N. 105 - Settembre 2016
(CXXXVI)
politica
e
social
media
Le
nuove
frontiere
della
comunicazione
di
Monica
Vargiu
Nell’eterno
dibattito
intellettuale
se
la
politica
sia
un’arte
o
una
scienza
alchemica
e in
un
clima
sociale
da
perenne
campagna
elettorale
che,
complice
il
Referendum
del
4
dicembre,
è
sempre
più
invelenito
e
senza
esclusione
di
colpi,
sembrano
veramente
lontanissimi
i
tempi
in
cui
storici
esponenti
di
partito
come
De
Gasperi,
Moro
o
Berlinguer,
leader
iconici
del
nostro
recente
passato,
affidavano
a
stringati
comunicati
stampa
le
loro
dichiarazioni,
o
quando
i
loro
interventi
nei
comizi,
attesi,
quanto
celebrati,
entusiasmavano
le
masse,
ma
erano
nel
contempo
misurati
e
composti,
esprimevano
autorevolezza,
carisma,
erano
insomma
per
l’elettorato
di
riferimento
appuntamenti
chiave
con
valenza
educativa,
poiché
l’eloquio
rispecchiava
credibilità
e
compostezza
di
fondo,
anche
quando
i
toni
usati
erano
asciutti
duri
e
perentori.
Conclusasi
l’era
delle
grandi
ideologie
e
delle
rigide
contrapposizioni,
che
hanno
rivelato
drammaticamente
sia
i
limiti
del
sistema
sia
la
staticità
di
molti
ragionamenti,
siamo
passati
da
una
logica
quasi
esclusivamente
partitocratica
a
quella
in
perenne
mutamento
che
punta
prevalentemente
sulla
personalizzazione
della
competizione
politica
e
alla
nascita
o
alla
creazione
ragionata
di
guest
star
che
diventano
“prodotto
commerciale”
da
posizionare
spesso
e
ovunque,
per
rispondere
ai
bisogni
e
alle
esigenze
degli
elettori
e
sottoposto
sovente,
con
algebrica
freddezza,
alle
logiche
spietate
del
marketing
su
larga
scala.
Oggi,
complici
i
tempi
e
l’omologazione
sempre
più
imperante,
le
interazioni
in
tempo
reale
fra
utenti
e
nuove
tecnologie
hanno
determinato
un
massiccio
cambiamento
del
registro
comunicativo
del
linguaggio
politico,
infatti
non
si
aspettano
più
i
comunicati
ufficiali
battuti
dalle
agenzie
o
affidati
ai
portavoce,
poiché
è lo
stesso
rappresentante
di
partito
o di
governo
che
comunica
in
modo
pressoché
istantaneo
a un
vastissimo
bacino
d’utenza,
ottimizzando
i
tempi
e
privilegiando
toni
più
confidenziali
e
meno
istituzionali,
che
accorciano
le
distanze,
almeno
in
apparenza,
fra
politica
ed
elettorato
reale
o
potenziale
che
sia.
Se
per
il
recentemente
scomparso
teorico
e
padre
spirituale
dei
pentastellati
Gianroberto
Casaleggio
la
rete
è
politica
allo
stato
puro,
quindi
in
presa
diretta
e
senza
filtri,
per
il
regista
Robert
Altman,
la
politica
è
oggi
così
sovraesposta
ai
media
che
nemmeno
nei
film
ha
detto
cose
che
non
avrebbe
potuto
ripetere
uguali
in
un
telegiornale;
il
“sensazionale”
è
dunque
diventato
“ordinario”,
al
punto
che
in
molti
casi
ha
smarrito
forza
e
capacità
performante,
il
quesito
da
porsi
a
questo
punto,
sarebbe
quello
che
stimi
l’accrescimento
del
valore
aggiunto
democratico,
cosa
più
facile
a
dirsi
che
a
farsi
visti
gli
evidenti
limiti
posti
da
un
dissertazione
filosofica
a
metà
strada
fra
dato
reale
e
astrazione.
Il
professor
Vittorio
Coletti,
esponente
celebre
dell’Accademia
della
Crusca
ha
evidenziato
che
si è
passati
da
“una
lingua
colta,
forte
ed
esclusiva
a
una
lingua
debole,
popolare
e
inclusiva”
sintetizzando
insomma,
“l’italiano
debole
del
potere
forte”.
Il
rispecchiamento
linguistico
è il
tramite
di
questa
inversione
epocale
di
tendenza,
che
punta,
attraverso
l’utilizzo
di
modi
e
termini
maggiormente
colloquiali
e
meno
formali
rispetto
al
passato,
a
conquistarsi
le
simpatie
e il
sostegno
degli
elettori
già
fidelizzati
e
soprattutto
di
quella
fetta
sempre
più
ampia
e
sempre
più
bramata
di
indecisi,
astensionisti
e
delusi.
Dovendo
fare
una
valutazione
puramente
linguistica,
lasciando
da
parte
per
un
attimo
i
contenuti
e le
idee,
potremmo
senza
dubbio
affermare
che
la
prosa
politica
ha
ceduto
copiosamente
il
passo
all’approssimazione,
è
ricca
sempre
più
di
termini
popolari
coloriti
e di
tendenza,
spesso
mutuati
dal
gergo
giovanile
e
dialettale,
alternati
talvolta
a
termini
stranieri,
metafore
sportive
e
latinismi,
non
sempre
immediatamente
comprensibili
e
valutabili
nel
loro
significato
effettivo
dalle
masse.
Twitter,
Facebook,
Instagram,
i
blog
e i
siti
dei
partiti,
sono
diventati
dunque
molto
più
che
amichevoli
salotti
virtuali
di
rappresentanza,
svolgono
il
compito
preciso
e
ormai
irrinunciabile
di
laboratori
della
politica
che
attraverso
lo
stimolo
del
confronto
“misurano”
giorno
dopo
giorno,
dichiarazione
dopo
dichiarazione,
la
“temperatura”
del
consenso,
offrono
un’immagine
intimistica
e
confidenziale
dei
loro
protagonisti
e di
rimando,
attraverso
un’interazione
virale
che
conosce
ben
poche
pause,
mirano
alla
radicalizzazione
del
proprio
elettorato
e
all’acquisizione
di
consenso
sempre
maggiore
in
una
logica
di
spartizione
spesso
ferina
e
non
sempre
civile
e
deontologicamente
corretta.
Fino
a
qualche
decennio
fa i
comizi
erano
appuntamenti
profondamente
sentiti
e
celebrati
e,
nel
periodo
di
campagna
elettorale,
il
messaggio
e la
proposta
politica
programmatica
era
affidata
a un
lungo,
pausato
e
autorevole
monologo
o ai
contingentati
e
talvolta
criptici
messaggi
esposti
nelle
tribune
elettorali
delle
tv
generaliste;
oggi
i
talk-show
abbondano,
spettacolarizzano
la
politica
in
maniera
enfatica,
talvolta
eludendo
i
reali
temi
d’interesse
e
spostando
l’attenzione
sui
soggetti,
contribuendo,
di
fatto,
alla
creazione
di
veri
e
propri
personaggi,
in
cui
l’elettorato
possa
identificarsi
e
riconoscersi.
I
più
lungimiranti
direttori
di
rete
e
organizzatori
di
palinsesti,
hanno
rilevato
da
tempo
che
la
politica
di
oggi
ha
molto
peso
in
termine
di
audience
e
che
l’agenda
televisiva
non
può
prescindere
da
essa,
a
tal
punto
che
gli
spazi
dedicati
si
sono
moltiplicati
esponenzialmente
rispetto
al
passato,
ma
spostando
in
maniera
considerevole
il
baricentro
dall’informazione
pura,
spesso
astrusa
e
non
sempre
accattivante,
a
quello
dell’intrattenimento
“impegnato”.
Con
queste
premesse,
viene
premiato,
in
termini
di
feedback
spesso
di
natura
interattiva
e
sondaggistica,
il
talento
comunicativo
dei
soggetti,
talvolta
a
scapito
dei
contenuti,
in
una
stabile
e
voluta
mescolanza
di
immagine
pubblica
e
immagine
privata.
La
virata
decisiva
della
comunicazione
politica
si
ha
comunque
già
intorno
al
decennio
fra
gli
anni
ottanta
e
novanta
quando,
con
l’avvento
delle
reti
commerciali
si
espande
l’offerta
di
spazi
a
disposizione
sia
degli
spot
a
pagamento,
sia
dei
dibattiti
e la
cultura
asciutta
e a
tratti
un
po’
ingessata
dei
concetti,
cede
il
passo
a
quella
dell’immagine
che
privilegia
per
ragioni
intrinseche
la
telegenia,
la
presenza
accattivante
o
perlomeno
fortemente
caratterizzata
e
facilmente
identificabile,
la
capacità
di
trasmettere
e
veicolare
il
messaggio
che
a
sua
volta
rende
gli
interpreti
dell’arena
politica
e
televisiva
dei
veri
e
propri
brand,
dei
soggetti
ai
quali
affidarsi
e ai
quali
dare
fiducia.
Se
la
politica
è
dunque
un
grande
set,
una
grande
fucina
di
istantanee
e di
slogan,
i
tempi
cronometrati
della
televisione
e la
brevità
dei
messaggi
imposta
dai
social
più
utilizzati,
forse
favoriscono
un
flusso
ininterrotto
di
informazioni,
ma
allo
stesso
tempo
pregiudicano
o
modificano
la
concreta
possibilità
di
sedimentazione
di
contenuti
nelle
coscienze
e
quindi
l’effettiva
capacità
di
scelta
dei
più,
a
cui
si
può
giungere
solo
attraverso
un’attenta
riflessione
e
una
valutazione
ragionata
delle
differenti
proposte.
Certo
è
che
un
elettore
conquistato
attraverso
questi
canali,
moltiplica
il
consenso
molto
più
rapidamente,
ma è
altrettanto
vero
che
questo
tipo
di
consenso
è
molto
meno
stabile
e
più
precario
che
in
passato,
poiché
legato
al
mercato
visivo,
sempre
in
perenne
trasformazione
e
desideroso
di
stimoli
nuovi
o
rinnovati
convincimenti.
Se è
dunque
facile
arrivare
ai
più
in
minor
tempo,
è
innegabile
che
la
strategia
comunicativa
si
sia
notevolmente
appiattita
e
presenti
impercettibili
differenze
e la
cosa,
porrà
in
tempi
brevi
l’urgenza
di
una
riflessione
agli
addetti
ai
lavori
che
si
prefigga
l’obiettivo
di
elaborare
nuovi
percorsi
e
nuove
tattiche
comunicative
per
arrivare
al
cuore
e
alla
mente
dell’elettorato,
poiché,
un
fenomeno
di
costume,
per
quanto
di
straordinaria
portata,
nel
momento
di
massima
espansione
contiene
fisiologicamente
in
sé i
presupposti
di
un
lento
ma,
inesorabile
cambiamento
di
rotta.
Politici
della
prima
e
della
seconda
repubblica
avevano
background,
immagine
e
visione
del
mondo
fortemente
marcate,
pensiamo
ad
esempio
alla
strategia
comunicativa
di
Silvio
Berlusconi,
o
anche
a
quella
di
Umberto
Bossi
o
Marco
Pannella:
ognuno
di
loro
ha
costruito
la
propria
presenza
sul
palcoscenico
politico
facendo
riferimento
sempre
ai
propri
valori,
alla
propria
storia
e a
una
progettualità
costantemente
molto
attiva
che,
unita
a
una
presenza
fisica
ricca
di
“ancoraggi”
visivi
e
verbali,
li
rendeva
facilmente
individuabili
e li
poneva
in
maniera
netta
e
strategica
in
quel
settore
dell’elettorato
che
ne
accreditava
il
potere
mediatico
enorme;
dei
trascinatori,
dei
catalizzatori
d’attenzione
insomma,
molto
ben
differenziati
fra
loro,
ma
dal
ruolo
intensamente
efficace
e
difficilissimi
da
emulare,
se
non
sulla
scia
di
un
accademismo
politico
che
francamente
è
più
materia
da
comprimari
che
da
attori
protagonisti.
In
un
terreno
di
scontro
sempre
più
orientato
a
screditare
l’avversario
piuttosto
che
a
proporre
soluzioni
nuove
ai
problemi
di
sempre,
si
fa
strada
e
forse
avrà
crescente
successo
se
applicata
nei
modi
e
nei
contesti
giusti,
la
teoria
estrapolata
ancora
una
volta
dal
marketing
della
“Mucca
viola”
di
Seth
Godin
che
trae
la
sua
forza
dalla
connotazione
sorprendente
e
straordinaria
del
prodotto,
quindi,
tradotto
in
termini
politici,
che
punta
su
un
soggetto,
magari
un
outsider,
che
risponda
alle
esigenze
latenti
o
disattese
di
una
ben
precisa
porzione
di
elettorato,
che,
attraverso
il
passaparola
affidato
ai
soggetti
giusti,
una
sorta
di
opinion
leaders,
espanda
a
livello
pandemico
il
consenso.
Arrivare
a
molti,
attraverso
i
canali
giusti
e
proporre
come
vincente
e
risolutiva
la
propria
unicità
è
un’operazione
che
presuppone
non
solo
una
forte,
ma
equilibrata
autoreferenzialità
e un
consapevole
livello
di
autostima,
ma
anche
costanza
e
determinazione
assoluta
nel
perseguire
lo
scopo,
una
preparazione
e
una
consapevolezza
che
permetta
il
consenso
nell’urna
non
solo
nell’immediato,
ma
anche
quel
consenso
“interiorizzato”
che
garantisca
fedeltà
nel
lungo
termine
e
stabilizzi
il
proprio
capitale
elettorale.
Forse
il
tweet
o il
selfie,
oggi
fonti
autorevoli
di
“prima
mano”
dei
Tg,
passeranno
la
mano,
in
un
prossimo
futuro,
a
strategie
sempre
più
articolate
e
sofisticate,
forse
la
stessa
politica
rivedrà
il
proprio
alfabeto
comunicativo
privilegiando
un
messaggio
che
punti
più
sulla
fedeltà
tangibile
e
concretamente
misurabile
di
quei
valori
che
si
propone
di
rappresentare
e
sull’etica,
piuttosto
che
sulla
spettacolarizzazione
e
sull’apparire
spesso
senza
realmente
“esserci”.
Se
per
Disraeli
“la
determinatezza
non
è il
linguaggio
della
politica”,
e
“governare
è
far
credere”
come
afferma
Macchiavelli
nel
suo
Principe,
lo
spazio
vergine
in
cui
posizionarsi
nel
panorama
attuale
per
rappresentare
la
vera
alternativa
è
quello
dell’integrità,
della
possibilità,
della
chiarezza
d’intenti
e di
una
rinnovata
visione
e
quest’ultima
può
esistere
e
può
realizzarsi
solo
mettendo
da
parte
faziosità
sterili
ed
egoismi
di
parte
e
parlare
l’unica
vera
lingua
possibile,
quella
della
coerenza
e
della
responsabilità.