N. 55 - Luglio 2012
(LXXXVI)
Per un ritratto del politico ideale
lettura dei Consigli politici di Plutarco
di Paola Scollo
Plutarco
nacque
a
Cheronea,
in
Beozia,
nel
45
d.C.
Compì
numerosi
viaggi
in
Grecia,
Asia
ed
Egitto.
Visitò
l’Italia
settentrionale
e
soggiornò
per
qualche
tempo
anche
a
Roma.
Divenuto
cittadino
romano
col
nomen
di
Mestrio,
nell’Urbe
ricoprì
importanti
cariche
pubbliche:
tra
il
98 e
il
117
ricevette
da
Traiano
gli
ornamenta
consularia;
da
Adriano
ottenne
l’incarico
di
legatus
in
Grecia.
Pur
rimanendo
fedele
suddito
di
Roma,
non
mancava
di
ostentare
orgoglio
per
le
sue
origini
greche:
era
solito,
infatti,
vantare
le
cariche
rivestite
in
patria,
dove
fu
arconte
eponimo,
sovrintendente
dell’edilizia
pubblica
e
telearco.
Di
notevole
valore
considerò
poi
l’incarico,
rivestito
per
circa
un
ventennio,
di
sacerdote
presso
il
santuario
di
Apollo
a
Delfi.
La
data
di
morte
non
è
certa:
per
alcuni
va
collocata
dopo
il
119;
per
altri,
invece,
nel
125
o
nel
127.
Plutarco
è
stato
uno
scrittore
molto
prolifico.
La
sua
vasta
produzione
ci è
giunta
attraverso
il
cosiddetto
catalogo
di
Lamprias,
attribuito
al
figlio
o,
piuttosto,
al
fratello.
Nel
complesso,
si
ricordano
circa
260
opere,
di
cui
alcune
certamente
spurie.
È
possibile
dividere
la
produzione
in
due
corpora:
da
una
parte
le
Vite
parallele
a
noi
pervenute
in
numero
di
cinquanta;
dall’altra,
i
Moralia,
una
settantina
di
saggi
di
contenuto
etico,
filosofico,
scientifico,
naturalistico,
antiquario,
erudito
e
politico.
Occorre
comunque
precisare
che
la
denominazione
di
«cose
morali»
non
è da
attribuire
a
Plutarco.
L’origine
del
titolo
potrebbe
essere
ricondotta
ad
almeno
tre
ordini
di
ragioni:
le
opere
di
contenuto
etico
erano
le
più
lette
e
apprezzate;
nell’edizione,
curata
dal
bizantino
Massimo
Planude,
gli
scritti
etici
erano
collocati
al
primo
posto;
nelle
intenzioni
di
Plutarco,
gli
scritti
etici
dovevano
rivestire
primaria
importanza,
costituendo
peraltro
il
nucleo
primitivo
delle
opere
a
carattere
etico-
filosofico.
Come
è
stato
rilevato,
all’interno
dei
Moralia
figura
anche
la
trattatistica
di
carattere
politico.
Gli
scritti
politici,
in
linea
con
la
maggior
parte
delle
opere
plutarchee,
nascono
per
un’occasione
specifica:
dopo
la
morte
di
Domiziano,
Menemaco,
un
conoscente
di
Plutarco,
ricevette
un
incarico
politico
a
Sardi,
per
cui
chiese
consigli
allo
scrittore
di
Cheronea.
Tuttavia,
il
trattato
trascende
la
specifica
occasione
per
divenire
un’analisi
di
più
ampio
respiro
volta
a
proporre
un
ideale
di
uomo
politico.
Plutarco
si
interroga
sulla
natura
del
potere,
cercando
di
comprendere
i
meccanismi
che
regolano
l’agire
dei
politici
contemporanei,
in
un’epoca
in
cui
ormai
il
mondo
greco
è
stato
completamente
inglobato
all’interno
dell’impero
romano.
L’impegno
di
Plutarco
si
traduce
quindi
in
una
serie
di
consigli
utili
per
tutti
coloro
che
ambiscono
a
dedicarsi
agli
affari
pubblici.
La
trattazione
non
si
ferma
ad
un
ambito
meramente
teorico,
ma
viene
continuamente
sostenuta
da
exempla
che,
oltre
a
testimoniare
la
vasta
erudizione
di
Plutarco,
contribuiscono
a
dare
forza
alle
argomentazioni.
Sul
filo
di
questa
direttrice,
lo
scritto
si
pone
quale
importante
chiave
di
lettura
per
la
comprensione
della
situazione
politica
dell’impero
tra
il I
e il
II
secolo.
Ma
veniamo
dunque
al
testo.
Plutarco
esordisce
ricordando
che
Menemaco
è
stato
spinto
alla
politica
dalla
ragione
(logos)
e,
in
linea
con
le
nobili
origini,
aspira
a
divenire
in
patria
«uno
che
sa
dire
parole
e
portare
a
termine
fatti»
(I).
È
questa
dunque
la
definizione
di
politico.
Fin
da
subito,
lo
scrittore
di
Cheronea
sottolinea
l’importanza
della
politica
(politeia),
quindi
il
grado
di
serietà
e di
impegno
richiesto
a
chi
intende
dedicarsi
agli
affari
pubblici
con
piena
consapevolezza,
non
per
amore
di
visibilità
o
per
mancanza
di
altro.
In
seguito,
stabilisce
come
«base
sicura
e
stabile»
per
l’attività
politica
«la
scelta
che
trae
il
suo
principio
sul
giudizio
e
sulla
ragione
e
non
un
fuoco
di
paglia
dettato
da
vanagloria
o
amore
di
contesa
o
per
mancanza
di
altre
attività».
Coloro
che,
infatti,
concepiscono
la
politeia
come
«passatempo»
giungono
a
screditare
l’attività
politica
e,
«pur
avendo
sognato
la
gloria,
precipitano
nell’oscurità»
oppure,
«aspettandosi
di
divenire
temibili
agli
altri
tramite
il
potere,
devono
affrontare
situazioni
pericolose
o
sconvolgenti».
Niente
di
tutto
ciò
accade,
invece,
a
chi
si
dedica
alla
politica
per
«convinzione
e
ragionamento».
Coloro
che
si
distinguono
per
«preparazione
e
discernimento»
governano
gli
impegni
serenamente
e
con
misura.
Inoltre,
non
si
tormentano
e
non
hanno
ripensamenti,
perché
hanno
posto
come
fine
precipuo
delle
loro
azioni
il
bene
(to
kalon).
Stando
alle
riflessioni
di
Plutarco,
la
motivazione
è
dunque
il
presupposto
per
lo
svolgimento
di
un
lavoro
politico
sereno
e
fertile.
Nell’immagine
di
Plutarco,
fondamentale
diviene
poi
per
il
politico
l’analisi
del
carattere
dei
cittadini,
con
particolare
riferimento
«a
quello
che
appare
fra
tutte
le
altre
cose
notevolmente
saldo
e
dotato
di
considerevole
forza».
Come
spiega
il
biografo,
si
tratta
di
un
processo
lungo
e
complesso:
formare
il
carattere
del
popolo
e
correggerne
la
natura
esige
profonda
autorevolezza.
Il
vero
politico
deve
essere
in
grado
di
conoscere
la
natura
(physis)
e il
carattere
(ethos)
dei
propri
concittadini,
non
per
tentare
di
imitarlo,
quanto
piuttosto
per
accattivarselo:
«L’ignoranza
dei
caratteri
-scrive,
infatti,
Plutarco-
porta
in
politica
a
insuccessi
e
cadute
non
meno
deleterie
di
quelle
che
si
determinano
nei
legami
di
amicizia
con
i
re»
(III).
Una
volta
analizzata
la
physis
dei
cittadini,
occorre
che
il
politico
si
ponga
in
armonia
con
i
caratteri.
Va
da
sé
che
tale
risultato
può
essere
conseguito
solo
se
il
politico
per
primo
si
impegna
a
dare
un
ordine
al
proprio
modus
vivendi,
proponendo
la
sua
condotta
di
vita
quale
paradeigma
o
exemplum
per
gli
altri.
Di
qui
l’esortazione:
«Tu
stesso,
come
dovessi
vivere
d’ora
in
poi
in
un
teatro
esposto
alla
vista
di
tutti,
tendi
a
dare
ordine
al
tuo
modo
di
vivere».
La
storia
è
ricca
di
esempi
illustri
in
tal
senso.
Basti
pensare
a
Temistocle
che,
quando
progettò
di
darsi
alla
politica,
si
astenne
da
bevute
e da
allegre
comitive,
oppure
a
Pericle,
che
mutò
radicalmente
atteggiamento
del
corpo
e
tenore
di
vita,
camminando
lentamente
o
esprimendosi
con
calma.
Spiega,
infatti,
Plutarco
che
di
chi
si
occupa
di
politica
si
indaga
ciò
che
dice
o fa
in
pubblico,
ma
anche
sul
banchetto,
sugli
amori,
sul
matrimonio,
su
quanto
fanno
di
scherzoso
o di
serio.
Infine,
cita
il
caso
di
Alcibiade,
che
in
politica
«era
l’uomo
più
in
gamba
di
tutti,
come
generale
era
invincibile,
ma
che
il
comportamento
dissoluto
e la
sfrontatezza
trassero
in
rovina
e
resero
la
città
impossibilitata
a
trarre
giovamento
dalle
altre
sue
qualità,
per
la
sua
smodatezza
e
per
l’intemperanza
[…]»
(IV).
Dopo
aver
suggerito
il
modus
vivendi
da
adottare,
Plutarco
afferma
che
il
politico,
come
coloro
che
governano
le
navi,
«deve
avere
in
sé
una
mente
atta
a
governare
e
una
parola
in
grado
di
dare
ordini,
perché
non
abbia
bisogno
della
voce
di
un
altro».
È
necessario
guidare
il
popolo
e la
città,
afferrandoli
«per
gli
orecchi»,
non
come
fanno
coloro
che
sono
inesperti
nel
parlare
che,
cercando
nelle
moltitudini
prese
rozze
e
senz’arte,
trascinano
il
popolo
«per
la
gola,
offrendo
banchetti,
o
per
la
borsa,
dando
elargizioni,
o
allestendo
danze
lascive
o
spettacoli
di
gladiatori
[…].
Guidare
il
popolo
è
proprio
delle
moltitudini
convinte
della
parola,
mentre
tali
tentativi
di
addomesticare
le
plebi
in
nulla
differiscono
dalla
caccia
e
dal
pascolo
delle
bestie
senza
ragione»
(V).
Plutarco
specifica
poi
quali
debbano
essere
i
requisiti
dell’ars
oratoria
propria
di
un
politico
pieno
di
carattere
e
schietto:
«L’oratoria
di
un
politico
dunque
non
sia
giovanilmente
ridondante
né
teatrale,
come
quella
di
chi
pronuncia
un
panegirico
e
intreccia
corone
di
vocaboli
delicati
e
fioriti,
né
al
contrario
come
quella
che
Piteo
rimproverava
a
Demostene,
che
odorava
di
lucerna
e di
affettazione
sofisticheggiante,
pungente
nelle
argomentazioni
e
rifinita
nei
suoi
periodi
con
il
regolo
e
con
il
compasso.
[…]
Nel
discorso
del
politico,
del
consigliere,
del
magistrato
non
traspaia
fierezza,
né
gli
venga
attribuito
a
lode
il
parlare
con
ricercatezza,
con
arte,
con
distinzioni
ben
distribuite,
ma
il
suo
dire
sia
pieno
invece
di
carattere
schietto,
di
sostanza
vera,
di
espressività
dei
padri,
di
preveggenza
e
intelligenza
salutare,
che
unisca
al
pregio
la
grazia
e la
capacità
di
guida
che
derivano
da
parole
elevate
e da
ragioni
appropriate
e
convincenti».
In
definitiva,
«dignità
e
grandezza
nel
dire
si
addicono
di
più
a un
uomo
politico»
(VI).
All’interno
del
discorso
politico
Plutarco
ammette
l’introduzione
di
storie,
sentenze,
miti
e
metafore,
ma
con
moderazione.
D’altra
parte,
sono
questi
i
mezzi
utilizzati
da
coloro
che
tentano
di
scuotere
l’uditorio,
utili
solo
se
impiegati
con
misura
e
all’occasione.
Talvolta,
è
previsto
anche
l’inserimento
di
un
motto
arguto
o
ironico,
purché
non
venga
pronunciato
«per
tracotanza
o
buffoneria»,
ma
che
risulti
funzionale
«per
chi
si è
buttato
nello
scherzo
e ha
dato
inizio
al
dileggio»
(VI).
Nel
complesso
-puntualizza
Plutarco-
«nel
trattare
le
questioni
con
spirito
bisogna
guardarsi
particolarmente
dagli
eccessi
e
dal
pungere
inopportunamente
l’uditorio
o
rendendo
d’animo
basso
e
vile
chi
sta
parlando»
(VII).
Rivolgendosi
alla
moltitudine,
è
necessario
avvalersi
di
un
discorso
«considerato
e
non
vacuo,
esponendo
con
sicurezza,
ben
sapendo
che
anche
il
grande
Pericle,
prima
di
pronunciare
un
discorso,
si
augurava
che
non
gli
capitasse
in
mente
alcuna
parola
estranea
ai
fatti»
(VIII).
Fondamentale
è,
infine,
disporre
di
parola
agile
e
ben
esercitata,
perché
il
politico
deve
essere
in
grado
di
argomentare
all’improvviso.
Plutarco
pone
poi
attenzione
alle
strade
di
accesso
alla
politica,
distinguendo
due
percorsi:
da
una
parte,
la
strada
«rapida
verso
la
gloria
e
brillante,
ma
non
priva
di
pericoli»;
dall’altra,
la
strada
«più
ordinaria
e
più
lenta»,
ma
che
ha
in
sé
«maggiore
sicurezza»
(X).
In
seguito,
si
chiede
quale
sia
l’inizio
auspicabile
per
una
brillante
e
splendida
carriera
politica.
In
questo
interrogativo
è
impossibile
non
cogliere
un
implicito
riferimento
all’epoca
a
lui
contemporanea.
A
questo
proposito,
Plutarco
indica
i
processi
pubblici
e le
ambascerie
verso
l’imperatore,
che
necessitano
di
uomini
«di
temperamento
e
dotati
di
coraggio
e
assennatezza»
(X).
Talvolta,
si
può
accedere
alla
politica
anche
attraverso
l’inimicizia,
entrando
apertamente
in
contrasto
con
uomini
«forniti
di
un’autorità
terribile
e
odiosa»:
«subito,
infatti,
il
prestigio
di
chi
è
vinto
passa
al
vincitore
e
con
maggiore
reputazione».
Tuttavia,
Plutarco
valuta
questo
modus
agendi
come
molto
pericoloso
per
chi
è in
procinto
di
intraprendere
la
carriera
politica.
Preferibile
è la
scelta
di
Solone
che,
di
fronte
alle
divisioni
di
Atene,
decise
di
rimanere
imparziale
e,
proprio
per
questo,
venne
scelto
come
legislatore
al
fine
di
ristabilire
la
concordia.
Di
qui
l’avvio
del
suo
potere.
La
strada
più
sicura
e
comoda
è
senza
dubbio
quella
percorsa
da
Aristide,
Focione,
Pammene
di
Tebe,
Lucullo,
Catone
e
Agesilao,
i
quali
devono
i
loro
inizi
in
politica
all’essersi
appoggiati,
ancor
giovani
e
senza
gloria,
a
personalità
più
anziane
e
celebri.
In
sintesi,
«a
quanti
sono
condotti
per
mano
verso
la
gloria,
capita
di
godere
del
favore
di
molti
e di
farsi
odiare
di
meno
se
accade
qualcosa
di
spiacevole»
(XI).
Anche
la
scelta
del
personaggio
cui
appoggiarsi
non
va
sottovalutata.
È
necessario,
infatti,
affidarsi
non
semplicemente
a
personaggi
famosi
e
potenti,
ma
soprattutto
virtuosi,
in
quanto,
talvolta,
per
invidia
e
ambizione
ai
giovani
non
viene
concesso
spazio
per
l’azione,
ovvero
occasione
per
mettersi
in
luce.
È
quanto
accadde
a
Mario,
che
per
indivia
cessò
di
avvalersi
dell’aiuto
di
Silla.
Di
contro,
Silla
incoraggiò
l’ascesa
di
Pompeo,
riuscendo
a
porsi
al
di
sopra
di
tutti,
desiderando
essere
«non
il
solo,
ma
il
primo
e il
più
grande
tra
molti
e
grandi»
(XII).
Plutarco
si
sofferma
poi
sulla
scelta
degli
amici
e
dei
collaboratori
da
parte
del
politico:
«Gli
amici,
in
realtà,
devono
essere
gli
strumenti
vivi
e
pensanti
degli
uomini
di
governo,
e
non
bisogna
che
scivolino
con
essi
quando
si
allontanano
dalla
retta
via,
ma
che
si
prendano
cura
invece
che
non
abbiano
a
commettere
errori
neppure
per
ignoranza.
Fu
proprio
un
fatto
come
questo
a
disonorare
Solone
e a
metterlo
in
cattiva
luce
nei
riguardi
dei
suoi
concittadini»
(XIII).
Il
politico
non
deve
accentrare
il
potere,
ma
deve
avvalersi
piuttosto
di
gente
leale
e
fidata.
A
tal
proposito,
Plutarco
auspica
una
vera
e
propria
suddivisione
del
potere
sulla
base
della
constatazione
che
«quando
il
potere
è
diviso
tra
molti
non
solo
la
sua
grandezza
arreca
minore
invidia,
ma
anche
gli
affari
pubblici
vengono
portati
a
termine
in
modo
migliore»
(XV).
Segue
quindi
una
discussione
su
un
nodo
problematico
alquanto
complesso,
che
si
può
riassumere
nell’affermazione
secondo
cui
«ogni
sistema
politico
produce
inimicizie
o
contrasti».
Nell’immagine
di
Plutarco,
«occorre
non
considerare
nemico
nessun
cittadino,
a
meno
che
uno
non
sia
come
Aristione
o
Nabide
o
Catilina,
peste
e
cancrena
della
città
(XIV)».
Bisogna,
piuttosto,
che
il
politico
mostri
affezione
nei
confronti
del
popolo,
lasciando
rimpianto
di
sé.
Per
ottenere
ciò,
il
politico
deve
partecipare
attivamente
e in
prima
linea
a
ogni
iniziativa
pubblica,
non
ponendosi
mai
in
disparte
«come
l’ancora
sacra
su
una
nave,
restando
in
attesa
delle
estreme
necessità
dello
stato».
Plutarco
propone
poi
l’atteggiamento
da
adottare
nei
confronti
dei
cittadini:
«Il
politico
deve
tenere
calmi
i
cittadini
comuni
con
l’eguaglianza,
quelli
influenti
con
mutue
concessioni,
trattenere
e
cercare
di
dirimere
gli
affari
nell’ambito
della
città,
applicando
loro
una
cura
politica
come
a
malattie
indicibili,
desiderando
piuttosto
cedere
di
fronte
ai
suoi
concittadini
che
vincere
con
offesa
e
violazione
dei
diritti
della
propria
patria
e
pregando
gli
altri
singolarmente
e
dimostrando
loro
che
grande
male
sia
la
smania
di
primeggiare».
Nelle
sue
scelte,
il
politico
deve
avere
come
scopo
prioritario
quello
di
«mantenere
la
sicurezza
e
fuggire
da
ogni
turbamento
e
follia
di
vanagloria»
(XIX).
Il
politico
non
deve
suscitare
tempeste
e,
qualora
sorgano,
non
scuotere
con
pericolo
la
città,
ma
darle
sostegno
quando
è
sul
punto
di
crollare
e
corre
gravi
pericoli,
«sollevando,
per
così
dire,
l’ancora
sana
della
sua
libera
parola
nelle
traversie
più
gravi»
(XIX).
Occorre
poi
tributare
il
giusto
onore
a
ogni
magistratura,
che
è
«un
bene
sacro
e
grande».
Peraltro,
tale
onore
risiede
«nella
concordia
e
nell’amicizia
con
i
colleghi
più
che
nelle
corone
e
nella
clamide
adornata
di
porpora».
Anzi,
«[…]
si
dovrebbe
riverire
il
superiore,
dimostrare
considerazione
all’inferiore
e
onorare
il
simile,
usare
affabilità
e
sollecitudine
nei
riguardi
di
tutti,
in
considerazione
del
fatto
che
sono
divenuti
amici
non
“intorno
a
una
tavola”,
né
davanti
a
una
coppa
e
neppure
“intorno
al
focolare”,
ma
per
comune
voto
del
popolo
e
che
hanno
in
certo
qual
modo
come
eredità
l’appoggio
che
viene
loro
dalla
patria»
(XX).
Dopo
aver
indagato
la
physis
dei
cittadini,
occorre
poi
essere
«conoscitori
della
propria
stessa
natura
e
per
l’obiettivo
in
cui
tu
ti
senti
inferiore
a un
altro,
occorre
scegliere
quelli
che
valgono
di
più
anziché
quelli
che
ti
sono
simili.
[…]
Prenditi
anche
come
collaboratore
in
una
causa
o
compagno
in
un’ambasceria
uno
che
sia
buon
parlatore
se
tu
non
sei
spigliato
nel
dire,
come
fece
Pelopida
con
Epaminonda;
e se
ti
senti
poco
adatto
alle
relazioni
con
il
popolo
e
sei
altero
tieni
vicino
una
persona
simpatica
e
piena
di
attenzioni;
e se
ti
senti
debole
nel
corpo
e
poco
adatto
alla
fatica,
prenditi
uno
operoso
e
forte,
come
fece
Nicia
con
Lamaco
[…]
(XXVI)».
Di
qui
una
serie
di
riflessioni:
«Questo
è
appunto
il
primo
e il
più
grande
bene
insito
nella
buona
fama
dei
politici,
la
fiducia
che
apre
loro
gli
accessi
ai
pubblici
affari;
il
secondo
si
trova
nella
benevolenza
del
popolo,
che
per
i
buoni
è
un’arma
contro
i
detrattori
e i
malvagi
“come
quando
una
madre
scaccia
una
mosca
dal
figlio
quando
con
dolce
sonno
riposa”.
Essa
tiene
lontano
l’invidia
e
rende
uguale
nel
potere
il
plebeo
ai
nobili,
il
povero
a
ricchi,
il
cittadino
privato
ai
governanti:
insomma,
quando
lealtà
e
virtù
si
congiungono
è
come
un
vento
propizio
e
sicuro
per
l’attività
politica»
(XXVIII).
L’evergetismo
è
poi
considerato
alla
base
del
successo
del
politico:
non
bisogna,
infatti,
comportarsi
con
grettezza
nelle
elargizioni
abituali
quando
la
situazione
consente
una
buona
disponibilità,
«perché
le
moltitudini
hanno
un
odio
maggiore
verso
il
ricco
che
non
concede
nulla
del
suo,
che
verso
il
povero
che
ruba
dal
pubblico
denaro,
ritenendo
che
l’uno
agisca
per
necessità,
l’altro
invece
per
altezzosità
e
scarsa
considerazione
nei
loro
riguardi.
Per
prima
cosa
dunque
i
donativi
devono
essere
fatti
senza
pretesa
di
alcun
corrispettivo».
Di
qui
l’invito
a
Menemaco:
«[…]
Tu
preoccupati
di
tenere
lontano
dalla
città,
per
quanto
possibile,
tutte
quelle
liberalità
che
stimolano
e
nutrono
la
parte
sanguinaria
e
ferina,
ovvero
quella
dissoluta
e
intemperante,
e,
se
non
ti è
possibile,
tienitene
lontano
e
cerca
di
contrastare
il
popolo
che
ti
richiede
simili
spettacoli.
Fa’
sempre
in
modo
che
le
ragioni
delle
tue
spese
siano
giuste
e
sagge,
aventi
come
fine
il
bello
e il
necessario
o,
per
lo
meno,
il
piacere
e lo
svago
che
ne
conseguono
siano
disgiunti
dal
danno
e
dalla
dissolutezza»
(XXX).
Qualora
la
disponibilità
delle
sostanze
sia
modesta,
«non
v’è
nulla
di
ignobile
o di
meschino
a
riconoscere
la
propria
povertà
e
tirarsi
indietro
nel
competere
con
le
elargizioni
di
chi
ne
ha i
mezzi,
e
non
una
volta
indebitato
essere
oggetto
di
compassione
e di
riso
per
queste
pubbliche
manifestazioni.
[…]
In
tali
casi
occorre
soprattutto
avere
un
buon
dominio
di
se
stessi,
[…]
misurarsi
piuttosto
per
virtù
e
saggezza
con
quelli
che
cercano
sempre
di
guidare
la
città
con
la
forza
del
ragionamento,
che
possiedono
non
solo
nobiltà
e
dignità,
ma
anche
il
modo
di
raccogliere
il
favore
e di
saper
guidare
“più
desiderabile
degli
stateri
di
Creso”»
(XXXI).
Fondamentale
è la
nobiltà
d’animo:
«Chi
è
veramente
nobile
non
è
prepotente
né
odioso,
e il
saggio
non
è
uomo
rigido,
che
“avanza
con
occhio
crudele
a
vedersi
per
i
suoi
concittadini”,
ma
anzitutto
è
cortese
e
affabile
a
essere
avvicinato
e
accostato
da
tutti,
e
offre
sempre
aperta
la
sua
casa,
come
posto
in
cui
trovare
rifugio,
a
tutti
quelli
che
hanno
bisogno,
dimostrando
la
propria
sollecitudine
e
umanità
non
solo
con
opere
utili
e
attività,
ma
anche
prendendo
parte
al
dolore
di
chi
soccombe
e
partecipando
alla
gioia
di
chi
ha
successo
[…]».
Il
politico
deve
vivere
attivamente,
tra
la
gente,
avendo
cura
delle
problematiche
dei
suoi
concittadini.
In
ordine,
deve
essere
consigliere
benevolo,
difensore
senza
compenso,
pacificatore
sincero
delle
mogli
con
i
mariti
e di
amici
tra
loro.
Il
politico
ideale
non
deve
trascorrere
gran
parte
del
giorno
a
far
politica
dalla
tribuna
o
dal
proscenio,
ma
ad
occuparsi
della
vita
dello
stato
con
ogni
cura,
essendo
convinto
che
la
politica
è
«vita
e
azione
e
non
una
continua
fatica
e
servitù»
(XXXI).
Il
fine
è
ultimo
dell’azione
politica
risiede
per
Plutarco
nel
mantenimento
della
concordia
e
della
pace:
«La
cosa
migliore
comunque
è
provvedere
per
tempo
che
non
abbiano
mai
a
scoppiare
tumulti
e
considerare
che
questa
è la
funzione
più
nobile
dell’arte
politica.
Pensa
che
i
maggiori
beni
da
desiderarsi
per
la
città
sono
la
pace,
la
libertà,
la
prosperità,
l’incremento
del
popolo,
la
concordia
[…]».
Il
trattato
si
conclude
quindi
con
delle
riflessioni
sullo
scopo
prioritario
dell’azione
politica,
ovvero
creare
la
concordia
e
l’amicizia,
eliminare
le
contese,
le
discordie
e
ogni
malanimo,
mostrarsi
vicini
a
coloro
che
sono
stati
offesi
in
parte
maggiore,
dimostrando
di
partecipare
all’offesa
ricevuta
e di
sdegnarsi
insieme
a
loro,
quindi
dimostrare
che
coloro
che
«lasciano
perdere
riescono
superiori
a
quanti
intraprendono
le
contese
a
furia
di
vincere
e di
fare
violenza,
non
solo
per
moderazione
e
buona
disposizione
naturale,
ma
anche
in
magnanimità
e
grandezza
d’animo
e
che,
pur
cedendo
in
cose
di
poco
conto,
vincono
nelle
questioni
elevate
e
importanti
[…]».
Per
concludere,
il
politico
è
colui
che
eccelle
per
nobiltà
e
magnanimità
d’animo,
che
è
vicino
alla
sua
gente
e
che,
attraverso
il
proprio
modus
operandi,
aspira
alla
realizzazione
della
concordia
e
alla
pace.
Sono
questi
per
Plutarco
i
beni
più
preziosi
per
la
crescita
e la
prosperità
di
ogni
comunità.
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