N. 60 - Dicembre 2012
(XCI)
Alcide De Gasperi e gli Esteri
relazioni internazionali italiane nel secondo dopoguerra - Parte II
di Ivan Buttignon
Nel
corso
di
quell’anno
De
Gasperi
si
recò
in
visita
negli
Stati
Uniti.
Colse
probabilmente
l’occasione
per
spiegare
agli
americani,
ancora
diffidenti,
che
la
DC
era
la
sola
forza
moderata
capace
di
rappresentare
un
argine
contro
i
comunisti.
Tornò
con
un
prestito
all’Italia
del
valore
(poco
più
che
simbolico)
di
100
milioni
di
dollari;
ma,
soprattutto,
con
una
credibilità
accresciuta
e
un’amicizia
con
l’America
consolidata.
Frattanto
saliva
nel
mondo
la
tensione
fra
USA
e
URSS.
Il
neo
Presidente
americano
Truman
annunciava
al
Congresso
quale
sarebbe
stata
la
strategia
americana
negli
anni
a
venire:
contenere
l’espansione
del
comunismo.
Era
la
guerra
fredda.
In
tale
contesto,
in
Italia
la
collaborazione
tra
la
Democrazia
cristiana
e le
Sinistre
divenne
impossibile.
La
politica
internazionale
interferiva
in
modo
sempre
più
accentuato
con
le
vicende
interne,
esasperando
le
divergenze
in
campo
politico
e
sociale.
Così,
nel
maggio
del
1947,
De
Gasperi
varò
un
nuovo
governo
del
quale
le
Sinistre
non
facevano
più
parte.
Iniziava
una
nuova
fase,
detta
del
centrismo
–
caratterizzata
cioè
da
governi
imperniati
sulla
DC
con
la
partecipazione
di
partiti
minori
di
centro,
che
durerà
fino
al
1962.
Tornando
al
trattato
di
pace
c’è
da
dire
che
questo,
pur
sancendo
la
rinuncia
italiana
ai
propri
diritti
sui
territori
dell’ex
impero,
non
aveva
definito
il
futuro
delle
colonie
prefasciste
della
Libia,
dell’Eritrea
e
della
Somalia.
Così
il
governo
De
Gasperi
e la
diplomazia
si
impegnarono
in
una
politica
che
mirava
al
“ritorno
in
Africa”.
Le
rivendicazioni
italiane
venivano
giustificate
con
molteplici
ragioni:
dal
punto
di
vista
politico
si
faceva
notare
come
i
possedimenti
prefascisti
fossero
stati
acquisiti
dall’Italia
liberale
e
come
tali
conquiste
fossero
state
riconosciute
dalle
grandi
potenze;
l’Italia
democratica
uscita
dalla
seconda
guerra
mondiale
aveva
inoltre
diritto
a
vedersi
riconosciuto
un
ruolo
di
qualche
rilievo
nel
processo
mirante
a
favorire
l’avanzamento
dei
popoli
dell’Africa.
Quanto
agli
aspetti
economici,
si
ricordavano
l’impegno
e
gli
investimenti
profusi
nelle
colonie
e si
offriva
una
valutazione
positiva
della
colonizzazione
italiana,
non
ispirata
al
desiderio
di
sfruttamento,
bensì
a
una
presunta
volontà
di
cooperazione
con
le
popolazioni
locali.
Infine
non
si
trascurava
di
sottolineare
sia
la
sorte
delle
comunità
di
coloni
presenti
in
Libia,
Eritrea
e
Somalia,
sia
la
possibilità
che
questi
territori
accogliessero
una
parte
del
flusso
migratorio
dalla
penisola.
È
probabile
che
De
Gasperi
e,
il
da
lui
stesso
nominato
ministro
degli
Esteri,
Sforza
puntassero
al
ritorno
in
Africa
perché
ritenevano
che
un
successo
diplomatico
in
tale
contesto
avrebbe
avuto
riflessi
positivi
dal
punto
di
vista
della
politica
interna
e
perché,
se
l’Italia
doveva
tornare
a
svolgere
un
ruolo
internazionale
di
rilievo,
avrebbe
dovuto
contare
su
una
presenza
in
Africa
alla
stregua
delle
due
potenze
europee
vincitrici,
Gran
Bretagna
e
Francia,
che
continuavano
a
controllare
vasti
imperi,
ai
quali
non
intendevano
rinunciare.
In
realtà
il
governo
italiano
si
rendeva
conto
che
sarebbe
stato
impossibile
ottenere
la
piena
sovranità
sulle
tre
colonie,
ma
contava
di
conseguirne
il
controllo
in
amministrazione
fiduciaria,
sottolineando
di
voler
impostare
in
termini
diversi
i
rapporti
con
le
popolazioni
locali.
Il
governo
statunitense
era
scettico
circa
l’ipotesi
del
ritorno
in
Africa
perché
riteneva
che
tale
politica
avrebbe
comportato
per
Roma
un
inutile
dispendio
di
risorse
economiche.
Nonostante
ciò,
alcuni
ambienti
del
Ministero
dell’Africa
italiana,
in
vista
del
viaggio
della
Commissione
d’inchiesta
quadripartita,
istituita
dai
quattro
“grandi”
con
lo
scopo
di
appurare
l’atteggiamento
delle
popolazioni
di
Somalia,
Libia
e
Eritrea
nei
riguardi
del
loro
destino,
cercarono
di
influenzare
l’atteggiamento
delle
popolazioni
locali
in
senso
favorevole
alle
tesi
di
Roma
e
incoraggiarono
l’azione
politica
e
propagandistica
delle
comunità
dei
coloni
italiani.
Questo
tipo
di
azione
si
sarebbe
inevitabilmente
scontrata
con
le
autorità
militari
inglesi
che
amministravano
questi
territori
e
soprattutto
con
quei
gruppi
politici
africani
che,
in
nome
di
ideali
indipendentisti,
avversavano
la
prospettiva
del
ritorno
in
Africa.
Fu
proprio
in
questo
clima
che
maturarono
i
sanguinosi
incidenti
di
Mogadiscio
del
gennaio
1948.
In
quei
giorni
la
Commissione
d’inchiesta
si
trovava
nella
capitale
somala
dove
l’atmosfera
era
tesa
a
causa
delle
iniziative
previste
sia
dai
coloni
italiani
e
dalle
associazioni
somale
a
loro
vicine,
sia
dal
gruppo
indipendentista
Lega
dei
Giovani
Somali
che
sembrava
essere
sostenuta
dalla
locale
amministrazione
militare
britannica.
L’11
gennaio
una
manifestazione
organizzata
dalla
Lega
degenerò
in
tumulti
antitaliani
che
portarono
all’uccisione
indiscriminata
di
più
di
cinquanta
coloni.
Dal
momento
che
la
reazione
delle
autorità
britanniche
fu
debole
e
inefficiente,
il
governo
De
Gasperi
si
convinse
che
la
chiave
della
soluzione
del
problema
coloniale
si
situasse
a
Londra.
Il
18
aprile
1948,
si
svolsero
le
elezioni
politiche.
In
un
clima
di
grande
passione
e di
dura
contrapposizione
ideologica
(tra
comunismo
e
anticomunismo;
tra
socialismo
filosovietico
e
democrazia
occidentale),
le
votazioni
assegnarono
alla
DC,
che
aveva
goduto
del
sostegno
della
Chiesa
e
degli
americani,
una
vittoria
clamorosa:
il
48,5%
dei
voti
e la
maggioranza
assoluta
alla
Camera
con
305
seggi
su
574.
comunisti
e
socialisti,
che
si
erano
presentati
uniti
nel
Fronte
Popolare,
raggiunsero
soltanto
il
31%
dei
voti.
L’11
maggio
Luigi
Einaudi
venne
eletto
Presidente
della
Repubblica
dalle
due
Camere
riunite.
Il
voto
del
18
aprile
concluse
una
fase
estremamente
delicata
della
storia
d’Italia,
quella
compresa
tra
la
caduta
del
fascismo
e
l’inizio
della
Repubblica.
Contemporaneamente
all’esperienza
della
campagna
elettorale
e
delle
consultazioni
del
18
aprile,
l’Occidente
compiva
una
serie
di
passi
risolutivi
in
avanti
verso
l’organizzazione
di
un
sistema
che
fosse
in
grado
di
contrapporsi
in
maniera
efficace
alla
politica
staliniana
percepita
come
una
minaccia.
L’Europa
occidentale
restava
debole
sul
piano
politico,
l’esistenza
di
un
profondo
squilibrio
militare
a
tutto
favore
dell’Unione
Sovietica.
Se
gli
Stati
Uniti
preservavano
per
il
momento
il
monopolio
dell’arma
atomica,
in
Europa
vi
era
una
netta
prevalenza
di
divisioni
sovietiche.
Nel
caso
di
un
conflitto,
Stalin
avrebbe
avuto
la
possibilità
di
occupare
rapidamente
tutto
il
continente
prima
che
le
potenze
anglosassoni
potessero
intervenire
efficacemente.
Il
17
marzo
1948
Gran
Bretagna,
Francia,
Belgio,
Olanda
e
Lussemburgo
firmarono
un’alleanza
multilaterale
di
prevalente
carattere
politico
e
militare,
il
Patto
di
Bruxelles,
che
mirava
a
fronteggiare
sia
l’eventuale
rinascita
di
una
minaccia
tedesca,
sia
qualsiasi
altra
ipotesi
di
aggressione;
ovvio,
per
quanto
implicito,
era
il
riferimento
all’Unione
Sovietica.
L’eventuale
adesione
dell’Italia
a
questa
alleanza
non
era
stata
esclusa,
ma
tale
ipotesi
era
stata
rapidamente
scartata
per
una
serie
di
ragioni:
in
primo
luogo
la
penisola
appariva
un
paese
ancora
arretrato
per
tradizioni
politiche
e
condizioni
economiche
e
sociali
rispetto
ai
cinque
che
avevano
lanciato
l’iniziativa
dell’alleanza;
dal
punto
di
vista
militare
l’Italia
non
avrebbe
apportato
alcun
vantaggio
all’alleanza;
infine
temeva
che
il
governo
italiano
potesse
trarre
profitto
da
un’eventuale
partecipazione
al
trattato
per
esercitare
nuove
pressioni
nel
contesto
del
problema
coloniale.
Però,
agli
inizi
del
1949,
le
potenze
del
Patto
di
Bruxelles
erano
giunte
alla
conclusione
di
poter
dar
origine
ad
un
organismo
che
sarebbe
stato
denominato
Consiglio
d’Europa
e, a
tal
fine,
decisero
di
allargare
il
negoziato
ad
altre
cinque
nazioni
fra
le
quali
l’Italia.
A
suggello
della
sua
ormai
chiara
collocazione
americana
in
un
quadro
internazionale
sempre
più
bipolare,
il 4
aprile
1949
l’Italia
entrò
nella
NATO,
l’alleanza
militare
di
cui
facevano
parte
gli
Stati
Uniti,
il
Canada
e i
principali
paesi
dell’Europa
occidentale.
L’intensa
azione
politico-diplomatica
sviluppata
dall’Italia
allo
scopo
di
aderire
al
Patto
Atlantico
fece
trascurare
altre
questioni
internazionali
come
il
problema
delle
ex
colonie,
che
era
stato
demandato
alle
Nazioni
Unite.
L’Onu,
a
sua
volta,
aveva
rinviato
l’esame
della
questione
a
una
sessione
dell’Assemblea
generale,
prevista
per
la
primavera
dl
1949.
In
vista
di
tale
riunione,
il
governo
De
Gasperi
intensificò
i
contatti
con
le
potenze
occidentali
al
fine
di
far
valere
le
proprie
tesi
sul
ritorno
in
Africa.
Anche
in
seguito
agli
incidenti
di
Mogadiscio,
persino
le
autorità
inglesi
si
erano
ormai
orientate
verso
la
probabile
restituzione
della
Somalia
all’Italia.
Restava
però
aperta
la
questione
della
Cirenaica
e
dell’Eritrea;
sulla
Cirenaica,
Londra
e
Washington
erano
interessate
al
mantenimento
del
controllo
su
alcuni
importanti
basi
militari
utili
per
la
difesa
del
Mediterraneo
orientale,
e
anche
sull’Eritrea
l’amministrazione
statunitense
riteneva
di
dover
favorire
alcune
delle
richieste
dell’Etiopia,
che
mirava
al
controllo
di
questo
territorio
al
fine
di
ottenere
uno
sbocco
al
mare.
L’Italia
propose
il
“compromesso
Bevin-Sforza”
con
il
quale
la
Cirenaica
sarebbe
stata
affidata
in
amministrazione
fiduciaria
alla
Gran
Bretagna,
il
Fezzan
sarebbe
andato
alla
Francia,
la
Tripolitania
all’Italia,
la
Somalia
sarebbe
stata
affidata
all’amministrazione
italiana,
l’Eritrea
sarebbe
passata
parzialmente
sotto
la
sovranità
etiopica.
Però
l’Assemblea
generale
dell’Onu
respinse
il
piano
anglo-italiano.
D
i
fronte
all’apparente
fallimento
di
un’azione
politica
che
si
protraeva
da
anni
e
nei
cui
confronti
non
erano
stati
lesinati
sforzi
e
risorse,
il
governo
De
Gasperi
parve
rispondere
con
una
sorta
di
“fuga
in
avanti”
e a
questi
punto
si
decise
di
esprimere
il
proprio
favore
nei
riguardi
del
processo
di
indipendenza
di
tutte
le
ex
colonie
prefasciste.
Le
risoluzioni
venne
infine
approvate
il
21
novembre
del
1949:
la
Libia,
costituita
in
Stato
unitario,
avrebbe
acquistato
la
piena
indipendenza
nel
giro
di
due
anni,
la
Somalia
sarebbe
divenuta
Stato
indipendente
al
termine
di
un
periodo
di
dieci
anni
di
amministrazione
fiduciaria
assegnata
all’Italia.
La
questione
dell’Eritrea
sarebbe
invece
stata
presa
di
nuovo
in
esame.
La
responsabilità
ottenuta
nei
confronti
della
Somalia
venne
presentata
come
la
prova
della
riabilitazione
internazionale
del
paese
e in
generale
si
può
affermare
che
agli
inizi
degli
anni
Cinquanta
la
politica
estera
italiana
poteva
registrare
alcuni
successi
non
trascurabili
sul
piano
formale
e
qualche
buon
risultato
dal
punto
di
vista
economico.
Nel
1951
De
Gasperi
assunse
il
portafoglio
degli
Esteri
in
sostituzione
dell’anziano
e
malato
Sforza
nel
periodo
in
cui
erano
in
atto
le
discussioni
sull’ipotesi
della
creazione
di
una
Comunità
europea
di
difesa.
L’Italia
non
poteva
rinunciare
alla
scelta
europeista
e
doveva
tener
conto
dell’ormai
aperto
sostegno
statunitense
al
progetto
di
Comunità
europea
di
difesa.
La
via
d’uscita
a
questa
non
facile
situazione
fu
offerta
dall’integrazione
europea.
In
quegli
stessi
mesi,
Altiero
Spinelli,
esponente
di
spicco
del
movimento
federalista,
era
giunto
alla
conclusione
che
la
creazione
di
un
esercito
europeo
sarebbe
risultata
di
scarsa
utilità
rispetto
all’obiettivo
della
costruzione
europea,
se
non
si
fosse
costituito
un
organismo
sovranazionale
in
grado
di
elaborare
una
politica
europea,
in
pratica
una
sorta
di
governo,
premessa
indispensabile
per
la
realizzazione
degli
Stati
Uniti
d’Europa.
L’azione
italiana
sembrò
avere
successo
e,
l’art.
38
del
trattato
istitutivo
della
Ced,
prevedeva
che,
una
volta
creata
la
Comunità
europea
di
difesa,
la
sua
assemblea
parlamentare
avrebbe
avviato
l’elaborazione
di
un
progetto
per
la
nascita
di
una
Comunità
politica
europea.
Ma
l’apparente
evoluzione
della
situazione
internazionale,
data
dal
periodo
di
disgelo
tra
USA
e
URSS,
pose
in
difficoltà
De
Gasperi
per
il
quale
la
politica
estera
cominciò
a
rappresentare
un
grave
handicap,
avvertendo
la
contrapposizione
in
essere
tra
i
rapporti
italiani
con
gli
Stati
Uniti
e
tutti
quei
partiti
di
sinistra
proclamanti
patriottismo,
internazionalismo
e
fedeltà
all’Unione
Sovietica.
Va
sottolineato
infine
come
lo
stesso
De
Gasperi
mostrasse
prudenza
nei
confronti
di
alcuni
aspetti
della
costruzione
europea
e
nella
primavera
del
1953
espresse
forte
cautela
verso
un
progetto
presentato
dal
ministro
olandese
Beyen
affinchè
i
“sei”
procedessero
allo
studio
di
un’ipotesi
di
unione
doganale.
La
politica
estera
degasperiana
sembrava
essere
entrata
in
un
vicolo
cieco.
A
ciò
concorreva
il
perdurante
stallo
sulla
questione
di
Trieste.
Soprattutto
dai
settori
politici
di
destra
giungevano
esortazioni
affinché
le
autorità
italiane
utilizzassero
l’impegno
atlantico
ed
europeista
come
strumento
di
pressione
sugli
anglo-americani
al
fine
di
ottenere
soddisfazione
sulla
questione
di
Trieste,
ma
De
Gasperi
non
parve
intenzionato
ad
adottare
questa
politica.
A
tutto
ciò
va
aggiunto
come
sul
piano
interno
la
sua
leadership
fosse
posta
in
discussione
proprio
all’interno
della
Dc
dove
si
agitavano
spinte
contrastanti:
mentre
la
destra,
sostenuta
da
una
parte
delle
gerarchie
ecclesiastiche,
premeva
per
un’apertura
ai
monarchici
e al
Movimento
sociale,
la
sinistra
tornava
a
farsi
viva.
All’interno
dei
partiti
laici
emergevano
insofferenze
verso
l’egemonia
cattolica,
mentre
il
Pci
e il
Psi
continuavano
non
solo
a
controllare
un
ampio
elettorato,
ma
anche
ad
esercitare
la
propria
influenza
su
alcuni
importanti
settori
della
società,
dal
sindacato
al
mondo
intellettuale.
De
Gasperi
cercò
di
risolvere
questi
problemi
proponendo
nell’ottobre
del
1952,
in
vista
delle
elezioni
politiche,
una
legge
elettorale
maggioritaria,
grazie
alla
quale
sperava
di
ottenere
una
stabile
maggioranza.
Invece,
le
elezioni
politiche
del
giugno
1953
rappresentarono
una
sconfitta
per
il
leader
democristiano:
sebbene
la
Dc
si
attestasse
intorno
al
40%
dei
suffragi,
il
partito
cattolico
e le
forze
ad
esso
apparentate
non
riuscirono
a
far
scattare
il
premio
di
maggioranza
previsto
dalla
legge
elettorale.
Nella
Dc
questo
evento
fu
percepito
come
un
utile
pretesto
per
porre
in
discussione
la
leadership
di
De
Gasperi;
agli
inizi
di
luglio
si
vide
rifiutare
dal
Parlamento
l’investitura
alla
guida
di
un
nuovo
governo.
Dopo
alcune
settimane
di
incertezza,
Giuseppe
Pella
riuscì
a
formare
un
gabinetto
monocolore.
Pella
contava
di
rafforzare
il
proprio
esecutivo
e, a
questo
scopo,
la
politica
estera,
in
particolare
la
questione
di
Trieste,
parve
offrirgli
un’utile
opportunità.
Egli,
a
differenza
di
De
Gasperi,
ritenne
opportuno
indicare
a
Washington
e a
Londra
come
l’Italia
avrebbe
condizionato
la
ratifica
del
trattato
sulla
Ced
a un
diverso
atteggiamento
anglo-americano
sulla
questione
di
Trieste.
Tito
tenne
di
conseguenza
una
serie
di
discorsi
molto
duri
nei
confronti
dell’Italia
e vi
furono
esercitazioni
militari
e
manifestazioni
di
massa.
Pella
a
sua
volta
ordinò
lo
schieramento
di
alcune
unità
dell’Esercito
lungo
il
confine
nordorientale.
Posti
di
fronte
all’improvviso
aggravamento
della
questione
triestina,
le
autorità
americane
e
britanniche
cercarono
di
correre
ai
ripari:
mentre
gli
Stati
Uniti
dimostravano
un
certa
benevolenza
verso
l’Italia
derivante
anche
dall’atteggiamento
di
parte
dell’opinione
pubblica
e
della
stampa
statunitensi,
il
governo
britannico
sembrava
esprimere
maggiore
interesse
verso
Belgrado
e
l’abituale
sfiducia
nei
confronti
di
Roma.
Agli
inizi
di
ottobre
i
governi
inglese
e
americano
emisero
una
dichiarazione
nella
quale
indicavano
la
loro
intenzione
di
ritirare
al
più
presto
le
proprie
truppe
dalla
Zona
A,
nella
prospettiva
di
affidare
alcune
importanti
responsabilità
all’Italia.
Tito
si
oppose,
ma
infine
nell’ottobre
del
1954
il
cosiddetto
“memorandum
d’intesa”
siglato
a
Londra
sancì
la
restituzione
della
Zona
A,
con
Trieste,
alla
sovranità
italiana.
Alcide
De
Gasperi
fu
sempre
consapevole
che
le
ineguaglianze
imposte
dalla
monarchia
austriaca
avevano
reso
impossibile
la
convivenza
di
più
popoli.
Di
qui
la
convinzione
che
il
superamento
degli
egoismi
nazionali
dovesse
avvenire
per
la
via
della
democrazia,
con
il
pieno
riconoscimento
del
diritto
dei
popoli
alla
libertà.
D’altra
parte,
i
cattolici
e
sotto
l’Austria
e
negli
altri
Stati
non
avevano
mai
brillato
per
spirito
europeo.
In
un
discorso
che
tenne
al
Senato
nel
1950,
De
Gasperi
fece
questa
importante
confessione:
"I
cattolici
allora
erano
in
gran
parte
un
mondo
circoscritto
ai
problemi
nazionali
dei
singoli
paesi
oppure
quando
si
trattava
di
politica
generale,
di
politica
europea,
non
avevano
una
linea
propria
e si
perdevano
dietro
concezioni
di
carattere,
chiamiamolo
così,
starei
per
dire,
reazionario,
di
visioni
medioevali".
Per
la
prima
volta
nella
storia
del
cattolicesimo
europeo
la
visione
cattolica
dei
problemi
europei
non
era
stata
più
sinonimo
di
visione
controrivoluzionaria,
di
neo-medievalismo
ecclesiastico,
di
baluardo
confessionale
contro
il
mondo
moderno,
ma
sinonimo
di
una
scelta
democratica
ispirata
al
comune
retaggio
spirituale
europeo.
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