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N. 147 - Marzo 2020 (CLXXVIII)

Politica ai tempi del Covid-19
Democrazia al suo test

di Gian Marco Boellisi

 

Con il recente diffondersi della pandemia causata dal virus Covid-19, l’intero panorama mondiale sembra essere cambiato nell’arco di poche settimane. Quella che era considerata fino a fine febbraio una malattia sì preoccupante, ma molto distante dalla quotidianità e soprattutto un affare interno alla Repubblica Popolare Cinese, è diventata in pochi giorni una pandemia globale ufficialmente riconosciuta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).

 

A oggi (19 marzo 2020), dopo la Cina, l’Italia è il paese più colpito per numero di casi e soprattutto per numero di decessi, nonostante le misure stringenti attuate dal Governo per fronteggiare questa importante crisi.

 

Ma proprio mentre il numero dei contagiati continua a salire, sia in Europa sia nel resto nel mondo, in Cina si sta assistendo a una diminuzione sempre maggiore dei casi positivi, tant’è che il governo cinese è prossimo a dichiarare la cessazione dell’emergenza. Questo avvenimento ha portato svariati analisti a chiedersi come il paese più popoloso del mondo sia riuscito a contenere l’epidemia di un virus tanto contagioso quanto difficile da arginare.

 

A seguito di questo interrogativo sta prendendo sempre più piede l’idea che la particolare conformazione di governo cinese, ovvero quella di uno stato fortemente accentratore con più di un tratto tendente verso l’autoritarismo, sia l’unica spiegazione per la cessazione dell’emergenza in appena 3 mesi. Per quanto questa possa sembrare la spiegazione più semplice, in barba al celeberrimo rasoio di Occam, vi sono due casi nel mondo di stati con governi democratici che sono riusciti a contenere il contagio o addirittura a evitare che prendesse piede all’interno del suolo nazionale.

 

È interessante quindi analizzare tutti questi casi nel loro dettaglio per vedere se, come asserito da alcuni, uno stato di democrazia risulti inconciliabile con il contenimento di una pandemia globale.

 

Partiamo dalle origini. L’attuale emergenza sanitaria mondiale ha avuto origine in Cina, in particolare nella città di Wuhan nella provincia di Hubei, dove nel dicembre 2019 si sono registrati i primi casi dell’agente virale ribattezzato successivamente Covid-19. Questi non è altro che un virus della sottofamiglia delle Orthocoronavirinae, un largo raggruppamento di malattie infettive in cui è compreso anche il Covid-19, o noto anche in ambito medico come SARS-CoV-2. I sintomi sono molto similari a quelli di una semplice influenza nelle prime fasi post-incubatorie, i quali tuttavia si acuiscono con il decorrere della malattia, portando nei casi più gravi a polmoniti, sepsi e addirittura alla morte del paziente.

 

Nonostante la reticenza iniziale del governo cinese nel voler ammettere la gravità dell’epidemia in corso, Pechino si è mossa abbastanza velocemente nel tentare di frenare il contagio in una regione contenente svariate decine di milioni di persone. Le misure attuate dal governo sono state, come si può immaginare, dure e inflessibili. Sono stati stabiliti infatti i seguenti provvedimenti: una rigidissima quarantena a tutta l’area interessata la cui violazione ancora oggi è punibile con il carcere, isolamento totale per gli ammalati e per coloro che fossero venuti a contatto con persone infette, chiusura totale di scuole e uffici pubblici, cancellazione quasi totale dei trasporti pubblici e infine sorveglianza di massa per monitorare lo spostamento delle persone attraverso sistemi a intelligenza artificiale.

 

Uno scenario orwelliano, non c’è che dire, confermato anche dal noto attivista e blogger cinese Chen Qiushi, il quale in un suo post aveva sintetizzato la situazione affermando: «Davanti a me c’è il virus. Dietro di me c’è il potere legale e amministrativo della Cina».

 

È indubbio quindi che lo stato cinese in questo particolare frangente abbia esercitato il suo immenso potere per cercare di fermare il contagio, mostrando anche a tutte le telecamere del mondo come fosse capace di costruire ospedali da 10.000 posti letto in appena 10 giorni.

 

Per quanto più o meno discutibili siano stati i metodi di Pechino, dopo neanche 3 mesi dall’inizio dell’epidemia l’emergenza sembra essere rientrata in una situazione gestibile normalmente, tant’è che si è assistito allo smantellamento di varie strutture ospedaliere d’emergenza costruite negli ultimi mesi.

 

Ciò è stato confermato anche dall’OMS stesso, il quale ha formato una commissione internazionale di 25 esperti e l’ha inviata in Cina per verificare di persona come procedessero le politiche di contenimento cinesi. Il gruppo, dopo un’attenta analisi, ha espresso un parere estremamente positivo su quanto operato da Pechino, affermando: «Gran parte della comunità globale non è ancora pronta, nella mentalità e materialmente, ad attuare misure come quelle cinesi, le uniche efficaci».

 

Il rapporto dell’OMS ha allontanato ulteriormente gli scetticismi di alcune cancellerie occidentali affermando: «Le misure estreme adottate dalla Cina per contenere la diffusione del virus hanno cambiato il corso di un’epidemia che si stava allargando rapidamente».

 

Viste queste parole, tutto si può dire fuorché i metodi di Pechino siano stati inefficaci.

 

Alla luce di questo temporaneo successo della struttura medico-statale dell’Impero del Centro, molti analisti hanno iniziato a chiedersi se la chiave del successo di una simile azione non fosse nella particolare conformazione dell’apparato statale cinese. È inutile negarlo, la pressoché ubiquità dello stato all’interno della vita dei propri cittadini, il potere immenso e la fedeltà assoluta dell’esercito con più effettivi al mondo nonché una macchina statale con i suoi ingranaggi burocratici ben oliati, rendono il Partito Comunista e il Politburo con esso di fatto onnipotenti in Cina.

 

Questo facilita di gran lunga le cose in tempi normali, ma le rende elementari in tempi di crisi, non essendoci intermediari nella catena di comando e nessuno a cui dover rendere conto in termini di elettorato. Per quanto il sistema politico cinese sia un unicum in questo senso all’interno dell’attuale sistema internazionale, è sicuramente una nazione capace di grandi traguardi e di grandi sacrifici, indipendentemente dalla forma di governo in atto all’interno del paese.

 

Nonostante si sia cercato nei primi mesi di contenere il virus, essendo esso di matrice influenzale e pertanto estremamente contagioso, non si è riusciti a limitarne la diffusione alla sola Cina. Prima in Asia, colpendo Corea del Sud e Giappone, poi Iran e infine in Italia, da cui sono state spalancate le porte all’Occidente tutto e al globo.

 

Al di là di cosa si possa pensare sul cosa si è fatto e sul quando nei primi giorni di emergenza, rimane la constatazione che l’Italia è l’epicentro maggiore dopo la Cina per numero di casi positivi al virus nonché per casi di decessi. Per quanto l’organizzazione e la prontezza della macchina statale italiana non siano celebri in tutto il mondo, gli operatori degli ospedali hanno compreso sin da subito la gravità della situazione e si sono mossi in prima persona per fronteggiare l’emergenza.

 

Un aspetto interessante che si è notato nelle scorse settimane è che, man mano che il contagio si diffondeva prima nei paesi limitrofi per poi passare oltreoceano, la risposta dei governi, di tutti i governi, è stata la medesima a quella italiana. Si è sempre avuta una prima fase di leggerezza nei confronti della patologia, asserendo alle conferenze stampa con l’uso di altisonanti paroloni che la situazione era sotto controllo e che si era riusciti a circoscrivere il contagio.

 

Dopo appena pochi giorni si cambiava già registro, ammettendo che il numero dei casi era in aumento e che era sconsigliabile frequentare luoghi di assembramento pubblico, invitando la popolazione a non uscire se non per estrema necessità. Anche l’ultimo step è sempre stato lo stesso, ovvero quello di chiudere scuole, uffici, ogni esercizio pubblico non essenziale e interrompere quasi ogni mezzo di trasporto pubblico. A parte alcune sfumature, questa è stato il copione che si è ripetuto da parte di tutti i governi coinvolti dall’emergenza, a prescindere dalla bandiera politica o dalla nazionalità.

 

Tutto ciò ha denotato un’intrinseca lentezza di reazione nei palazzi di potere occidentali, mostrando come i vari leader guardassero al proprio orticello e non ritenessero il problema di loro competenza, ma del proprio inefficiente vicino di confini. Come è stato dimostrato ampiamente dal numero di contagi in Europa, un comportamento di siffatte sembianze non ha avuto vita lunga.

 

La motivazione di questi atteggiamenti può essere trovata banalmente nella ricerca di un guadagno in termici politici da parte dei governi, così da mostrarsi ai propri concittadini forti e capaci di prevenire un fenomeno tanto complesso quanto un’epidemia. Non ha funzionato.

 

Proprio in questo frangente si è iniziati a domandarsi se il successo del contenimento del contagio in Cina non fosse dovuto alle misure draconiane attuate dal governo e se tali misure avrebbero successo anche qui in Occidente. Cedere la propria libertà personale, limitare gli spostamenti, diminuire le proprie interazioni sociali, sono cose alle quali molte persone nel mondo non sono abituate e per le quali (comprensibilmente) opporrebbero una strenua resistenza, anche se richieste in situazioni di emergenza nazionale.

 

Mentre in Cina vi è una concezione molto differente dalla nostra, per la quale le direttive dello stato non devono essere discusse poiché fatte per il bene dei cittadini, nella maggior parte del resto del mondo probabilmente si dovrebbe arrivare a imporre la legge marziale, o comunque qualcosa di molto simile, affinché si ottenga un comportamento analogo da parte della popolazione.

 

Un esempio lampante di quanto riportato sopra ce lo abbiamo in Italia, dove, per quanto le direttive del governo si facciano di giorno in giorno più stringenti in merito agli spostamenti al di fuori della propria abitazione, ancora molte misure sono basate sull’auto consapevolezza e sul buon senso del cittadino. Si parla quindi di scelte caldamente consigliate, non di oneri nei confronti dello Stato e dei propri connazionali.

 

Una differenza fra tutte tra la quarantena cinese e quella italiana è proprio questa: mentre in Italia la perifrasi “fortemente consigliato” è da intendersi letteralmente senza alcuna conseguenza specifica a riguardo, in Cina si sottintende che la pena conseguente è l’arresto e l’internamento in un carcere. Quando si dicono le differenze.

 

Alla luce dell’aumento dei contagi, una sempre più nutrita schiera di analisti ritiene che lo sviluppo di una pandemia globale sia incompatibile con un sistema politico fatto di democrazie liberali e che le libertà democratiche debbano passare in secondo piano, sulla falsa riga di quanto succedeva nei primi secoli della Roma Repubblicana, quando una situazione d’emergenza emerge all’interno dei confini nazionali.

 

Non esiste quindi nazione al di fuori di quella cinese che sia riuscita a limitare i contagi di Covid-19?

 

Ciò non corrisponde alla verità. Infatti, sempre per rimanere in Asia, sia Corea del Sud sia Taiwan sono riuscite a limitare i casi di contagio senza limitare le libertà personali dei propri cittadini e gestendo la situazione in maniera ponderata e razionale. Vale quindi la pena analizzare questi due casi, i quali hanno adottato modelli diversi, ma con dei forti tratti comuni, per comprendere a pieno la chiave del loro successo.

 

Iniziamo dalla Corea del Sud. Qui, diversamente da altre parti del mondo, i numerosi cittadini risultati positivi al virus sono stati messi subito in quarantena obbligatoria insieme a tutte le persone che vi sono state a stretto contatto, tuttavia non ponendo restrizione alcuna sul movimento della popolazione. Inoltre alle prime avvisaglie di epidemia, il governo ha avviato un’ampia campagna di test per verificare l’estensione reale del fenomeno. Sono stati infatti eseguiti circa 15.000 tamponi al giorno per un totale di 250.000, circa uno ogni 200 coreani. In questa maniera si sono riuscite a circoscrivere abbastanza rapidamente le persone infette e a evitare che esse portassero a un aumento ulteriore del numero di contagiati.

 

Tra le altre cose, Seoul non ha nemmeno imposto un bando dei viaggi provenienti dall’estero, ma ha solo introdotto controlli straordinari, quali la misura della temperatura o la compilazione di questionari sul proprio stato di salute, per i provenienti dai paesi maggiormente colpiti.

 

Con l’aiuto di app dedicate, il popolo coreano si è organizzato per coordinare i propri spostamenti e per ridurre al minimo le occasioni di contatto eccessivo, per non parlare dell’uso della mascherina che in Corea viene indossata abitualmente anche quando si ha un semplice raffreddore. In quest’occasione come non mai i coreani hanno dimostrato di essere un popolo estremamente educato e rispettoso delle comuni regole di buon senso, nell’ottica di un bene comune. Il tutto è stato corredato da una completa trasparenza da parte delle autorità coreane che hanno cercato di rassicurare la popolazione, senza fornire però false speranze. Nonostante l’attuale contenimento dell’epidemia, lo stesso presidente Moon Jae-in ha frenato gli entusiasmi, dichiarandosi speranzoso dell’attenuarsi progressivo dell’emergenza senza però abbassare la guardia.

 

Il secondo caso è invece Taiwan. Il governo di Taipei, analogamente e forse in maniera anche più efficiente di quello di Seoul, si è attivato sin dai primi giorni di gennaio per far fronte all’emergenza del Covid-19. Reduce dall’esperienza della SARS nel 2003, a Taiwan è stato istituito il National Health Command Center (Nhcc), il quale non è altro che un istituto totalmente autonomo, ma beneficiante di fondi governativi capace di operare a livello nazionale sia per emergenze di carattere sanitario sia per quelle inerenti all’ordine pubblico.

 

L’esclusione ancora in vigore dall’OMS di Taiwan, clausola irrinunciabile per Pechino che considera ancora l’isola come “provincia ribelle”, ha portato il piccolo stato asiatico a strutturare l’Nhcc come un’organizzazione dall’alta efficienza. Ed è stato proprio questo istituto l’artefice dell’enorme successo dell’isola di Formosa.

 

Alle prime avvisaglie di un’epidemia alle proprie porte e prima ancora che la patologia fosse isolata, Taiwan ha imposto degli strettissimi controlli termografici alle proprie frontiere. Non appena qualche caso positivo è stato scoperto, il governo ha posto dispositivi di screening praticamente all’entrata della maggior parte degli edifici e ha aumentato la produzione di mascherine in maniera esponenziale (si è passati dall’importarle al produrne circa 10 milioni). Inoltre le autorità hanno stabilito sin da subito un rapporto di trasparenza con la popolazione, informandola quotidianamente e punto per punto senza nascondere alcun aspetto dell’emergenza.

 

Un grande aiuto è stato fornito dall’utilizzo capillare dei big data e dell’alta tecnologia disponibile tra i cittadini dell’isola. Infatti è stata registrata sul portale del sistema di sanità pubblica, una delle più tecnologizzate al mondo, tutta la cronologia dei viaggi dei cittadini che erano fuori all’estero negli ultimi 14 giorni. Tutti i casi positivi o solamente sospetti sono stati messi in quarantena obbligatoria, ma dotati di telefoni speciali attraverso cui il governo ha potuto monitorarne lo stato di salute.

 

Praticamente l’identificazione degli infetti è avvenuta quasi in tempo reale, aggiornando ora per ora le zone ad alto rischio e informando la cittadinanza sempre in tempo reale quali comportamenti assumere in tali aree. In questo senso, l’incrocio dei database dell’immigrazione con il sistema sanitario nazionale ha fatto veramente miracoli.

 

Per quanto possa sembrare piccola come estensione territoriale, l’isola di Formosa ha ben 23 milioni di abitanti, figurando una delle più alte densità di popolazione al mondo, e si trova esattamente di fronte alle coste cinesi. Nonostante le autorità americane in prima istanza avevano affermato che Taiwan sarebbe stata colpita duramente dall’epidemia, le autorità di Taipei si sono messe in gioco praticamente nello stesso arco temporale delle loro controparti di Pechino e tanta è stata la loro efficienza e il loro successo che non hanno mai fermato i voli provenienti dalla Cina, neanche nella fase culmine dell’epidemia. Il tutto senza toccare neanche lontanamente i diritti civili o le libertà individuali dei propri cittadini.

 

Oltre all’efficienza statale, è infine importante riconoscere anche il ruolo della filosofia confuciana, la quale esalta il gruppo a scapito delle esigenze dell’individuo e del singolo. Questo ci fa capire quanto sacrificio vi è stato e vi è tuttora dietro il successo di Taiwan nel contenimento dell’epidemia. Filosofia peraltro condivisa in toto dal popolo cinese sul continente, a testimonianza della fratellanza de facto presente tra questi popoli nonostante dei confini politici li dividano da più di 70 anni.

 

In conclusione, per quanto svariati analisti stiano elogiando il modello cinese come unica possibile soluzione all’epidemia di Coivd-19, questo non è del tutto corretto. Sebbene siano innegabili i risultati ottenuti dal governo di Pechino e i sacrifici immani compiuti dalla popolazione, basta spostarsi di poche decine di chilometri per poter trovare altri due modelli di forte successo nel combattere il contagio.

 

Grazie a complessi meccanismi di ingegneria sociale, una società altamente tecnologizzata e disposta a seguire delle buone norme di comportamento atte a tutelare l’intera società, Corea del Sud e Taiwan sono riuscite in modi diversi a contenere il diffondersi del Covid-19 senza intaccare minimamente le libertà personali dei propri cittadini.

 

L’Asia quindi si sta delineando sempre più come il punto di riferimento politico del mondo di domani. E in particolar modo le democrazie asiatiche si stanno rivelando sempre più negli ultimi anni come un modello da cui prendere esempio e verso cui tendere, a discapito dei modelli tradizionali quali possono essere quelli europei. E forse è proprio qui il nocciolo della questione.

 

L’Europa e l’Occidente tutto devono smetterla di pensare di essere gli unici depositari dell’assoluta verità democratica e del modello politico perfetto, ma devono divenire permeabili a influenze esterne, anche se provenienti da paesi molto distanti geograficamente e culturalmente. Forse quindi è proprio arrivato il momento di ammettere a se stessi di far parte del passato, per poter dirigersi tutti insieme e più forti verso il futuro. 



 

 

 

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