo leader, Silvio Berlusconi, si è affermata innanzi tutto mediate i canali televisivi.

 

Una forma nuova di costruzione di un partito e del suo leader, che lasciava intravedere quanto Forza Italia e Berlusconi non fossero in realtà i prodotti diretti di un movimento politico insidiato e radicato nel territorio.

 

Come scrive Diego Giachetti, “essi diedero forma, vita, idee a un’ ‘attesa’ e a un bisogno che già albergava nella società. Una domanda di rappresentanza politica da parte di una ‘moltitudine’, sparsa, frammentata, individualizzata, colta bene nell’apparente paradossale messaggio pubblicitario di Berlusconi ‘presidente operaio’”.

 

Nel caso di Berlusconi, ovviamente, oltre alla sua abilità comunicativa, c’è da aggiungere la conoscenza del funzionamento del mezzo televisivo che è divenuto ‘asse portante di una nuova modalità della campagna elettorale e del modo di veicolare il messaggio politico.

 

L’uso della televisione è risultato efficace perché si è immesso in una società frammentata, composta da una moltitudine atomizzata e poltigliosa. Il mezzo televisivo ha colmato quel vuoto di relazioni sociali e solidali dovute all’indebolimento delle istanze collettive che definiscono l’appartenenza, ha costruito virtualmente un legame tra esseri isolati. Apparentemente la televisione ha avvicinato il politico al cittadino, introducendolo in ogni casa, girono dopo giorno, spettacolo dopo spettacolo.

 

Ciò, secondo Donatella Campus, ha condotto i contadini in un mondo immaginario, virtuale, leggero, lontano dalla propria esperienza quotidiana e di vita. E non si creda che tale assuefazione e rappresentazione siano dovute solo ai messaggi politici.

 

In realtà, ancor prima, il compito di stabilire un rapporto diretto con il leader e il suo modo di vedere il mondo, sono stati le telenovelas, le televendite, gli spettacoli popolari, i talk show: questi hanno creato un “rapporto quasi carnale” (Lazar, Democrazia ala prova. L’Italia dopo Berlusconi, 2007) tra gli spettatori che osservano il mondo dall’oblò del loro televisore e il leader che, senza che loro se ne accorgano, li plasma, li modella - usando emozioni, empatia, comunicazione - per avvicinarli sempre più ad un progetto politico di egemonia plebiscitaria.

 

Come sostiene ancora Marc Lazar, “la televisione è diventata la scena più importante della vita politica, se non è l’unica; tende ad eclissare altri luoghi”, verso i quali esprime diffidenza e critica. Di fatti, di volta in volta, sono presi di mira l’èlite culturale e il ceto politico tradizionale, i meccanismi decisionali della democrazia rappresentativa, accusati di frenare e intralciare l’agire secondo un’ottica aziendale basata sull’efficienza, sul decisionismo, sull’assunzione dell’iniziativa e della responsabilità del manager prestato alla politica. A questa forma di democrazia si tende a sostituire un’altra che esalta l’individualismo e l’individuo, “colui che forgia il proprio destino con la propria intelligenza. (…) L’individuo libero, l’agente economico razionale, piuttosto che il cittadino che si unisce ad altri al termine di un atto volontario e contrattuale. La democrazia non ha soltanto la vocazione di favorire e garantire la pienezza dell’individuo: essa deve essere messa al servizio dei suoi interessi”.

 

La televisione da rappresentazione a questo sentire e modo di pensare. E contemporaneamente, rappresentandolo, mettendolo nel circuito della comunicazione, lo fa diventare familiare e modella quello stesso tipo di società.

 

Nuovi scenari populisti, poi, si sono aperti col Web, con la Rete, e questo è un altro capitolo importante che si è cominciato a scrivere. La Rete è un veicolo che contribuisce a diffondere e moltiplicare sospetti, ansie, diffidenze che provengono da una folla che vuole farsi avvertire, che lancia i suoi messaggi per bloccare le logiche perverse dei potenti che schiacciano gli umili, che scrivono a loro modo la storia del mondo.

 

Nel populismo che viene dal Web, dalla Rete, trova posto in primo luogo una domanda di democrazia digitale (come viene chiamata) , diretta, fuori dai canali tradizionali. E può esprimersi poi un bisogno apocalittico di demolizione delle impalcature della politica.

 

Indubbiamente il populismo contemporaneo si nutre di questo abbattimento di ogni limite alla comunicazione e può operare su di uno spazio più esteso di interrelazioni: il soggetto-popolo viene ad essere più e rafforzato, ha più voce, ha maggiore spessore rispetto alla sua stessa rappresentanza.

 

Il Web diventa un nuovo totem e con esso anche i messaggi, più o meno controllati e controllabili, che in esso circolano. Ma tutto finalizzato alla costruzione di una tipologia di populismo che, in molti casi, non differisce fenomenologicamente da quello conosciuto fino ad ora.

 

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