antica
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BARBARI DEL TARDO BRONZO
L’ANTICHISSIMO MISTERO
DEI POPOLI DEL MARE
di Roberto Conte
Il crollo della civiltà del Tardo Bronzo
nel Mediterraneo orientale, tra la fine
del XIII e l’inizio del XII secolo a.C.,
fu uno degli eventi più traumatici della
storia dell’umanità, forse peggiore come
impatto e conseguenze della caduta
dell’Impero Romano d’Occidente nel V
secolo d.C.
Questa improvvisa e apparentemente
imprevedibile catastrofe andò a colpire
un mondo opulento e molto progredito,
tenuto insieme da una fitta rete di
relazioni commerciali e diplomatiche e
che tra l’altro da mezzo secolo circa
sembrava aver acquisito un perfetto
punto di equilibrio, in grado di
garantirgli un ordine e una stabilità
mai raggiunti in precedenza.
In effetti, dopo essersi dilaniate per
decenni per stabilire la propria
egemonia sulle ricche città siriane in
un durissimo conflitto culminato
nell’incerta battaglia di Qadesh (1274
a.C.), le due superpotenze dell’epoca,
l’Egitto e l’Impero Hittita, uno stato
con base a Hattusa, nell’Anatolia
orientale, avevano concluso nel 1259
a.C. un trattato con il quale avevano
delimitato concordemente le rispettive
zone di influenza in Siria e avevano
addirittura siglato un’alleanza
difensiva.
Sempre rispettato scrupolosamente,
questo patto aveva praticamente
annullato qualsiasi possibilità di
disordini nel Vicino Oriente, e la pace
generale era stata ancor più consolidata
dai continui contatti diplomatici
mantenuti tra i principali stati
dell’area (oltre all’Egitto e all’Impero
Hittita, l’Assiria, la Babilonia e
Ahhiyawa, con ogni probabilità un grande
regno costituito dagli Achei, con perno
sull’Egeo).
Beninteso, anche in quel cinquantennio
non erano mancati conflitti locali: gli
Egiziani avevano dovuto vedersela con le
incursioni da ovest delle tribù dei Libu,
gli Hittiti erano stati impegnati a
contrastare le endemiche rivolte dei
regni vassalli dell’Anatolia occidentale
noti come stati di Arzawa, a quanto pare
spesso spalleggiati dagli Ahhiyawa,
c’era persino stata una guerra tra gli
stessi Hittiti e gli Assiri per assumere
il controllo dei potentati mitanni nella
zona armena. Tuttavia il fatto che i
sovrani di Hattusa e i faraoni si
fossero impegnati a sostenersi in caso
di aggressione dei rispettivi territori
sembrava mettere al sicuro quel
miracoloso equilibrio.
Invece, nell’arco di pochi decenni
questa mirabile costruzione diplomatica,
che avrebbe potuto assicurare a tutto il
Mediterraneo orientale una lunga epoca
di prosperità e di progresso, venne
travolta come un castello di carte da un
insieme di popolazioni sconosciute, o
quasi, molto più arretrate culturalmente
rispetto alle proprie vittime, e a
questo periodo sfavillante e raffinato
ne subentrò un altro molto più oscuro e
modesto.
La precisa identità degli autori di
questo disastro epocale ha da sempre
appassionato gli studiosi, poiché tanto
le origini quanto il destino di queste
genti appaiono avvolti nella maggior
parte dei casi dal mistero, dando così
libero campo alle più svariate ipotesi
sulla questione. Poiché in alcune delle
iscrizioni egiziane che si occupano di
queste invasioni alcuni di essi erano
definiti come “dei paesi del mare” o
semplicemente “del mare”, su iniziale
proposta di Emmanuel de Rougé, curatore
del Louvre nel 1855, questi razziatori
furono designati collettivamente come
“Popoli del mare”. Questa comune
denominazione, tuttavia, non implica
necessariamente una loro omogeneità
etnica, e anzi la varietà di aspetto e
di armamento constatabile nelle loro
rappresentazioni nei bassorilievi
egiziani e anche la diversità di alcune
loro usanze, prima fra tutte quella
della circoncisione, sembrano piuttosto
indicare una diversa provenienza delle
varie popolazioni implicate nelle
invasioni.
Altrettanto misteriosi restano i motivi
che condussero a un così grande
spostamento di genti: se alcuni degli
invasori, come si vedrà in seguito,
erano già noti come pirati e razziatori,
altri popoli compaiono per la prima, e
apparentemente ultima, volta nella
storia proprio in relazione a questa
catastrofica vicenda, portando a pensare
che essi fossero spinti a premere sugli
stati del Vicino Oriente non tanto dal
desiderio di bottino, quanto dalla
ricerca di nuove terre, dopo aver dovuto
abbandonare la propria patria per
qualche grave motivo.
Queste cause vengono sempre più
frequentemente ricercate in un
improvviso periodo di siccità che colpì
tutta l’area mediterranea, provocando
una grande carestia che a sua volta
portò a un indebolimento della
legittimazione del potere regio e a
disordini sociali, probabilmente
accompagnati e forse favoriti
dall’irruzione di nuove popolazioni dal
nord.
A questo proposito, è indicativa la
notizia dell’invio di grano da parte del
faraone Merneptah, intorno al 1211 a.C.,
nel regno hittita, colpito da una
carestia, che si può evincere dalla
tavoletta RS 18.38 degli archivi della
città di Ugarit. Probabilmente un
indizio altrettanto denso di significato
giunge da un documento hittita del 1225
a.C., il trattato concluso dal re
Tudhaliya IV con il sovrano di Amurru
Shaushgamuwa: in esso compare la solita
lista dei Grandi Re, ma quello di
Ahhiyawa è stato successivamente
cancellato con una riga orizzontale,
come se avesse perso il proprio status.
Probabilmente l’area più periferica
dell’universo orbitante sul Mediterraneo
orientale stava già provando i
catastrofici mutamenti che di lì a poco
si sarebbero abbattuti sull’intera area.
Evidentemente il potere dei re di
Ahhiyawa aveva subito un colpo mortale,
forse a opera di nuovi arrivati, forse a
causa di disordini interni suscitati
dalla crisi socio-economica conseguente
a quella climatica, forse per una
correlazione di entrambi gli
avvenimenti: non possono non venire alla
mente le vicende mitologiche riferite
agli sconvolgimenti verificatisi in
Grecia al termine della guerra di Troia
e al successivo ritorno degli Eraclidi,
sostenuti dai Dori.
A parte le supposizioni ricavabili da
questi scarni indizi, la prima
attestazione dell’arrivo della
travolgente marea umana destinata a
mettere fine a una delle civiltà più
luminose mai conosciute sulla terra
risale al 1209 a.C., quando Merneptah si
trovò a dover affrontare una nuova
invasione da occidente da parte dei Libu.
Come già detto, non era la prima volta
che questa popolazione berbera compiva
incursioni all’interno del territorio
egiziano, ma stavolta l’attacco si
rivelò molto più insidioso, tanto più
che altri soggetti vi prendevano parte,
come viene ricordato in un’iscrizione su
un muro accanto al sesto pilone di
Grande Karnak: “L’infelice, caduto
capo di Libia, Meyre, figlio di Ded, è
piombato sulla regione di Tehenu con i
suoi arcieri – Sherden, Shekelesh,
Ekwesh, Lukka, Teresh – prendendo il
meglio di ogni guerriero e di ogni uomo
di guerra nel suo paese…”.
I Libu avevano quindi rafforzato i loro
ranghi prendendo come alleati i
guerrieri di altre genti dall’ignota
provenienza, alcune delle quali, però,
non erano del tutto sconosciute agli
Egizi. Già sull’obelisco di Biblo,
risalente a un periodo che va dal 2000
al 1700 a.C., un’iscrizione geroglifica
ricorda un certo Kwkwn figlio di Rwqq,
ovvero Kukunnis figlio (nel senso di
appartenenza etnica) di Lukka, mentre
anche una delle Lettere di Amarna (la EA
38), documento egiziano della metà del
XIV secolo a.C., fornisce notizie su
questo popolo: infatti in essa gli
abitanti di Alashiya (identificabile
quasi certamente con Cipro, o con una
parte di essa) si difendono dall’accusa
di aver compiuto scorrerie con il
concorso dei Lukka, affermando che
questi ultimi avevano occupato con la
forza i loro villaggi. I Lukka figurano
inoltre tra gli alleati o vassalli che
nel corso della battaglia di Qadesh
combatterono al fianco degli Hittiti.
Neanche gli Sherden erano degli
sconosciuti, e anzi dovevano essere
piuttosto familiari agli abitanti
dell’Egitto. Anche loro compaiono in
alcune delle Lettere di Amarna, sempre
come individui piuttosto turbolenti: in
una di esse (EA 81) un membro di questo
popolo è descritto come un mercenario
disertore, in un’altra (EA 122) si parla
di un sorvegliante egiziano che ha fatto
uccidere alcuni di essi. La loro
propensione verso la pirateria è del
resto confermata dal fatto che verso il
1277 a.C. una loro flotta attaccò il
delta del Nilo, ma venne sconfitta da
Ramses II, che poi arruolò come
mercenari molti dei prigionieri: questi
reparti presero in seguito parte alla
battaglia di Qadesh.
I Libu e i loro nuovi alleati giunsero
sino al delta del Nilo, ma a Perire
furono sconfitti da Merneptah al termine
di una battaglia durata sei ore: 6.000
di essi rimasero sul campo, altri 9.000
furono presi prigionieri. Questa
disfatta salvò momentaneamente l’Egitto
da ulteriori attacchi da ovest, ma a
quanto pare i Popoli del mare non
cessarono nella loro pressione verso il
bacino del Mediterraneo orientale,
limitandosi a dirottare gli attacchi
verso la parte settentrionale dello
stesso, e dunque verso l’impero hittita,
che proprio allora attraversava un
periodo particolarmente critico: dopo la
morte di Arnuwanda III, nel 1207 a.C.,
infatti, scoppiarono dispute dinastiche
che forse portarono addirittura a una
secessione della parte sud-occidentale
dello stato, che così si trovò a essere
pericolosamente vulnerabile di fronte a
quell’improvvisa minaccia esterna.
Nonostante gli iniziali successi del
nuovo sovrano Suppiluliuma II, che si
impossessò del regno di Alashiya,
evidentemente ormai del tutto in mano
agli invasori o con essi connivente, la
continua pressione di queste genti
marinaresche, unita probabilmente alla
permanente ostilità dei Kaska,
popolazione barbara stanziata a nord di
Hattusa, e all’arrivo di nuovi soggetti
di stirpe tracia dai Balcani (Bitini e
Frigi), condusse alla fine al collasso e
alla completa distruzione di un impero
che aveva dominato incontrastato
l’Anatolia per mezzo millennio. Una
volta eliminato quel formidabile
ostacolo, gli invasori ebbero la strada
aperta verso sud, in una calata
apocalittica descritta molto bene nella
grande iscrizione del tempio di Ramses
III a Medinet Habu: “Non uno
resistette di fronte alle loro mani da
Khatti (Hattusa) in poi. Qode,
Carchemish, Arzawa e Alashiya vennero
annientate”.
Alcune lettere scambiate tra i sovrani
di Alashiya, Ugarit e Carchemish, tutti
vassalli di Hattusa, possono aiutare a
comprendere la drammaticità della
situazione. Nella prima di esse il re
cipriota, Eshuwara, chiede a quello di
Ugarit, Ammurapi, dove siano dislocate
le sue forze e ulteriori informazioni su
una flotta nemica di 20 navi, di cui a
quanto pare il secondo aveva dato
notizia in una comunicazione precedente.
Ma è dalla seconda missiva, inviata
stavolta dall’ugarita, che possiamo
cogliere l’estrema gravità della
situazione. Evidentemente Alashiya era
stata di nuovo invasa e Eshuwara aveva
chiesto soccorso, poiché Ammurapi gli
scrive: “Attento padre mio, sono
arrivate le navi nemiche; le mie città
sono state incendiate, e essi hanno
compiuto atti inenarrabili al mio paese.
Non sa mio padre che tutte le mie truppe
e i miei carri si trovano nella terra di
Hatti, e tutte le mie navi nella terra
di Lukka? Così il mio paese è
abbandonato a se stesso. Mio padre deve
saperlo: le sette navi nemiche giunte
qui ci hanno inflitto molto danno”.
Indubbiamente, l’estremo pericolo in cui
versava l’impero hittita aveva spinto
Suppiluliuma a chiedere l’aiuto di tutti
i suoi stati vassalli, ma in questo modo
questi ultimi erano rimasti piuttosto
sguarniti, e i Popoli del mare, che non
a caso erano designati così, avevano
sfruttato il loro controllo delle acque
del Mediterraneo per colpire in modo
micidiale. Alashiya fu con ogni
probabilità la prima a cadere, e presto
Ugarit si trovò in una situazione
disperata, come si può evincere dalla
risposta che il vicerè di Carchemish,
Talmi-Teshub, inviò a una richiesta di
soccorso da parte di Ammurapi: “Per
quel che hai scritto a me: ‘Navi del
nemico sono state viste in mare!’, beh,
tu devi restare saldo. Perciò, da parte
tua, dove sono le tue truppe, dove
stazionano i tuoi carri? Non si trovano
vicino a te? No? Chi preme su di te?
Circonda le tue città con bastioni. Fai
entrare lì le tue truppe e i tuoi carri,
e attendi il nemico con grande
risolutezza!”.
Questi consigli piuttosto banali non
bastarono certo a stornare un triste
destino dal capo di Ugarit, che infatti
venne completamente distrutta,
diversamente da Carchemish, che invece,
al contrario di quanto affermato dal
cronista egiziano, riuscì a
sopravvivere, grazie forse anche alla
sua maggior lontananza dal mare.
Il crollo del potente impero hittita e
di quasi tutti i suoi stati satelliti
non bastò a frenare la grande invasione
dei Popoli del mare, anzi a quanto pare
essa si ingrossò con la partecipazione
di altre popolazioni. Infatti, quando
gli Egiziani si trovarono a dover
affrontare nuovamente la minaccia
proveniente da nord, la composizione
degli eserciti invasori apparve
piuttosto mutata rispetto ai tempi di
Merneptah: Lukka e Ekwesh scompaiono del
tutto, ma al loro posto si presentano
altre genti, e precisamente Peleset,
Tjeker, Denyen e Weshesh, come viene
riportato sempre in una iscrizione nel
tempio di Ramses III a Medinet Habu: “La
loro confederazione era composta da
Peleset, Tjeker, Shekelesh, Denyen e
Weshesh”. Sherden e Teresh, qui
assenti, sono riportati invece nella
lista dei capi sconfitti dal faraone,
con la specifica denominazione “del
mare”.
Questa nuova ondata di invasori si
impadronì del regno di Amurru, dove pose
gli accampamenti, quindi avanzò
inesorabile verso sud, e lungo il suo
passaggio molte altre città furono prese
e distrutte (tra esse Sidone e
probabilmente Tiro): tuttavia
l’obiettivo principale degli attaccanti
restava l’Egitto, rimasto indenne dalla
carestia che evidentemente aveva colpito
tutto il resto dell’area, e su di esso
essi si diressero nel 1175 a.C.
A quanto pare, i capi dei Popoli del
mare progettarono un attacco a tenaglia
sui domini del faraone: mentre una parte
delle loro forze penetrò via terra in
Palestina, un’altra assalì il delta del
Nilo dal mare. Tuttavia ancora una volta
l’Egitto si rivelò un osso troppo duro
per i pur formidabili invasori: operando
per linee interne, il nuovo sovrano,
Ramses III, sbaragliò prima l’esercito
terrestre a Djahy, poi rientrò subito e
distrusse l’armata navale dei Popoli del
mare, salvando ancora una volta il suo
paese.
Con questa duplice disfatta la
devastante invasione sembrò aver
finalmente termine, tuttavia l’intero
bacino del Mediterraneo orientale era
stato ormai sconvolto e appariva
profondamente mutato; lo stesso Egitto,
per quanto alla fine trionfatore, si
ripiegò su se stesso e entrò presto in
una fase di profondo declino.
Questi i fatti, abbastanza ben
delineati: resta però da stabilire tutto
quel che riguarda gli autori di questo
vero e proprio cataclisma, misteriosi
tanto riguardo alle loro origini, quanto
al loro destino. Su di essi sono state
avanzate le più disparate ipotesi, ma
quasi nessuna di esse ha ottenuto il
consenso generale. Tuttavia una disanima
spassionata e accorta delle fonti a
nostra disposizione e dello svolgersi
degli eventi stessi può rendere
possibile raggiungere delle conclusioni
piuttosto solide.
Forse tra i Popoli del mare quelli
meglio riconoscibili sono i Lukka: tutti
i documenti antichi che si riferiscono a
loro lasciano ben pochi dubbi sul fatto
che essi dovessero essere stanziati
lungo le coste meridionali
dell’Anatolia, dal che diventa
praticamente automatico collegarli con i
Lici dell’età classica, che tra l’altro,
secondo Erodoto (VII, 92), indossavano
un copricapo guarnito di piume che
ricorda molto quelli con cui sono
raffigurati dagli Egiziani alcuni dei
Popoli del mare, segnatamente i Peleset.
Per questi ultimi restano molte
incertezze riguardo alla loro
madrepatria, mentre è assodato il loro
destino: essi sono i biblici Filistei, i
tradizionali avversari degli Ebrei che
occupavano le coste della regione che
poi da loro prese il nome di Palestina.
Del resto, lo stesso Ramses III affermò
che dopo la vittoria del Delta concesse
a parte degli sconfitti di insediarsi in
Cananea, che avrebbero dovuto presidiare
per suo conto; in seguito, il declino
egiziano avrebbe permesso a costoro di
affrancarsi da ogni controllo.
Come detto, le loro origini sono più
incerte: in diversi passi della Bibbia
(Genesi, 10, 13-14; Amos 9, 7; Geremia,
47, 4) viene citata come loro
madrepatria Kaphtor, che per molti
sarebbe Creta, anche se altri hanno
suggerito Cipro o le coste della Cilicia.
È abbastanza intrigante la proposta di
collegarli con i Pelasgi, la popolazione
pre-ellenica di cui parlano diffusamente
tanto i mitografi quanto gli storici
greci, e vale la pena di ricordare che
in un passo dell’Odissea (XIX, 177) essi
sono menzionati tra le genti che
abitavano Creta; in ogni caso, i dati
ricavati da diversi ritrovamenti
archeologici legano strettamente i
Filistei al mondo miceneo.
Comunemente negli Ekwesh sono stati
riconosciuti gli Achei: l’unico problema
è che dai bassorilievi egiziani essi
vengono rappresentati come circoncisi,
una pratica a quanto si sa del tutto
estranea ai costumi ellenici. Tuttavia
il mondo miceneo era alquanto
sfaccettato e tutt’altro che
impermeabile a influssi orientali, come
ricordano anche i miti greci su Cadmo e
sulle Danaidi, e lo storico
anglo-ucraino Michael Astour considerò
l’elemento degli Achei circoncisi come
una prova della sua ipotesi di una
derivazione semitica della civiltà del
Tardo Bronzo in Grecia. Del resto,
sarebbe il caso di chiedersi quanto
realmente conosciamo di quella cultura,
al di là delle informazioni, dense di
inevitabili errori e travisamenti, che
ci giungono dai poemi omerici, scritti
diversi secoli dopo gli eventi narrati.
È proprio l’epica greca, e in
particolare l’Odissea, che giunge a
rafforzare in qualche misura il
collegamento tra Ekwesh e Achei:
parlando con Telemaco, Menelao ricorda
che per otto anni dopo la guerra di
Troia aveva vagato con la sua flotta
attraverso Cipro, Fenicia e Egitto,
razziando grandi ricchezze (IV, 80-89),
e lo stesso Ulisse, in uno dei suoi
fallaci ma verosimili racconti, finge di
aver compiuto una scorribanda d’esito
infausto nel paese del faraone (XIV,
248-284). Evidentemente, l’eco delle
grandi spedizioni a scopo di razzia
sulle coste egiziane era rimasta ancora
viva a distanza di secoli.
Un altro popolo per il quale è stato
proposto uno stretto legame con il mondo
miceneo è quello dei Denyen, menzionati
fuggevolmente già in una delle Lettere
di Amarna (la EA 151), dove vengono
riferite le notizie della morte del loro
re e dell’ascesa al trono in modo
pacifico di suo fratello. Di solito sono
omologati ai Danuna, che nei tempi
successivi erano stanziati in Cilicia,
presso la città di Adana, anche se
alcuni li hanno proposti come gli
antenati della tribù israelitica di Dan.
Sulla base principalmente dell’assonanza
dei nomi, è stata ipotizzata una loro
derivazione dai Danai, altro nome dei
Greci micenei, e anche questa tesi trova
un appoggio nella mitologia ellenica:
tra le tante leggende riguardanti le
vicende dei reduci dalla guerra di
Troia, c’è quella dell’indovino Mopso,
che condusse un gruppo di guerrieri in
una spedizione lungo le coste
meridionali dell’Anatolia, sino a
stabilirsi appunto in Cilicia. La
corrispondenza tra Danai e Danuna sembra
essere confermata da un’iscrizione
bilingue scoperta a Karatepe, risalente
all’VIII secolo a.C., dove si narrano le
imprese del re dei Danuna Azatiwatas,
che si dichiara discendente di un
sovrano detto Mukshush in lingua hittita
e Mupsh in fenicio.
Weshesh e Tjeker costituiscono forse le
genti più enigmatiche di tutto il
gruppo. Nei primi si sono voluti vedere
gli abitanti della città di Ouassos, in
Caria, ma non è mancato chi ha proposto
che si trattasse degli antenati del
popolo italico degli Osci, per quanto
questi ultimi in età classica
apparissero del tutto digiuni di
conoscenze nautiche. I Tjeker sono stati
accostati ai Teucri, menzionati
nell’Iliade tra gli alleati dei Troiani,
o anche alla città cretese di Zakros;
più sicuro è il loro destino, dato che
secondo la Storia di Wenamun, testo
egizio dell’XI secolo a.C., all’epoca
essi occupavano il porto di Dor, poco
più a nord del territorio filisteo,
sotto la guida di un capo di nome Beder.
Restano da esaminare origini e
destinazione finale di Sherden,
Shekelesh e Teresh, tutte genti per le
quali viene proposta con forza una
connessione “italiana”.
Sin dall’inizio degli studi sui Popoli
del mare, gli Sherden sono stati da
molti identificati con i Sardi, ma anche
tra i sostenitori di questa tesi c’è
discordia tra chi li considera autoctoni
della Sardegna e chi invece propone una
loro origine anatolica, per la
precisione dalla zona su cui poi sorse
la città di Sardi, e un loro successivo
spostamento sull’isola alla quale
dettero il nome, al termine della grande
invasione di inizio XII secolo a.C.
È innegabile una certa affinità tra gli
elmi delle statuette in bronzo del
periodo nuragico e quelli indossati in
alcuni bassorilievi egiziani appunto dai
pirati o dai mercenari sherden, e un
passo del poeta Simonide riportato da
Zenobio (V, 85), riferito al mitologico
gigante di bronzo Talos, mette in
evidenza un collegamento tra Sardegna e
Creta sin dall’età minoica.
Per gli Shekelesh è stata proposta
un’identificazione con i Siculi,
esclusivamente su una base di
similitudine fonetica, ma anche in
questo caso si dibatte su una loro
provenienza direttamente dalla Sicilia
(o da altre parti d’Italia, visto che
secondo la tradizione,confermata in
qualche modo da prove archeologiche e
linguistiche, essi passarono lo stretto
di Messina dopo aver abbandonato il
Lazio) o su una loro origine anatolica,
in particolare dalla Pisidia, dove
esisteva una città chiamata Sagalassos,
e un loro successivo spostamento verso
ovest. Va detto che tanto gli Sherden
quanto gli Shekelesh praticavano la
circoncisione, il che rende problematica
una loro origine occidentale, ancor più
dell’accostamento Ekwesh/Achei.
Infine, i Teresh sono stati collegati
con i Tirreni, vale a dire gli Etruschi,
anche se non è mancato chi ha proposto
come loro origine la Taruisa dei
documenti hittiti, generalmente
accostata all’omerica Troia. A dire il
vero, sarebbe possibile trovare un punto
di incontro tra le due ipotesi basandosi
sul celebre passo delle Storie di
Erodoto (I, 94), nel quale la genesi del
popolo etrusco è attribuita a un gruppo
di coloni provenienti dalla Lidia,
afflitta da una terribile carestia,
sotto la guida del principe Tirreno, in
un periodo di tempo che potrebbe
coincidere con quello delle invasioni
dei Popoli del mare. Le origini
anatoliche dei Tirreni non sono però
accettate da tutti gli studiosi, anzi
negli ultimi tempi si predilige
l’ipotesi di una endemicità italica di
questo popolo, sostenuta già in età
classica dall’altro storico di
Alicarnasso, Dionigi. In verità, ci
sarebbero indizi di una presenza
tirrenica nell’alto Egeo, e tra di essi
il più importante è la cosiddetta stele
di Lemno, rinvenuta nel 1885, risalente
alla seconda metà del VI secolo a.C. e
recante un’iscrizione in un alfabeto
molto simile a quello etrusco; da notare
che sempre Erodoto afferma (V, 26) che
Lemno, così come la vicina Imbro, in
quel periodo era ancora abitata da genti
pelasgiche. Questa scoperta non ha però
messo fine alle diatribe sulle origini
dei Tirreni, in quanto diversi studiosi
hanno ipotizzato la fondazione di una
colonia di pirati provenienti
dall’Italia sull’isola greca in epoche
successive, basando la loro tesi su
prove di tipo linguistico.
Va tuttavia evidenziato che nella
storiografia ellenica non c’è nessun
riferimento a una presenza di Tirreni
nell’Egeo nell’epoca buia che separa il
Tardo Bronzo dall’età classica, e
neanche nella mitologia è possibile
trovare un benché minimo accenno a una
simile eventualità.
Molto numerosi sono invece i racconti
dello stanziamento nell’area italiana di
gruppi di guerrieri provenienti dal
Mediterraneo orientale, quasi sempre
riferiti ai tempi immediatamente
successivi o di poco anteriori alla
guerra di Troia, che probabilmente
rappresenta la trasposizione mitica di
eventi strettamente legati alle
invasioni dei Popoli del mare: abbiamo
così notizie dello stanziamento in
Sardegna dei seguaci di Iolao, nipote e
compagno di Eracle, dell’arrivo in vari
luoghi della penisola di profughi
troiani (Enea nel Lazio, Antenore in
Veneto, i progenitori degli Elimi in
Sicilia), o dello sbarco sulle nostre
coste meridionali di Achei reduci da
quel devastante conflitto (su tutti
Diomede che raggiunse la Puglia
settentrionale, lì dove in epoche
successive erano stanziati i Dauni, per
i quali non è mancato chi abbia notato
la loro assonanza con i Denyen), oltre
al già citato racconto erodoteo
sull’origine degli Etruschi.
Da tutti questi elementi è possibile
ricostruire una possibile
interpretazione degli eventi occorsi nel
Mediterraneo orientale a cavallo tra
XIII e XII secolo a.C., con tutte le
cautele del caso e non dimenticando che
si tratta di una semplice ipotesi,
suscettibile di revisioni nel caso di
ulteriori ritrovamenti archeologici o di
altro genere.
Sino a che su quel tratto di mare venne
esercitata la talassocrazia dei Minoici
di Creta, esso fu del tutto sicuro da
incursioni piratesche o di qualsiasi
altro tipo di invasori: quando però
l’area fu colpita da una serie di
cataclismi, primo tra tutti l’eruzione
del vulcano di Thera, tra la fine del
XVI e l’inizio del XV secolo a.C.,
l’impero marittimo cretese entrò in
crisi e dopo poco tempo l’isola
soggiacque agli invasori achei
provenienti dalla Grecia continentale.
Questo aprì il campo alle attività
razziatrici di popolazioni rivierasche
sino ad allora tenute a bada, come i
Lukka e gli Sherden. I primi erano
stanziati con tutta probabilità
nell’Anatolia sud-occidentale, mentre
per i secondi resta il dubbio se
provenissero dalla Sardegna o anch’essi
dall’area anatolica.
La succitata grande carestia che colpì
vaste zone dei Balcani e dell’Anatolia
sul finire del XIII secolo a.C. causò il
crollo o la crisi di diversi stati
dell’area, primo fra tutti il regno
degli Ahhiyawa, dietro il quale forse va
riconosciuta Micene. La frammentazione
del mondo miceneo provocò
l’ingrossamento delle fila dei pirati,
raggiunti da Achei in fuga dalla
madrepatria invasa da nuovi arrivati o
in preda a discordie intestine, o
semplicemente alla ricerca di un proprio
spazio nel nuovo panorama geopolitico
che veniva a crearsi.
In effetti pochi anni dopo ci fu la
prima tentata invasione dell’Egitto da
parte dei Popoli del mare, tra i quali i
principali componenti, stando almeno al
numero dei prigionieri fatti dal
faraone, erano proprio gli Ekwesh, cioè
gli Achei. Il fallimento di
quell’impresa condusse questa massa di
uomini, spinti dalla bramosia di
bottino, ma forse anche dalla ricerca di
nuovi territori, a deviare le sue
attenzioni verso l’indebolito regno
hittita, che nonostante una dura
resistenza alla fine crollò miseramente:
questa catastrofe a sua volta giunse a
mettere in movimento ulteriori popoli,
stavolta più profughi che conquistatori,
alla disperata ricerca di nuove terre.
Così, mentre Ekwesh e Lukka scompaiono
dalle cronache, evidentemente paghi di
quanto ottenuto in Anatolia e a Cipro,
spuntano ora nuove genti, al tempo
stesso complici e vittime degli
invasori: i Peleset, probabilmente i
Pelasgi stanziati nelle isole egee e
lungo le coste prospicienti il mar di
Marmara (ancora nel V secolo a.C.
Erodoto li dice abitanti la Crestonia,
regione della Macedonia meridionale,
nonché, come già detto, Imbro e Lemno),
i Tjeker, forse i Teucri della Troade, i
Weshesh, provenienti dalla Caria, i
Denyen, forse una branca degli Achei.
Quando le possibilità di penetrare in
Egitto, che in quel periodo, essendo
l’unico paese rimasto indenne dalla
carestia, doveva costituire per tutti
una specie di Eldorado, furono sventate
una volta per tutte nel 1175 a.C.,
ciascuna di queste genti si stabilì lì
dove le fu possibile.
Gli Ekwesh probabilmente si insediarono
in gran parte a Cipro e iniziarono a
colonizzare le coste dell’Anatolia
occidentale, e non a caso da qui avranno
in seguito origine i poemi omerici,
incentrati su vicende mitologiche,
basate tuttavia proprio sui turbinosi
avvenimenti storici che condussero al
collasso della civiltà del Tardo Bronzo.
I Lukka, come detto, si accontentarono
presto di aver raggiunto l’indipendenza
in Anatolia meridionale, tanto da non
prendere neanche parte alla grande
invasione del 1175 a.C. I Peleset e i
Tjeker occuparono le coste palestinesi,
all’inizio come mercenari al servizio
del faraone, poi, approfittando del
declino egiziano, acquisirono sempre più
autonomia. I Denyen si insediarono molto
più a nord, in Cilicia orientale, ma in
parte potrebbero essere rimasti nella
zona siriana e successivamente aver dato
effettivamente vita alla tribù ebraica
di Dan. In Giudici, 5,18, nel suo Canto
di vittoria, Debora dice: “e Dan
perché vive straniero sulle navi?”,
e anche il racconto delle imprese di
Sansone, il maggior esponente di questa
tribù, ha un sapore innegabilmente
simile a quello delle storie mitologiche
degli eroi ellenici. I Weshesh
potrebbero a loro volta essere
all’origine dell’altra tribù ebraica di
Asher, che nel periodo successivo
occupava le coste subito a meridione
della Fenicia.
Resta da chiarire la sorte di Sherden,
Shekelesh e Teresh, tra l’altro gli
unici gruppi che compaiono tanto nel
1209 quanto nel 1175 a.C. È possibile
che in effetti essi fossero partiti
dalle coste italiane e che lì tornassero
al termine delle loro lunghe campagne
nel Levante, ma, come già detto, a
questa ipotesi si oppone il fatto che
presso le prime due popolazioni fosse
diffusa la pratica della circoncisione.
Potrebbe anche essere che si trattasse
di genti anatoliche, con gli Sherden
provenienti dalla zona di Sardi, i
Teresh sempre dalla Lidia o dalla Troade,
gli Shekelesh dalle regioni a est della
Licia, dove sorgeva la città di
Sagalassos: in questo caso, una volta
respinti dall’Egitto, questi razziatori
potrebbero aver fatto vela verso
l’Italia e qui essersi imposti come
élite guerriera alle popolazioni locali,
dando loro in seguito il proprio nome,
un po’ come fecero in epoche successive
gli Ungari o i Turchi.
Del resto, si tratta dello scenario
delineato dal racconto dell’arrivo di
Enea nel Lazio: un consistente gruppo di
guerrieri provenienti dall’ormai
distrutta Troia che sbarca sulle coste
italiane e, dopo un iniziale conflitto,
finisce con il fondersi con gli indigeni
Latini. |