.

home

 

progetto

 

redazione

 

contatti

 

quaderni

 

gbeditoria


.

[ISSN 1974-028X]


RUBRICHE


attualità

.

ambiente

.

arte

.

filosofia & religione

.

storia & sport

.

turismo storico



 

PERIODI


contemporanea

.

moderna

.

medievale

.

antica



 

EXTEMPORANEA


cinema

.

documenti

.

multimedia



 

ARCHIVIO


 

 

 

 

 

 

 

.

ATTUALITà


N. 71 - Novembre 2013 (CII)

L’IDRA DALLE TANTE TESTE
A proposito di POPULISMO - Parte i

di Giuseppe Tramontana

 

Che cos’è il populismo? Per capire in quali termini si è venuta ponendo una “questione populismo”, quali sono i suoi nodi più problematici, è opportuno guardare da tutti i possibili lati una “idra dalle cento teste”, di riportare insomma su un terreno più fermo un fenomeno sfuggente, preso soprattutto come una somma di negatività, di ricondurlo ad una idea che lo definisca chiaramente anche per quanto ne può caratterizzare la sua opposizione e contrarietà a quelli che sarebbero i “nemici del popolo”.

 

È possibile anche nel variare dei tempi storici e nella diversità delle ontologie regionali, cogliere delle costanti sulla cui base identificare una “ragione populista”. Oggi ad esempio ci si dovrebbe chiedere quale fascia sociale sente di più come veri traumi gli effetti del cambiamento – globalizzazione, informatica, bioetica – ed avverte anche traumaticamente decisioni economiche dell’Europa, potere della tecnocrazia, immigrazione: si capirebbe di che si alimenta il populismo e contro chi combatte. 

 

“Il populismo – ha scritto Franco Crispini (Del populismo – indicazioni di lettura, 2011) - va comunque osservato e letto possibilmente fuori dalle forme più provvisorie dell’antipolitica che solo superficialmente fornisce ad esso qualche ragione in più”. Come dargli torto?

 

Il populismo, sia o meno una “democrazia del pubblico”, abbia o meno come nemico la modernità, veda o meno la politica come scontro tra il Bene e il Male, denunci o meno le trame occulte di conventicole ricche e potenti, continua ad essere espressione di un legame con sentimenti diffusi, popolari, in molti casi di ostilità a tanti modi di manifestarsi e strutturarsi delle società contemporanee. Restano non pochi margini di ambiguità che accompagnano le spinte populiste e la loro convivenza con i sistemi politici democratici. Il populismo va comunque osservato e letto possibilmente fuori dalle forme più provvisorie dell’antipolitica, anche se, in molte occasioni, quest’ultima rappresenta l’utile terreno di coltura del primo.

 

Molti sono i significati del populismo. Esso, come l’ha chiamato Alfio Mastropaolo (La mucca pazza della democrazia, 2005, il quale, in verità, preferisce il termine ‘Nuove destre’), è la “mucca pazza della democrazia”, cioè il frutto dei “maltrattamenti cui è stata sottoposta, in Europa, la democrazia da parte delle sue classi dirigenti”. Ma non è la sola definizione che si può fornire.

 

Senza entrare nelle questioni etimologiche, possiamo ricordare, con Massimo Cacciari, che “populismo è accondiscendere al peggiore dei cattivi proverbi: che la voce del popolo è la voce di Dio. Da cui ovviamente il corollario: che lo sia altrettanto la voce che a quella del popolo fa scimmiesca eco”.

 

Dunque, fermo restando che il populismo è l’ideologia del popolo ed in questo non è molto diverso dalla democrazia, rispetto a quest’ultima presenta una differenza di non poco conto: il populismo emargina – anzi esclude - un elemento che è molto importante per la democrazia, ossia la limitazione del potere e la difesa dello stato di diritto.

 

È questa la radicale differenza tra democrazia costituzionale e democrazia populista. Nella prima, come pone in rilievo Ettore Gliozzi (Legalità e populismo, 2011), la sovranità popolare trova un limite nelle norme costituzionali (art. 1 della Costituzione Italiana: “… la sovranità appartiene al popolo che lo esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”), all’interno delle quali va inquadrata, gestita e valorizzata; mentre, nella seconda, la sovranità popolare ha un valore superiore ad ogni principio di giustizia e ad ogni regola di diritto positivo, secondo, peraltro, il modello descritto da Aristotele, nella Politica.

 

Come scrive Hannah Arendt, a proposito della Rivoluzione americana, “sede del potere era il popolo, ma fonte della legge doveva essere la Costituzione, un documento scritto, una cosa oggettiva e permanente, che naturalmente poteva essere vista sotto diversi aspetti e di cui si potevano dare diverse interpretazioni, che si poteva cambiare ed emendare secondo circostanze, ma che tuttavia non poteva mai essere uno stato d’animo soggettivo, come la volontà”. E precisa: “la Costituzione è quindi un’entità concreta, tangibile, più duratura delle elezioni o dei sondaggi d’opinione. Anche quando (…) la supremazia della Costituzione fu considerata ‘solo in base al suo essere radicata nella volontà popolare’” (H. Arendt, Sulla rivoluzione, 1999.

 

Ma non solo. Andando oltre gli addentellati di legittimazione/esplicitazione giuridica, è populistica la politica che occulta la complessità dei problemi. Inoltre, al di là delle diversità tipologiche (di cui parleremo più oltre), il populismo sottomette al totem della naturale bontà dei nostri (il popolo, il gruppo endogeno), ogni interesse, il quale potrebbe essere facilmente soddisfatto (e renderci felici) se non fosse costantemente attaccato dall’estraneo, dal gruppo esogeno, dal nemico, insomma. Ciò crea un miscuglio di libertà e anarchia, obbedienza e licenza.

 

Ma soprattutto produce una vaga, ma certa sicurezza nella giustezza delle proprie ragioni, contrapposta a quelle (sbagliate) degli altri, che genera aggressività, angoscia e insicurezza. Insomma, abbiamo un popolo depositario esclusivo dei valori positivi, attorniato da gruppi di nemici – spesso temibili, potenti, e, ancora più spesso occulti e infidi - che lavorano nell’ombra ordendo complotti e sabotaggi.

 

Il popolo di cui stiamo parlando è visto in due modi: come massa salvifica e come massa incolta. La contraddizione è solo apparente. Il proprio popolo è la salvezza. È comunque superiore agli altri popoli, anche là dove, ormai, non si parla per pudore di superiorità ma di ‘diversità’: si tratta di una diversità che nasconde ipocritamente il discorso vero sulla nostra migliore diversità per una superiore religione, tradizione, cultura, etnia, razza…

 

Tuttavia, è n popolo incolto che abbisogna di un capo carismatico, il quale, nato dal popolo, sa farsi interprete della sua volontà e dei suoi desideri, sa comprendere le sue paure ed insicurezze e, proprio per ciò, viene da esso elevato alla sua guida. È colui che si erge a protettore dei valori del popolo. Colui che sa leggere nella “psicologia delle folle” e le sa manovrare (Gustave Le Bon, Psicologia delle folle, 2004). È colui che agisce in nome del popolo.

 

Ma cos’è il popolo? Il popolo - non una classe o una élite - senza distinzione di ricchi e poveri, operai ed industriali, borghesi e proletari, contadini e proprietari terrieri è considerato sempre unitariamente. È uno.

 

Esso è già formato ed ha piena coscienza di sé. È la maggioranza – spesso silenziosa – che lavora, paga le tasse, è tranquilla, e sopporta il peso dei sacrifici. Il silenzio, in particolare, è la sua virtù più grande: silenzio contro il clangore di una minoranza chiassosa e caciarona: i politicanti. Sono una maggioranza quantitativa, numerica: per i populisti è l’aspetto più rilevante.

 

Se in caso di sciopero, in Italia, scendono in piazza tre milioni di cittadini, il populista non si scomporrà: saranno molto di più quelli che, non aderendo, hanno implicitamente dimostrato di essere contro la mobilitazione!

 

D’altra parte, caratteristica dei vari populismi è l’attacco alla democrazia rappresentativa. Un attacco che mostra sostanzialmente un rosario di contumelie standardizzato. Allora, la democrazia (rectius, la politica) diventa farraginosa, parolaia, un teatrino e quindi inutile, immobile e dannosa, spendacciona e scialacquatrice dei denari dei contribuenti.

 

In ogni campo, la misura di delegittimazione, diventa anzi, proprio il fattore economico: tutto viene tarato in base ai costi a carico dei cittadini, compresa la gestione della giustizia o la tutela dei beni storico-monumentali unici e irripetibili.

 

Varie sono state, nella storia, le manifestazioni di populismo. Dal populismo di Ignatius Donnelly, fondatore, nel 1892, del Partito del Popolo americano e promotore della Omaha Platform, di ispirazione rural-contadina, al populismo dei narodniki russi di Aleksandr Herzen, (con anche qui il contadino visto come il depositario dell’antica ed intramontabile saggezza russa), dal populismo dell’America Latina, di cui sono stati espressione il brasiliano Vargas e l’argentino J. D. Peròn, per arrivare a forme di populismo più nostrane (L’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini), moderne (Le Pen in Francia, Collor de Mello in Brasile, Menem in Argentina, Ross Perot negli USA, Alberto Fujimori in Perù, Slobodan Milosevic in Serbia, Haider in Austria, ecc…) o nostrane e moderne (la Lega di Bossi, Forza Italia di Berlusconi e, secondo alcuni, il Movimento 5 stelle di Grillo).

 

Il tutto passando per posizioni populistiche implicite nel fascismo o trasparenti in seno allo stesso movimento comunista internazionale (come i casi – posti in rilevo di recente da Domenico Losurdo (La lotta di classe, 2013) – di Simone Weil e Pierre Pascal in relazione alla rivoluzione bolscevica del 1917).

 

Le tipologie

 

Qualcuno (Pierre-André Taguieff, L’illusione populista, 2006) distingue tra un populismo movimentista, un populismo-regime, un populismo-ideologia o populismo-atteggiamento e un populismo retorico. Il primo è, forse, il vero populismo, che nasce in funzione di protesta o “tribunizia”.

 

È quello volto a canalizzare il malcontento, a sfruttare simbolicamente l’irruzione popolare nello spazio politico, facendosi carico delle insoddisfazioni di massa e proponendo un modello di transizione sociale verso una migliore società.

 

Solitamente tra i tipi di populismo politico, gli studiosi distinguono un populismo protestatario e uno identitario, con la ovvia presenza di una contaminazione tra i due. Il primo, quello protestatario, ha come cavallo di battaglia la tematica antifiscale (sia a destra che a sinistra), la contestazione dell’establishment (sia a destra che a sinistra), la messa in discussione dello stato sociale (a destra), lo sciovinismo del benessere come, a d esempio la riserva delle prestazioni sociali solo ai membri della nazione – i ‘cittadini’ (a destra), la ricezione del sistema bipolare maggioritario.

 

Lo sviluppo di simili tematiche lo ritroviamo nel populismo svizzero come nel neopopulismo dei Paesi scandinavi, nella FPO austriaca e nel Partito del Progresso norvegese, nei Republikaner tedeschi e nel Centro Democratico Olandese, nella Lega Nord, nel Front National francese e in quello belga. Secondo alcuni, anche nel M5S italiano.

 

Il populismo identitario, invece, mescola il nazionalismo, l’etnicità con i riferimenti culturali e religiosi. Fa leva su di essi per caratterizzare in senso ‘etnico’ o territoriale la propria proposta politica. E tale caratterizzazione sfocia immancabilmente in posizioni secessioniste o, più di rado, autonomistiche (anche se, essendo per sua natura il populismo movimentista ed estremista, le posizioni tendono inevitabilmente a scivolare verso il secessionismo): è il caso sempre della Lega Nord, ma anche del Nieuw-Vlaamse Alliantie fiammingo, lo Scottish National Party e Convergència i Unió catalana. Molto interessante, peraltro, è il risultato fornito dall’intreccio delle due tipologie di populismo politico, il protestatario e l’identitario.

 

In esso, convivono naturalmente gli elementi di entrambe le categorie, arricchite solitamente da ulteriori (e, per certi aspetti, nuovi) caratteri.

 

Vediamone almeno tre:

1) L’anti-intellettualismo. Che fa da pendant con l’esaltazione del sapere spontaneo del popolo, con la sua saggezza ancestrale, contro la “cultura alta”, quella degli intellettuali, dei funzionari, dei burocrati, delle “teste d’uovo”, sempre al servizio del potere e sempre pronti a manipolare il popolo e la sua coscienza, raccontando frottole e menzogne. Gli intellettuali vengono presentati come i “servi del regime”, i “devastatori” della vera cultura tradizionale, i fomentatori di odi e divisioni (in tal caso sono anche comunisti), al soldo di qualche apparato segreto dedito ad arricchirsi – mediante complotti e stratagemmi – alle spalle del popolo ignaro (in tal caso, spesso, sono anche ebrei);

2) L’iperpersonalizzazione. Che trova fondamento – come è stato già rilevato - in una straordinaria figura carismatica di capo (Peròn, Le Pen, Berlusconi, Bossi, Haider, Vargas), la cui vita viene ricostruita con colori oleografici e data in pasto alla ‘gente’. Si sottolinea, solitamente, il successo sociale del leader, l’onestà, la sincerità, la generosità, il darsi agli altri, la semplicità, la capacità di comunicare con e comprendere il popolo, la disponibilità;

3) Difesa dei valori del liberalismo economico. Che viene appunto difeso ovunque, senza distinzione tra piccola e media o grande impresa. Viene esaltata la proprietà privata e si mostra preferenza per alcune categorie professionali come imprenditori, contadini, il settore delle professioni liberali.

Altre categorie vengono, invece, stigmatizzate, accusate di essere serve, parassitarie o fannullone (giornalisti, insegnanti, impiegati pubblici). Altre categorie, poi, vengono inoltre colpite ed esposte al pubblico ludibrio per la loro “devianza sociale o morale”: è il caso degli artisti – tutti tendenzialmente drogati e/o omosessuali.

 

Il populismo-regime, invece, è di stampo autoritario o semiplebiscitario ed è tipico del movimento populista diventato regime, cioè asceso al potere. È la forma di governo noto come “cesarismo”, “bonapartismo” o, più di recente, “peronismo”. Può conciliarsi.con alleanze in coalizioni che formalmente rispettano le norme del pluralismo democratico. In molti casi, legittimano la loro vocazione populista mediante un’interpretazione ad hoc delle norme costituzionali: anche se tali norme non hanno di per sé un contenuto populista o, addirittura, sono concepite proprio in funzione antipopulista.

 

Spesso, tutto inizia da riforma elettorale (e, in tal caso, il sistema privilegiato è il maggioritario, che da’ la maggior garanzia per la personalizzazione della politica mediante l’instaurazione di un rapporto diretto tra capo e corpo elettorale) e, via via, da riforme costituzionali mirate. In questo regime il capo carismatico – come rileva Max Weber (La politica come professione in Il lavoro intellettuale come professione, 1966) – non esprime o trasmette ideologia, ma la crea e l’incarna, dandole legittimità.

 

Il populismo-ideologia più che una dottrina coerente, è una tradizione politico-culturale. Perno è l’esaltazione del popolo, come abbiamo visto, contrapposto alle élites (intellettuali, burocrati, funzionari…). La salvezza sta nel popolo. O meglio nel popolo risvegliato dal leader carismatico. In quanto atteggiamento, può essere sia di destra che di sinistra.

 

Il populismo retorico ha come base di radicamento la televisione e, oggi, anche i sistemi informatici tipo internet. È quello che viene chiamato (Ernesto Laclau, La ragione populista, 2008)) “neopopulismo”. Si manifesta con un appello al popolo a forte contenuto immaginativo-affettivo. Speso, nell’epoca della globalizzazione, è un appello pro ipse populo e contra barbaros (extracomunitari, stranieri migranti, zingari…).

 

Tutto ruota attorno alla lusinga delle masse popolari e si manifesta, secondo Taguieff, come demagogia che corrompe il dibattito democratico giacché alla valorizzazione positiva del (proprio) popolo si accompagna la canalizzazione del risentimento contro altri gruppi sociali, soprattutto stranieri, privilegiati (spesso, ad onta di qualsiasi veridicità storica, i due termini – stranieri e privilegio – vengono affiancati), elite giudicate indegne o incapaci.

 

Le idee portanti

 

Caratteristiche comuni ai diversi tipi di populismo sono, allora:

1) l’esistenza di un leader carismatico con una straordinaria capacità di mobilitare le classi popolari, soprattutto urbane, di cui è possibile osservare lo stato di “disponibilità” o “conquista”;

2) la stessa esistenza del leader carismatico comporta quella che viene chiamata una “ipersoggettivizzazione” (Laclau) o “iperpersonalizzazione” (Mény) dei movimenti e dei regimi di tipo populista;

3) il legame diretto e personale tra lo stesso capo e le masse. Il condottiero, la guida, è il portavoce e protettore o benefattore del popolo, o almeno della maggioranza di esso. E se la maggioranza è povera, diseredata, “descamisado”, egli è il suo protettore. Ma ciò che più conta è che è assente qualsiasi mediazione tra vertice e base, manca qualsiasi livello intermedio, mentre la guida fonda il suo carisma sulla rapidità con cui intende realizzare gli obiettivi promessi;

4) In molti casi, là dove le condizioni lo richiedono, l’accento dei discorsi del leader populista cade sulla nazione o sulla sua indipendenza. In molti casi, si parla di indipendenza territoriale (come dimostrano i vari movimenti populistico-secessionisti presenti in tutta Europa), ma in molti altri tale indipendenza è di carattere politico: si parla di indipendenza dagli interessi stranieri (come nel caso della Dichiarazione di indipendenza economica di Juan Domingo Peròn del 9 luglio 1947 con la quale si denunciavano i legami “dominanti del capitalismo straniero in Argentina” e si proponeva di “recuperare i diritti e i controlli che ci appartengono e le ricchezze economiche nazionali”. In questa fattispecie rientra, peraltro, anche il populismo cosiddetto “euroscettico” ossia quell’insieme di posizioni critiche vero l’Unione Europea, dalla quale si chiede l’uscita, in nome della difesa delle peculiarità e degli interessi nazionali;

5) Altro elemento rilevante appare essere la strategia di incorporazione, di integrazione o di cooptazione delle classi popolari per preservare un “ordine oligarchico”. Questa strategia si manifesta attraverso l’alleanza di gruppi sociali dagli interessi contraddittori, se non addirittura conflittuali, ma sostenuta sempre da una dottrina di collaborazione fra le medesime classi.

Ciò conduce (6) alla costruzione di un partito trans classista a vocazione maggioritaria capace di andare incontro ad un elettorato a sua volta interclassista.

Ne consegue, ancora, (7) l’importanza del discorso programmatico (o del programma elettorale), ammantato sempre di nobili ideali (spesso di efficienza), cui è affidata la funzione di legittimazione politica del movimento e (8) la designazione dello Stato quale responsabile dello sviluppo e risolutore di ogni problema, ovviamente una volta che il partito o movimento populista conquisterà il potere. Il desiderio di compromesso è reso evidente dal tentativo di rispondere a tutte le aspettative, di soddisfare le domande, anche le più contraddittorie, di conciliare gli interessi opposti.

 

Il rapporto tra populismo e democrazia rappresentativa

 

Quanto al rapporto democrazia-populismo, è fiorita una letteratura critica di grande ampiezza negli anni tra il secondo Novecento e quelli più vicini a noi, mano a mano che la caduta delle ideologie, la crisi del sistema dei partiti ed altri pilastri reggenti, hanno prodotto fattori di indebolimento, di lacerazione, di conflittualità interna se non proprio determinare una “incompatibilità” tra modalità democratica e istanze popolari (populistiche).

 

Nel vasto panorama di diagnosi e terapie circa l’impatto del populismo sui sistemi di democrazia rappresentativa, da ultimo è utile vedere quel che ne scrive Tzvetan Todorov (Les ennemis intimes de la dèmocratie, 2012).

 

Tuttavia, prima di definire il populismo un “cancro” o un “toccasana” della democrazia, è utile comprendere, come sottolinea Ettore Gliozzi, che “non bisogna sopravvalutare le capacità demiurgiche degli uomini politici. Costoro possono ricorrere ai mezzi più spregiudicati per assicurarsi il consenso popolare, ma i risultati sarebbero scarsi se la società civile fosse fedele ai principi di giustizia che stanno alla base della democrazia costituzionale”.

 

In effetti, la demagogia populista avrebbe ben poche possibilità di successo se la maggioranza dei cittadini fosse convinta dell’importanza di riconoscersi reciprocamente come persone libere ed uguali, in grado di pervenire al governo della cosa pubblica e di quella privata mediante l’utilizzo di quella che kantiamente possiamo chiamare ragion pratica.

 

Naturalmente, come spiegano Yves Meny e Yves Surel, spesso il legame tra maggioranza e rappresentanti si lacera per due problemi: la corruzione dei politici della classe al potere (e se la corruzione si inquadra all’interno di un complessivo decadimento sociale e politico) e la messa in crisi del sistema politico da parte di “interessi particolari”.

 

Eppure, resta il fatto che, affinché il modello di democrazia populista possa imporsi, occorre che la maggioranza dei cittadini non creda più nei principi costituzionali di giustizia, che non si senta affatto eguale ai propri simili, che di conseguenza non sia disposta a concedere agli altri la stessa libertà e le stesse opportunità che rivendica per sé. La democrazia populista può quindi imporsi quando nella società comincia a diventare dominante l’idea che tanto la competizione politica quanto la vita sociale si riducano sempre a rapporti di forza e che, perciò, sia legittimo ricorrere all’inganno per conquistare posizioni di potere.

 

Come evidenzia ancora Gliozzi, è “l’atteggiamento scettico sui principi costituzionali di giustizia” che indebolisce le democrazie costituzionali, favorendone la trasformazione in democrazie populiste.

 

Come già metteva in risalto Emile Durkheim (Il suicidio, 1969), è una legge sociologica nota quella per la quale un diffuso scetticismo sui valori fondanti e fondamentali della società, la fa cadere in uno stato di anomia, in una situazione “nella quale non si distinguono più le pretese legittime da quelle che passano la misura, e non vi è nulla che non si pretenda. È questa una situazione assai grave, nella quale non si sa più scegliere in modo argomentato e razionale poiché ogni criterio di riferimento, ogni elemento fondante, sembra divelto, sicché anche i principi giuridici fondamentali in vigore appaiono privi di giustificazione storica e razionale e vengono dunque percepiti come finzioni pubbliche, astruserie da politicanti, da rispettare finché si è costretti al rispetto per timore delle sanzioni, ma da trasgredire ogni qualvolta se ne presentino la convenienza e l’occasione.

 

Misurare il grado di anomia di una società vuol dire misurarne la debolezza. E la di conseguenza la probabilità che si tramuti in una democrazia populista. Cioè in una democrazia in cui la convinzione diffusa è che tutti i rapporti sociali e politici si svolgano all’insegna della conflittualità e, pur assumendo forme diverse, si riducano, in fin dei conti, a rapporti di forza.

 

Quali le conseguenze di una simile deriva? Anzitutto, la perdita di valore della verità e quindi il degrado del dibattito pubblico dominato dalla faziosità dei media volta a deformare ed occultare i fatti (la famosa ‘scomparsa dei fatti’), più che a presentarli in modo corretto.

 

Non solo. La democrazia populista si fonda, come si è visto, sul principio che la sovranità popolare ha un valore superiore ad ogni altro criterio di giustizia e ad ogni regola di diritto positivo.

 

È ovvio che tale visione si basa sulla svalutazione dei principi di uguaglianza e libertà. E tale svalutazione deriva dalla convinzione che tutte le controversie politiche si riducano a questioni di potere: quindi chi ha più forza, vince. E la forza è la forza dei numeri.

 

Ora, l’idea che la sovranità popolare stia al di sopra di qualsiasi principio costituzionale fa apparire perfettamente legittima una volontà popolare volta a modificare, restringere o addirittura sopprimere i diritti costituzionali fondamentali che da quei principi derivano: il popolo può tutto e, se può, lo fa. E per il popolo parla il leader!

 

“L’idea diffusa che sia perfettamente democratico modificare a maggioranza una costituzione democratica anche nella parte in cui sancisce i diritti fondamentali dei cittadini è dunque un’importante conseguenza giuridica del valore dato alla sovranità popolare nella concezione populista della democrazia. E si tratta di un’idea non di poco conto, poiché porta a dover riconoscere che democratica sia anche l’instaurazione di una dittatura regolarmente votata da una maggioranza di cittadini” (Gliozzi).

 

Ovviamente questa non era l’idea dei padri fondatori, da Locke agli americani, passando per i francesi. Infatti, tutti costoro ammettono, tra i diritti naturali e inalienabili, quello di resistenza all’oppressione, mentre consideravano oppressiva ogni società senza costituzione, compresa quella in cui non era assicurata “la garanzia dei diritti” e “la separazione dei poteri”, come prescriveva la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 (artt. 2 e 16).

 

Tuttavia, non c’è bisogno spesso di modificare formalmente una costituzione per instaurare un regime populistico, neutralizzando i principi di eguaglianza e libertà. È sufficiente a tal fine che nella vita politica e civile si impongano prassi che contrastano sono con quei principi: prassi che di fatto si affermano nonostante sia illegali.

 

Si può scivolare verso un regime illiberale ed antiegualitario pur lasciando inalterate le norme scritte. Ma qui abbiamo un’ulteriore conseguenza: le leggi legali hanno valore solo nella misura in cui, per la loro duttilità, possono servire a difendere gli interessi del populista o a colpire i suoi nemici.

 

E l’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge gli apparirà una semplice finzione pubblica: nella sua visione del mondo ogni interpretazione ed ogni applicazione della legge sarà in realtà, e non potrà non essere, sempre partigiana. Perché, per lui, la legge nasce partigiana.

 

Nasce perché, nelle contese legali, possa prevalere non già chi ha ragione, ma chi è più astuto o più forte: al massimo ostenterà vittimismo quando in una controversia avrà la peggio. Né, d’altra parte, si scandalizzerà se si affermerà un regime diverso da quello legale, purché il regime reale non metta in pericolo i suoi interessi particolari.

 

“La svalutazione della legalità – conclude Gliozzi – è dunque una conseguenza del principio populista per il quale la sovranità popolare ha un valore superiore ad ogni criterio di giustizia e ad ogni regola di diritto positivo.

 

Sì che, avendo della giustizia e del diritto un’idea del tutto strumentale, il populismo è portatore di una concezione della legalità per la quale tutti i criteri di giustizia e tutte le regole giuridiche sono sempre provvisori nel senso che possono in ogni momento essere cambiati o derogati a seconda delle volubili esigenze del presente.

 

Una legalità effimera dunque che, lungi dall’esigere un’obbedienza cieca o dal favorire un’obbedienza critica alle regole, agevola un’obbedienza nei limiti della convenienza: un’obbedienza, questa, assai prossima all’elusione delle regole”. 



 

 

COLLABORA


scrivi per InStoria



 

EDITORIA


GBe edita e pubblica:

.

- Archeologia e Storia

.

- Architettura

.

- Edizioni d’Arte

.

- Libri fotografici

.

- Poesia

.

- Ristampe Anastatiche

.

- Saggi inediti

.

catalogo

.

pubblica con noi



 

links


 

pubblicità


 

InStoria.it

 


by FreeFind

 

 

 

 

 

 

 

 


[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE]


 

.