N. 71 - Novembre 2013
(CII)
L’IDRA DALLE TANTE TESTE
A proposito di POPULISMO - Parte i
di Giuseppe Tramontana
Che
cos’è
il
populismo?
Per
capire
in
quali
termini
si è
venuta
ponendo
una
“questione
populismo”,
quali
sono
i
suoi
nodi
più
problematici,
è
opportuno
guardare
da
tutti
i
possibili
lati
una
“idra
dalle
cento
teste”,
di
riportare
insomma
su
un
terreno
più
fermo
un
fenomeno
sfuggente,
preso
soprattutto
come
una
somma
di
negatività,
di
ricondurlo
ad
una
idea
che
lo
definisca
chiaramente
anche
per
quanto
ne
può
caratterizzare
la
sua
opposizione
e
contrarietà
a
quelli
che
sarebbero
i
“nemici
del
popolo”.
È
possibile
anche
nel
variare
dei
tempi
storici
e
nella
diversità
delle
ontologie
regionali,
cogliere
delle
costanti
sulla
cui
base
identificare
una
“ragione
populista”.
Oggi
ad
esempio
ci
si
dovrebbe
chiedere
quale
fascia
sociale
sente
di
più
come
veri
traumi
gli
effetti
del
cambiamento
–
globalizzazione,
informatica,
bioetica
– ed
avverte
anche
traumaticamente
decisioni
economiche
dell’Europa,
potere
della
tecnocrazia,
immigrazione:
si
capirebbe
di
che
si
alimenta
il
populismo
e
contro
chi
combatte.
“Il
populismo
– ha
scritto
Franco
Crispini
(Del populismo – indicazioni di lettura,
2011)
- va
comunque
osservato
e
letto
possibilmente
fuori
dalle
forme
più
provvisorie
dell’antipolitica
che
solo
superficialmente
fornisce
ad
esso
qualche
ragione
in
più”.
Come
dargli
torto?
Il
populismo,
sia
o
meno
una
“democrazia
del
pubblico”,
abbia
o
meno
come
nemico
la
modernità,
veda
o
meno
la
politica
come
scontro
tra
il
Bene
e il
Male,
denunci
o
meno
le
trame
occulte
di
conventicole
ricche
e
potenti,
continua
ad
essere
espressione
di
un
legame
con
sentimenti
diffusi,
popolari,
in
molti
casi
di
ostilità
a
tanti
modi
di
manifestarsi
e
strutturarsi
delle
società
contemporanee.
Restano
non
pochi
margini
di
ambiguità
che
accompagnano
le
spinte
populiste
e la
loro
convivenza
con
i
sistemi
politici
democratici.
Il
populismo
va
comunque
osservato
e
letto
possibilmente
fuori
dalle
forme
più
provvisorie
dell’antipolitica,
anche
se,
in
molte
occasioni,
quest’ultima
rappresenta
l’utile
terreno
di
coltura
del
primo.
Molti
sono
i
significati
del
populismo.
Esso,
come
l’ha
chiamato
Alfio
Mastropaolo
(La
mucca
pazza
della
democrazia,
2005,
il
quale,
in
verità,
preferisce
il
termine
‘Nuove
destre’),
è la
“mucca
pazza
della
democrazia”,
cioè
il
frutto
dei
“maltrattamenti
cui
è
stata
sottoposta,
in
Europa,
la
democrazia
da
parte
delle
sue
classi
dirigenti”.
Ma
non
è la
sola
definizione
che
si
può
fornire.
Senza
entrare
nelle
questioni
etimologiche,
possiamo
ricordare,
con
Massimo
Cacciari,
che
“populismo
è
accondiscendere
al
peggiore
dei
cattivi
proverbi:
che
la
voce
del
popolo
è la
voce
di
Dio.
Da
cui
ovviamente
il
corollario:
che
lo
sia
altrettanto
la
voce
che
a
quella
del
popolo
fa
scimmiesca
eco”.
Dunque,
fermo
restando
che
il
populismo
è
l’ideologia
del
popolo
ed
in
questo
non
è
molto
diverso
dalla
democrazia,
rispetto
a
quest’ultima
presenta
una
differenza
di
non
poco
conto:
il
populismo
emargina
–
anzi
esclude
- un
elemento
che
è
molto
importante
per
la
democrazia,
ossia
la
limitazione
del
potere
e la
difesa
dello
stato
di
diritto.
È
questa
la
radicale
differenza
tra
democrazia
costituzionale
e
democrazia
populista.
Nella
prima,
come
pone
in
rilievo
Ettore
Gliozzi
(Legalità
e
populismo,
2011),
la
sovranità
popolare
trova
un
limite
nelle
norme
costituzionali
(art.
1
della
Costituzione
Italiana:
“…
la
sovranità
appartiene
al
popolo
che
lo
esercita
nelle
forme
e
nei
limiti
della
Costituzione”),
all’interno
delle
quali
va
inquadrata,
gestita
e
valorizzata;
mentre,
nella
seconda,
la
sovranità
popolare
ha
un
valore
superiore
ad
ogni
principio
di
giustizia
e ad
ogni
regola
di
diritto
positivo,
secondo,
peraltro,
il
modello
descritto
da
Aristotele,
nella
Politica.
Come
scrive
Hannah
Arendt,
a
proposito
della
Rivoluzione
americana,
“sede
del
potere
era
il
popolo,
ma
fonte
della
legge
doveva
essere
la
Costituzione,
un
documento
scritto,
una
cosa
oggettiva
e
permanente,
che
naturalmente
poteva
essere
vista
sotto
diversi
aspetti
e di
cui
si
potevano
dare
diverse
interpretazioni,
che
si
poteva
cambiare
ed
emendare
secondo
circostanze,
ma
che
tuttavia
non
poteva
mai
essere
uno
stato
d’animo
soggettivo,
come
la
volontà”.
E
precisa:
“la
Costituzione
è
quindi
un’entità
concreta,
tangibile,
più
duratura
delle
elezioni
o
dei
sondaggi
d’opinione.
Anche
quando
(…)
la
supremazia
della
Costituzione
fu
considerata
‘solo
in
base
al
suo
essere
radicata
nella
volontà
popolare’”
(H.
Arendt,
Sulla
rivoluzione,
1999.
Ma
non
solo.
Andando
oltre
gli
addentellati
di
legittimazione/esplicitazione
giuridica,
è
populistica
la
politica
che
occulta
la
complessità
dei
problemi.
Inoltre,
al
di
là
delle
diversità
tipologiche
(di
cui
parleremo
più
oltre),
il
populismo
sottomette
al
totem
della
naturale
bontà
dei
nostri
(il
popolo,
il
gruppo
endogeno),
ogni
interesse,
il
quale
potrebbe
essere
facilmente
soddisfatto
(e
renderci
felici)
se
non
fosse
costantemente
attaccato
dall’estraneo,
dal
gruppo
esogeno,
dal
nemico,
insomma.
Ciò
crea
un
miscuglio
di
libertà
e
anarchia,
obbedienza
e
licenza.
Ma
soprattutto
produce
una
vaga,
ma
certa
sicurezza
nella
giustezza
delle
proprie
ragioni,
contrapposta
a
quelle
(sbagliate)
degli
altri,
che
genera
aggressività,
angoscia
e
insicurezza.
Insomma,
abbiamo
un
popolo
depositario
esclusivo
dei
valori
positivi,
attorniato
da
gruppi
di
nemici
–
spesso
temibili,
potenti,
e,
ancora
più
spesso
occulti
e
infidi
-
che
lavorano
nell’ombra
ordendo
complotti
e
sabotaggi.
Il
popolo
di
cui
stiamo
parlando
è
visto
in
due
modi:
come
massa
salvifica
e
come
massa
incolta.
La
contraddizione
è
solo
apparente.
Il
proprio
popolo
è la
salvezza.
È
comunque
superiore
agli
altri
popoli,
anche
là
dove,
ormai,
non
si
parla
per
pudore
di
superiorità
ma
di
‘diversità’:
si
tratta
di
una
diversità
che
nasconde
ipocritamente
il
discorso
vero
sulla
nostra
migliore
diversità
per
una
superiore
religione,
tradizione,
cultura,
etnia,
razza…
Tuttavia,
è n
popolo
incolto
che
abbisogna
di
un
capo
carismatico,
il
quale,
nato
dal
popolo,
sa
farsi
interprete
della
sua
volontà
e
dei
suoi
desideri,
sa
comprendere
le
sue
paure
ed
insicurezze
e,
proprio
per
ciò,
viene
da
esso
elevato
alla
sua
guida.
È
colui
che
si
erge
a
protettore
dei
valori
del
popolo.
Colui
che
sa
leggere
nella
“psicologia
delle
folle”
e le
sa
manovrare
(Gustave
Le
Bon,
Psicologia
delle
folle,
2004).
È
colui
che
agisce
in
nome
del
popolo.
Ma
cos’è
il
popolo?
Il
popolo
-
non
una
classe
o
una
élite
-
senza
distinzione
di
ricchi
e
poveri,
operai
ed
industriali,
borghesi
e
proletari,
contadini
e
proprietari
terrieri
è
considerato
sempre
unitariamente.
È
uno.
Esso
è
già
formato
ed
ha
piena
coscienza
di
sé.
È la
maggioranza
–
spesso
silenziosa
–
che
lavora,
paga
le
tasse,
è
tranquilla,
e
sopporta
il
peso
dei
sacrifici.
Il
silenzio,
in
particolare,
è la
sua
virtù
più
grande:
silenzio
contro
il
clangore
di
una
minoranza
chiassosa
e
caciarona:
i
politicanti.
Sono
una
maggioranza
quantitativa,
numerica:
per
i
populisti
è
l’aspetto
più
rilevante.
Se
in
caso
di
sciopero,
in
Italia,
scendono
in
piazza
tre
milioni
di
cittadini,
il
populista
non
si
scomporrà:
saranno
molto
di
più
quelli
che,
non
aderendo,
hanno
implicitamente
dimostrato
di
essere
contro
la
mobilitazione!
D’altra
parte,
caratteristica
dei
vari
populismi
è
l’attacco
alla
democrazia
rappresentativa.
Un
attacco
che
mostra
sostanzialmente
un
rosario
di
contumelie
standardizzato.
Allora,
la
democrazia
(rectius,
la
politica)
diventa
farraginosa,
parolaia,
un
teatrino
e
quindi
inutile,
immobile
e
dannosa,
spendacciona
e
scialacquatrice
dei
denari
dei
contribuenti.
In
ogni
campo,
la
misura
di
delegittimazione,
diventa
anzi,
proprio
il
fattore
economico:
tutto
viene
tarato
in
base
ai
costi
a
carico
dei
cittadini,
compresa
la
gestione
della
giustizia
o la
tutela
dei
beni
storico-monumentali
unici
e
irripetibili.
Varie
sono
state,
nella
storia,
le
manifestazioni
di
populismo.
Dal
populismo
di
Ignatius
Donnelly,
fondatore,
nel
1892,
del
Partito
del
Popolo
americano
e
promotore
della
Omaha
Platform,
di
ispirazione
rural-contadina,
al
populismo
dei
narodniki
russi
di
Aleksandr
Herzen,
(con
anche
qui
il
contadino
visto
come
il
depositario
dell’antica
ed
intramontabile
saggezza
russa),
dal
populismo
dell’America
Latina,
di
cui
sono
stati
espressione
il
brasiliano
Vargas
e
l’argentino
J.
D.
Peròn,
per
arrivare
a
forme
di
populismo
più
nostrane
(L’Uomo
Qualunque
di
Guglielmo
Giannini),
moderne
(Le
Pen
in
Francia,
Collor
de
Mello
in
Brasile,
Menem
in
Argentina,
Ross
Perot
negli
USA,
Alberto
Fujimori
in
Perù,
Slobodan
Milosevic
in
Serbia,
Haider
in
Austria,
ecc…)
o
nostrane
e
moderne
(la
Lega
di
Bossi,
Forza
Italia
di
Berlusconi
e,
secondo
alcuni,
il
Movimento
5
stelle
di
Grillo).
Il
tutto
passando
per
posizioni
populistiche
implicite
nel
fascismo
o
trasparenti
in
seno
allo
stesso
movimento
comunista
internazionale
(come
i
casi
–
posti
in
rilevo
di
recente
da
Domenico
Losurdo
(La
lotta
di
classe,
2013)
– di
Simone
Weil
e
Pierre
Pascal
in
relazione
alla
rivoluzione
bolscevica
del
1917).
Le
tipologie
Qualcuno
(Pierre-André
Taguieff,
L’illusione
populista,
2006)
distingue
tra
un
populismo
movimentista,
un
populismo-regime,
un
populismo-ideologia
o
populismo-atteggiamento
e un
populismo
retorico.
Il
primo
è,
forse,
il
vero
populismo,
che
nasce
in
funzione
di
protesta
o
“tribunizia”.
È
quello
volto
a
canalizzare
il
malcontento,
a
sfruttare
simbolicamente
l’irruzione
popolare
nello
spazio
politico,
facendosi
carico
delle
insoddisfazioni
di
massa
e
proponendo
un
modello
di
transizione
sociale
verso
una
migliore
società.
Solitamente
tra
i
tipi
di
populismo
politico,
gli
studiosi
distinguono
un
populismo
protestatario
e
uno
identitario,
con
la
ovvia
presenza
di
una
contaminazione
tra
i
due.
Il
primo,
quello
protestatario,
ha
come
cavallo
di
battaglia
la
tematica
antifiscale
(sia
a
destra
che
a
sinistra),
la
contestazione
dell’establishment
(sia
a
destra
che
a
sinistra),
la
messa
in
discussione
dello
stato
sociale
(a
destra),
lo
sciovinismo
del
benessere
come,
a d
esempio
la
riserva
delle
prestazioni
sociali
solo
ai
membri
della
nazione
– i
‘cittadini’
(a
destra),
la
ricezione
del
sistema
bipolare
maggioritario.
Lo
sviluppo
di
simili
tematiche
lo
ritroviamo
nel
populismo
svizzero
come
nel
neopopulismo
dei
Paesi
scandinavi,
nella
FPO
austriaca
e
nel
Partito
del
Progresso
norvegese,
nei
Republikaner
tedeschi
e
nel
Centro
Democratico
Olandese,
nella
Lega
Nord,
nel
Front
National
francese
e in
quello
belga.
Secondo
alcuni,
anche
nel
M5S
italiano.
Il
populismo
identitario,
invece,
mescola
il
nazionalismo,
l’etnicità
con
i
riferimenti
culturali
e
religiosi.
Fa
leva
su
di
essi
per
caratterizzare
in
senso
‘etnico’
o
territoriale
la
propria
proposta
politica.
E
tale
caratterizzazione
sfocia
immancabilmente
in
posizioni
secessioniste
o,
più
di
rado,
autonomistiche
(anche
se,
essendo
per
sua
natura
il
populismo
movimentista
ed
estremista,
le
posizioni
tendono
inevitabilmente
a
scivolare
verso
il
secessionismo):
è il
caso
sempre
della
Lega
Nord,
ma
anche
del
Nieuw-Vlaamse
Alliantie fiammingo,
lo
Scottish
National
Party
e
Convergència
i
Unió
catalana.
Molto
interessante,
peraltro,
è il
risultato
fornito
dall’intreccio
delle
due
tipologie
di
populismo
politico,
il
protestatario
e l’identitario.
In
esso,
convivono
naturalmente
gli
elementi
di
entrambe
le
categorie,
arricchite
solitamente
da
ulteriori
(e,
per
certi
aspetti,
nuovi)
caratteri.
Vediamone
almeno
tre:
1)
L’anti-intellettualismo.
Che
fa
da
pendant
con
l’esaltazione
del
sapere
spontaneo
del
popolo,
con
la
sua
saggezza
ancestrale,
contro
la
“cultura
alta”,
quella
degli
intellettuali,
dei
funzionari,
dei
burocrati,
delle
“teste
d’uovo”,
sempre
al
servizio
del
potere
e
sempre
pronti
a
manipolare
il
popolo
e la
sua
coscienza,
raccontando
frottole
e
menzogne.
Gli
intellettuali
vengono
presentati
come
i
“servi
del
regime”,
i
“devastatori”
della
vera
cultura
tradizionale,
i
fomentatori
di
odi
e
divisioni
(in
tal
caso
sono
anche
comunisti),
al
soldo
di
qualche
apparato
segreto
dedito
ad
arricchirsi
–
mediante
complotti
e
stratagemmi
–
alle
spalle
del
popolo
ignaro
(in
tal
caso,
spesso,
sono
anche
ebrei);
2)
L’iperpersonalizzazione.
Che
trova
fondamento
–
come
è
stato
già
rilevato
- in
una
straordinaria
figura
carismatica
di
capo
(Peròn,
Le
Pen,
Berlusconi,
Bossi,
Haider,
Vargas),
la
cui
vita
viene
ricostruita
con
colori
oleografici
e
data
in
pasto
alla
‘gente’.
Si
sottolinea,
solitamente,
il
successo
sociale
del
leader,
l’onestà,
la
sincerità,
la
generosità,
il
darsi
agli
altri,
la
semplicità,
la
capacità
di
comunicare
con
e
comprendere
il
popolo,
la
disponibilità;
3)
Difesa
dei
valori
del
liberalismo
economico.
Che
viene
appunto
difeso
ovunque,
senza
distinzione
tra
piccola
e
media
o
grande
impresa.
Viene
esaltata
la
proprietà
privata
e si
mostra
preferenza
per
alcune
categorie
professionali
come
imprenditori,
contadini,
il
settore
delle
professioni
liberali.
Altre
categorie
vengono,
invece,
stigmatizzate,
accusate
di
essere
serve,
parassitarie
o
fannullone
(giornalisti,
insegnanti,
impiegati
pubblici).
Altre
categorie,
poi,
vengono
inoltre
colpite
ed
esposte
al
pubblico
ludibrio
per
la
loro
“devianza
sociale
o
morale”:
è il
caso
degli
artisti
–
tutti
tendenzialmente
drogati
e/o
omosessuali.
Il
populismo-regime,
invece,
è di
stampo
autoritario
o
semiplebiscitario
ed è
tipico
del
movimento
populista
diventato
regime,
cioè
asceso
al
potere.
È la
forma
di
governo
noto
come
“cesarismo”,
“bonapartismo”
o,
più
di
recente,
“peronismo”.
Può
conciliarsi.con
alleanze
in
coalizioni
che
formalmente
rispettano
le
norme
del
pluralismo
democratico.
In
molti
casi,
legittimano
la
loro
vocazione
populista
mediante
un’interpretazione
ad
hoc
delle
norme
costituzionali:
anche
se
tali
norme
non
hanno
di
per
sé
un
contenuto
populista
o,
addirittura,
sono
concepite
proprio
in
funzione
antipopulista.
Spesso,
tutto
inizia
da
riforma
elettorale
(e,
in
tal
caso,
il
sistema
privilegiato
è il
maggioritario,
che
da’
la
maggior
garanzia
per
la
personalizzazione
della
politica
mediante
l’instaurazione
di
un
rapporto
diretto
tra
capo
e
corpo
elettorale)
e,
via
via,
da
riforme
costituzionali
mirate.
In
questo
regime
il
capo
carismatico
–
come
rileva
Max
Weber
(La
politica
come
professione
in
Il
lavoro
intellettuale
come
professione,
1966)
–
non
esprime
o
trasmette
ideologia,
ma
la
crea
e
l’incarna,
dandole
legittimità.
Il
populismo-ideologia
più
che
una
dottrina
coerente,
è
una
tradizione
politico-culturale.
Perno
è
l’esaltazione
del
popolo,
come
abbiamo
visto,
contrapposto
alle
élites
(intellettuali,
burocrati,
funzionari…).
La
salvezza
sta
nel
popolo.
O
meglio
nel
popolo
risvegliato
dal
leader
carismatico.
In
quanto
atteggiamento,
può
essere
sia
di
destra
che
di
sinistra.
Il
populismo
retorico
ha
come
base
di
radicamento
la
televisione
e,
oggi,
anche
i
sistemi
informatici
tipo
internet.
È
quello
che
viene
chiamato
(Ernesto
Laclau,
La
ragione
populista,
2008))
“neopopulismo”.
Si
manifesta
con
un
appello
al
popolo
a
forte
contenuto
immaginativo-affettivo.
Speso,
nell’epoca
della
globalizzazione,
è un
appello
pro
ipse
populo
e
contra
barbaros
(extracomunitari,
stranieri
migranti,
zingari…).
Tutto
ruota
attorno
alla
lusinga
delle
masse
popolari
e si
manifesta,
secondo
Taguieff,
come
demagogia
che
corrompe
il
dibattito
democratico
giacché
alla
valorizzazione
positiva
del
(proprio)
popolo
si
accompagna
la
canalizzazione
del
risentimento
contro
altri
gruppi
sociali,
soprattutto
stranieri,
privilegiati
(spesso,
ad
onta
di
qualsiasi
veridicità
storica,
i
due
termini
–
stranieri
e
privilegio
–
vengono
affiancati),
elite
giudicate
indegne
o
incapaci.
Le
idee
portanti
Caratteristiche
comuni
ai
diversi
tipi
di
populismo
sono,
allora:
1)
l’esistenza
di
un
leader
carismatico
con
una
straordinaria
capacità
di
mobilitare
le
classi
popolari,
soprattutto
urbane,
di
cui
è
possibile
osservare
lo
stato
di
“disponibilità”
o
“conquista”;
2)
la
stessa
esistenza
del
leader
carismatico
comporta
quella
che
viene
chiamata
una
“ipersoggettivizzazione”
(Laclau)
o
“iperpersonalizzazione”
(Mény)
dei
movimenti
e
dei
regimi
di
tipo
populista;
3)
il
legame
diretto
e
personale
tra
lo
stesso
capo
e le
masse.
Il
condottiero,
la
guida,
è il
portavoce
e
protettore
o
benefattore
del
popolo,
o
almeno
della
maggioranza
di
esso.
E se
la
maggioranza
è
povera,
diseredata,
“descamisado”,
egli
è il
suo
protettore.
Ma
ciò
che
più
conta
è
che
è
assente
qualsiasi
mediazione
tra
vertice
e
base,
manca
qualsiasi
livello
intermedio,
mentre
la
guida
fonda
il
suo
carisma
sulla
rapidità
con
cui
intende
realizzare
gli
obiettivi
promessi;
4)
In
molti
casi,
là
dove
le
condizioni
lo
richiedono,
l’accento
dei
discorsi
del
leader
populista
cade
sulla
nazione
o
sulla
sua
indipendenza.
In
molti
casi,
si
parla
di
indipendenza
territoriale
(come
dimostrano
i
vari
movimenti
populistico-secessionisti
presenti
in
tutta
Europa),
ma
in
molti
altri
tale
indipendenza
è di
carattere
politico:
si
parla
di
indipendenza
dagli
interessi
stranieri
(come
nel
caso
della
Dichiarazione
di
indipendenza
economica
di
Juan
Domingo
Peròn
del
9
luglio
1947
con
la
quale
si
denunciavano
i
legami
“dominanti
del
capitalismo
straniero
in
Argentina”
e si
proponeva
di
“recuperare
i
diritti
e i
controlli
che
ci
appartengono
e le
ricchezze
economiche
nazionali”.
In
questa
fattispecie
rientra,
peraltro,
anche
il
populismo
cosiddetto
“euroscettico”
ossia
quell’insieme
di
posizioni
critiche
vero
l’Unione
Europea,
dalla
quale
si
chiede
l’uscita,
in
nome
della
difesa
delle
peculiarità
e
degli
interessi
nazionali;
5)
Altro
elemento
rilevante
appare
essere
la
strategia
di
incorporazione,
di
integrazione
o di
cooptazione
delle
classi
popolari
per
preservare
un
“ordine
oligarchico”.
Questa
strategia
si
manifesta
attraverso
l’alleanza
di
gruppi
sociali
dagli
interessi
contraddittori,
se
non
addirittura
conflittuali,
ma
sostenuta
sempre
da
una
dottrina
di
collaborazione
fra
le
medesime
classi.
Ciò
conduce
(6)
alla
costruzione
di
un
partito
trans
classista
a
vocazione
maggioritaria
capace
di
andare
incontro
ad
un
elettorato
a
sua
volta
interclassista.
Ne
consegue,
ancora,
(7)
l’importanza
del
discorso
programmatico
(o
del
programma
elettorale),
ammantato
sempre
di
nobili
ideali
(spesso
di
efficienza),
cui
è
affidata
la
funzione
di
legittimazione
politica
del
movimento
e
(8)
la
designazione
dello
Stato
quale
responsabile
dello
sviluppo
e
risolutore
di
ogni
problema,
ovviamente
una
volta
che
il
partito
o
movimento
populista
conquisterà
il
potere.
Il
desiderio
di
compromesso
è
reso
evidente
dal
tentativo
di
rispondere
a
tutte
le
aspettative,
di
soddisfare
le
domande,
anche
le
più
contraddittorie,
di
conciliare
gli
interessi
opposti.
Il
rapporto
tra
populismo
e
democrazia
rappresentativa
Quanto
al
rapporto
democrazia-populismo,
è
fiorita
una
letteratura
critica
di
grande
ampiezza
negli
anni
tra
il
secondo
Novecento
e
quelli
più
vicini
a
noi,
mano
a
mano
che
la
caduta
delle
ideologie,
la
crisi
del
sistema
dei
partiti
ed
altri
pilastri
reggenti,
hanno
prodotto
fattori
di
indebolimento,
di
lacerazione,
di
conflittualità
interna
se
non
proprio
determinare
una
“incompatibilità”
tra
modalità
democratica
e
istanze
popolari
(populistiche).
Nel
vasto
panorama
di
diagnosi
e
terapie
circa
l’impatto
del
populismo
sui
sistemi
di
democrazia
rappresentativa,
da
ultimo
è
utile
vedere
quel
che
ne
scrive
Tzvetan
Todorov
(Les
ennemis
intimes
de
la
dèmocratie,
2012).
Tuttavia,
prima
di
definire
il
populismo
un
“cancro”
o un
“toccasana”
della
democrazia,
è
utile
comprendere,
come
sottolinea
Ettore
Gliozzi,
che
“non
bisogna
sopravvalutare
le
capacità
demiurgiche
degli
uomini
politici.
Costoro
possono
ricorrere
ai
mezzi
più
spregiudicati
per
assicurarsi
il
consenso
popolare,
ma i
risultati
sarebbero
scarsi
se
la
società
civile
fosse
fedele
ai
principi
di
giustizia
che
stanno
alla
base
della
democrazia
costituzionale”.
In
effetti,
la
demagogia
populista
avrebbe
ben
poche
possibilità
di
successo
se
la
maggioranza
dei
cittadini
fosse
convinta
dell’importanza
di
riconoscersi
reciprocamente
come
persone
libere
ed
uguali,
in
grado
di
pervenire
al
governo
della
cosa
pubblica
e di
quella
privata
mediante
l’utilizzo
di
quella
che
kantiamente
possiamo
chiamare
ragion
pratica.
Naturalmente,
come
spiegano
Yves
Meny
e
Yves
Surel,
spesso
il
legame
tra
maggioranza
e
rappresentanti
si
lacera
per
due
problemi:
la
corruzione
dei
politici
della
classe
al
potere
(e
se
la
corruzione
si
inquadra
all’interno
di
un
complessivo
decadimento
sociale
e
politico)
e la
messa
in
crisi
del
sistema
politico
da
parte
di
“interessi
particolari”.
Eppure,
resta
il
fatto
che,
affinché
il
modello
di
democrazia
populista
possa
imporsi,
occorre
che
la
maggioranza
dei
cittadini
non
creda
più
nei
principi
costituzionali
di
giustizia,
che
non
si
senta
affatto
eguale
ai
propri
simili,
che
di
conseguenza
non
sia
disposta
a
concedere
agli
altri
la
stessa
libertà
e le
stesse
opportunità
che
rivendica
per
sé.
La
democrazia
populista
può
quindi
imporsi
quando
nella
società
comincia
a
diventare
dominante
l’idea
che
tanto
la
competizione
politica
quanto
la
vita
sociale
si
riducano
sempre
a
rapporti
di
forza
e
che,
perciò,
sia
legittimo
ricorrere
all’inganno
per
conquistare
posizioni
di
potere.
Come
evidenzia
ancora
Gliozzi,
è
“l’atteggiamento
scettico
sui
principi
costituzionali
di
giustizia”
che
indebolisce
le
democrazie
costituzionali,
favorendone
la
trasformazione
in
democrazie
populiste.
Come
già
metteva
in
risalto
Emile
Durkheim
(Il
suicidio,
1969),
è
una
legge
sociologica
nota
quella
per
la
quale
un
diffuso
scetticismo
sui
valori
fondanti
e
fondamentali
della
società,
la
fa
cadere
in
uno
stato
di
anomia,
in
una
situazione
“nella
quale
non
si
distinguono
più
le
pretese
legittime
da
quelle
che
passano
la
misura,
e
non
vi è
nulla
che
non
si
pretenda.
È
questa
una
situazione
assai
grave,
nella
quale
non
si
sa
più
scegliere
in
modo
argomentato
e
razionale
poiché
ogni
criterio
di
riferimento,
ogni
elemento
fondante,
sembra
divelto,
sicché
anche
i
principi
giuridici
fondamentali
in
vigore
appaiono
privi
di
giustificazione
storica
e
razionale
e
vengono
dunque
percepiti
come
finzioni
pubbliche,
astruserie
da
politicanti,
da
rispettare
finché
si è
costretti
al
rispetto
per
timore
delle
sanzioni,
ma
da
trasgredire
ogni
qualvolta
se
ne
presentino
la
convenienza
e
l’occasione.
Misurare
il
grado
di
anomia
di
una
società
vuol
dire
misurarne
la
debolezza.
E la
di
conseguenza
la
probabilità
che
si
tramuti
in
una
democrazia
populista.
Cioè
in
una
democrazia
in
cui
la
convinzione
diffusa
è
che
tutti
i
rapporti
sociali
e
politici
si
svolgano
all’insegna
della
conflittualità
e,
pur
assumendo
forme
diverse,
si
riducano,
in
fin
dei
conti,
a
rapporti
di
forza.
Quali
le
conseguenze
di
una
simile
deriva?
Anzitutto,
la
perdita
di
valore
della
verità
e
quindi
il
degrado
del
dibattito
pubblico
dominato
dalla
faziosità
dei
media
volta
a
deformare
ed
occultare
i
fatti
(la
famosa
‘scomparsa
dei
fatti’),
più
che
a
presentarli
in
modo
corretto.
Non
solo.
La
democrazia
populista
si
fonda,
come
si è
visto,
sul
principio
che
la
sovranità
popolare
ha
un
valore
superiore
ad
ogni
altro
criterio
di
giustizia
e ad
ogni
regola
di
diritto
positivo.
È
ovvio
che
tale
visione
si
basa
sulla
svalutazione
dei
principi
di
uguaglianza
e
libertà.
E
tale
svalutazione
deriva
dalla
convinzione
che
tutte
le
controversie
politiche
si
riducano
a
questioni
di
potere:
quindi
chi
ha
più
forza,
vince.
E la
forza
è la
forza
dei
numeri.
Ora,
l’idea
che
la
sovranità
popolare
stia
al
di
sopra
di
qualsiasi
principio
costituzionale
fa
apparire
perfettamente
legittima
una
volontà
popolare
volta
a
modificare,
restringere
o
addirittura
sopprimere
i
diritti
costituzionali
fondamentali
che
da
quei
principi
derivano:
il
popolo
può
tutto
e,
se
può,
lo
fa.
E
per
il
popolo
parla
il
leader!
“L’idea
diffusa
che
sia
perfettamente
democratico
modificare
a
maggioranza
una
costituzione
democratica
anche
nella
parte
in
cui
sancisce
i
diritti
fondamentali
dei
cittadini
è
dunque
un’importante
conseguenza
giuridica
del
valore
dato
alla
sovranità
popolare
nella
concezione
populista
della
democrazia.
E si
tratta
di
un’idea
non
di
poco
conto,
poiché
porta
a
dover
riconoscere
che
democratica
sia
anche
l’instaurazione
di
una
dittatura
regolarmente
votata
da
una
maggioranza
di
cittadini”
(Gliozzi).
Ovviamente
questa
non
era
l’idea
dei
padri
fondatori,
da
Locke
agli
americani,
passando
per
i
francesi.
Infatti,
tutti
costoro
ammettono,
tra
i
diritti
naturali
e
inalienabili,
quello
di
resistenza
all’oppressione,
mentre
consideravano
oppressiva
ogni
società
senza
costituzione,
compresa
quella
in
cui
non
era
assicurata
“la
garanzia
dei
diritti”
e
“la
separazione
dei
poteri”,
come
prescriveva
la
Dichiarazione
dei
diritti
dell’uomo
e
del
cittadino
del
1789
(artt.
2 e
16).
Tuttavia,
non
c’è
bisogno
spesso
di
modificare
formalmente
una
costituzione
per
instaurare
un
regime
populistico,
neutralizzando
i
principi
di
eguaglianza
e
libertà.
È
sufficiente
a
tal
fine
che
nella
vita
politica
e
civile
si
impongano
prassi
che
contrastano
sono
con
quei
principi:
prassi
che
di
fatto
si
affermano
nonostante
sia
illegali.
Si
può
scivolare
verso
un
regime
illiberale
ed
antiegualitario
pur
lasciando
inalterate
le
norme
scritte.
Ma
qui
abbiamo
un’ulteriore
conseguenza:
le
leggi
legali
hanno
valore
solo
nella
misura
in
cui,
per
la
loro
duttilità,
possono
servire
a
difendere
gli
interessi
del
populista
o a
colpire
i
suoi
nemici.
E
l’eguaglianza
dei
cittadini
davanti
alla
legge
gli
apparirà
una
semplice
finzione
pubblica:
nella
sua
visione
del
mondo
ogni
interpretazione
ed
ogni
applicazione
della
legge
sarà
in
realtà,
e
non
potrà
non
essere,
sempre
partigiana.
Perché,
per
lui,
la
legge
nasce
partigiana.
Nasce
perché,
nelle
contese
legali,
possa
prevalere
non
già
chi
ha
ragione,
ma
chi
è
più
astuto
o
più
forte:
al
massimo
ostenterà
vittimismo
quando
in
una
controversia
avrà
la
peggio.
Né,
d’altra
parte,
si
scandalizzerà
se
si
affermerà
un
regime
diverso
da
quello
legale,
purché
il
regime
reale
non
metta
in
pericolo
i
suoi
interessi
particolari.
“La
svalutazione
della
legalità
–
conclude
Gliozzi
– è
dunque
una
conseguenza
del
principio
populista
per
il
quale
la
sovranità
popolare
ha
un
valore
superiore
ad
ogni
criterio
di
giustizia
e ad
ogni
regola
di
diritto
positivo.
Sì
che,
avendo
della
giustizia
e
del
diritto
un’idea
del
tutto
strumentale,
il
populismo
è
portatore
di
una
concezione
della
legalità
per
la
quale
tutti
i
criteri
di
giustizia
e
tutte
le
regole
giuridiche
sono
sempre
provvisori
nel
senso
che
possono
in
ogni
momento
essere
cambiati
o
derogati
a
seconda
delle
volubili
esigenze
del
presente.
Una
legalità
effimera
dunque
che,
lungi
dall’esigere
un’obbedienza
cieca
o
dal
favorire
un’obbedienza
critica
alle
regole,
agevola
un’obbedienza
nei
limiti
della
convenienza:
un’obbedienza,
questa,
assai
prossima
all’elusione
delle
regole”.