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N. 57 - Settembre 2012 (LXXXVIII)

Alcide De Gasperi e gli Esteri
relazioni internazionali italiane nel secondo dopoguerra - Parte I

di Ivan Buttignon

 

Nell’aprile del 1945 l’offensiva alleata e l’azione partigiana conducevano alla liberazione del nord e alla fine delle ostilità. Per l’Italia si apriva una fase nuova della propria storia, non solo sul piano interno, ma anche su quello internazionale.


Se fino alla fine del 1944 obiettivo della politica estera del governo Bonomi era stato in prevalenza lo smussamento dei termini dell’armistizio, con l’avvicinarsi della fine delle ostilità, la questione del trattato di pace divenne centrale. Nel corso di quell’anno, si era sviluppato un intenso dibattito tra Londra e Washington intorno all’opportunità di separare la posizione dell’Italia da quella degli altri satelliti della Germania hitleriana elaborando in anticipo rispetto a questi ultimi un trattato di pace con il governo di Roma.


Quanto alle autorità italiane, l’attenzione del ministero degli Esteri, nel dicembre del 1944 affidato al leader democristiano Alcide De Gasperi, parve concentrarsi sul recupero della sovranità sui territori della penisola liberati e su un diverso rapporto con l’Acc e con i governi alleati.


Con la fine delle ostilità in Europa la prospettiva di una pace punitiva e le sue gravi implicazioni di natura internazionale emersero in tutta la loro drammaticità. Ai confini nord-occidentali le truppe francesi, su ordini di De Gaulle, cercarono di procedere all’occupazione della Valle d’Aosta quale primo passo verso l’annessione di questo territorio. Lungo la frontiera orientale le unità partigiane jugoslave invasero gran parte della Venezia Giulia e per circa quaranta giorni imposero la loro occupazione sulla città di Trieste. Quest’ultimo episodio si rivelò particolarmente doloroso perché nelle zone occupate gli jugoslavi esercitarono un duro regime di repressione e di snazionalizzazione colpendo la comunità italiana; migliaia di italiani vennero uccisi e i loro corpi gettati nelle depressioni carsiche: le foibe.


Se l’atteggiamento jugoslavo trovava parziale spiegazione nella politica repressiva attuata dal fascismo nei riguardi di sloveni e croati durante il ventennio, è pur vero che l’azione jugoslava mirava a realizzare un’annessione di fatto della Venezia Giulia e a intimidire i membri della comunità italiana indipendentemente dall’atteggiamento da loro tenuto nei confronti del regime di Mussolini.


Ad ogni modo le autorità di Roma compresero l’esistenza di una precisa minaccia all’integrità del territorio nazionale e rivolsero pressanti appelli a Washington e Londra affinché non si creassero situazioni di fatto sfavorevoli all’Italia ancor prima dell’avvio delle discussioni sul trattato di pace. Le pressioni esercitate da De Gasperi e dai suoi collaboratori parvero dare alcuni frutti: gli anglo-americani bloccarono le ambizioni gaulliste e le autorità militari americane giunsero a minacciare l’interruzione dei rifornimenti alle unità francesi se queste avessero proceduto all’occupazione della Valle d’Aosta. Quanto alla Venezia Giulia, le truppe di Tito mantennero il controllo di gran parte di questa regione; solo per ciò che riguardava Trieste, dopo un duro confronto con il leader jugoslavo, gli Alleati riuscirono a imporre lo sgombero della città giuliana, che venne quindi occupata nel maggio dalle truppe neozelandesi.

 

è probabile che, sulla base delle posizioni assunte da Londra e da Washington, gli italiani si convincessero dell’esistenza di una buona disposizione delle due potenze occidentali nei riguardi dell’Italia. In realtà né gli Stati Uniti, né la Gran Bretagna erano intervenute per difendere gli interessi italiani, quanto piuttosto per frenare le eccessive ambizioni dei De Gaulle e di Tito, per ribadire che il futuro assetto del continente sarebbe stato deciso dai tre “grandi” e, nel caso di Trieste, per impedire al leader jugoslavo il controllo di un porto che sarebbe risultato di particolare rilievo nel sistema alleato di rifornimenti e di comunicazioni.


Anche nel confine settentrionale, si manifestava una minaccia all’integrità del territorio nazionale: all’indomani dell’8 settembre 1943 il Sud Tirolo era stato annesso al Reich, tra l’altro con il consenso di gran parte degli abitanti di lingua tedesca; con la fine delle ostilità la provincia di Bolzano, a differenza del resto del paese e analogamente a parte del territorio giuliano, non era stata restituita all’amministrazione italiana, ma era rimasta sotto il controllo alleato. Inoltre, in occasione della conferenza di ministri degli Esteri di Mosca dell’ottobre 1943, i tre “grandi” avevano deciso di considerare l’Austria non come complice del Reich hitleriano, bensì come prima nazione aggredita dal nazismo; nella primavera del 1945, sebbene la nazione alpina subisse un’occupazione militare quadripartita sul modello di quella imposta alla Germania, i vincitori permisero il ricostruirsi dello Stato e di un governo austriaci e rapidamente le autorità di Vienna avanzarono la richiesta affinché il Sud Tirolo tornasse alla sovranità austriaca.


Al fine di sottolineare la posizione dell’Italia quale potenza cobelligerante il governo Parri decise di dichiarare guerra al Giappone, suscitando fra l’altro scarsi consensi sia a Londra che a Washington per la sua evidente strumentalità. Nel luglio/agosto del 1945 il futuro dell’Italia venne affrontato in maniera marginale nel contesto della conferenza interalleata di Potsdam. Altre erano le questioni su cui i tre “grandi” concentrarono la loro attenzione e, per ciò che riguardava la penisola, ci si limitò a stabilire che un organismo quadripartito – la conferenza dei ministri degli Esteri degli Stati Uniti, dell’Unione Sovietica, della Gran Bretagna e della Francia - si sarebbe occupato della redazione del trattato di pace con l’Italia e, sebbene si riconoscesse come l’Italia fosse uscita dalla guerra fin dal 1943 e avesse contribuito allo sforzo di guerra alleato, la posizione italiana non appariva molto diversa da quella degli altri quattro satelliti del Reich (Romania, Ungheria, Finlandia e Bulgaria) i cui trattati di pace sarebbero stati redatti contemporaneamente a quello italiano.


Nell’imminenza della conferenza dei ministri degli Esteri, che si sarebbe riunita a Londra in settembre, De Gasperi delineò la posizione dell’Italia nei confronti del trattato di pace. Riguardo alle questioni territoriali, le autorità di Roma respingevano nettamente le rivendicazioni francesi che ora miravano ad alcune rettifiche di confine in Piemonte, nonché le ambizioni austriache sul Sud Tirolo, le prime perché ritenute ingiustificate dal punto di vista etnico e da quello politico, le seconde in base ad argomentazioni di ordine economico – gli investimenti compiuti e i legami economici ormai consolidati – e politico – la complicità di gran parte degli austriaci con il nazismo.


Possibilista appariva l’Italia sul problema del confine orientale, a proposito dl quale si auspicava l’applicazione della cosiddetta “linea Wilson”, dall’ipotesi avanzata nel 1919 dall’allora presidente americano: in base a tale piano la frontiera italo-jugoslava si sarebbe situata all’incirca lungo una direttrice che avrebbe grosso modo tagliato da nord a sud la penisola istriana, realizzando in questo modo, secondo Palazzo Chigi, una suddivisione equa del territorio conteso sulla base di criteri di natura etnica.


Quanto all’impero coloniale, l’Italia non contestava la rinascita di un’Etiopia e di un’Albania indipendenti e riconosceva gran parte della fondatezza delle richieste greche sulle isole del Dodecanneso, ma rivendicava la sovranità su quelle che venivano definite le colonie “prefasciste” (Libia, Eritrea e Somalia) motivando questa scelta in base a ragioni storiche, economiche e politiche: questi territori erano stati conquistati dall’Italia liberale, le autorità di Roma vi avevano investito ingenti risorse, nelle colonie esistevano comunità di coloni italiani ed esse potevano rappresentare uno sbocco migratorio, infine l’Italia avrebbe avuto diritto a veder riconosciuti il proprio ruolo di potenza africana e la propria opera “civilizzatrice”. Palazzo Chigi inoltre rifiutava, sulla base dei diritti acquisiti grazie alla cobelligeranza, sia l’imposizione di riparazioni economiche, sia l’applicazione di clausole militari punitive.


Da notare che queste tesi erano nel complesso condivise da tutto il mondo politico antifascista e da gran parte dell’opinione pubblica.


La conferenza dei ministri degli Esteri di Londra del settembre/ottobre 1945 si concluse con un niente di fatto, ma essa rappresentò un ulteriore segnale d’allarme per le autorità italiane. Le aspirazioni delle potenze vincitrici a trarre vantaggio dalla sconfitta italiana risultarono evidenti in più di un’occasione e soprattutto apparve chiaro come per i quattro “grandi” l’Italia fosse un oggetto di politica estera e come alle autorità di Roma sarebbe stato concesso scarso spazio per far sentire le proprie tesi. Tale atteggiamento trovò conferma in occasione della conferenza dei ministri degli Esteri americano, inglese e sovietico, tenutasi a Mosca alla fine del 1945: al termine dell’incontro venne affermato che la posizione dell’Italia non differiva agli occhi dei vincitori da quella degli altri quattro satelliti della Germania hitleriana.


Alle difficoltà nell’ambito del trattato di pace si aggiungevano per l’Italia l’acuirsi di alcuni problemi interni che avevano comunque risvolti di natura internazionale: la crisi economico-sociale non appariva destinata a risolversi in tempi brevi, nonostante gli Stati Uniti lanciassero segnali che facevano intendere un vago interessamento di Washington per le sorti del popolo italiano.

La situazione dell’ordine pubblico restava grave e soprattutto i rapporti tra i partiti e all’interno delle forze sociali, al di là della cooperazione antifascista, mostravano sintomi di logoramento. Espressione di queste difficoltà erano le dimissioni di Ferruccio Parri nel dicembre del 1945.


Così, il 10 dicembre 1945 De Gasperi divenne Presidente del Consiglio, mantenendo anche la guida del ministero degli Esteri. Sostenuto dai liberali, ma gradito anche a socialisti e comunisti (in quanto segretario di uno dei tre partiti popolari di massa che avevano partecipato alla Resistenza), De Gasperi fu il primo cattolico a guidare un esecutivo nella storia dell’Italia. Governò sino al 1953; ma, anche grazie alla sua opera, la Democrazia cristiana mantenne ininterrottamente la presidenza del Consiglio per oltre trent’anni.


Tre giorni dopo il varo del gabinetto De Gasperi – che comprendeva Nenni alla vicepresidenza del Consiglio e Togliatti al ministero di Grazia e Giustizia – il governo militare alleato trasferì l’amministrazione delle regioni settentrionali al governo italiano. La guerra era davvero finita, anche se restavano ancora da precisare le condizioni di pace.


Il primo governo De Gasperi ebbe il delicato compito di portare il Paese “dalle armi al voto”, sciogliendo insieme il delicato nodo istituzionale.


Nonostante la collaborazione governativa continuasse, il dibattito tra i partiti antifascisti era molto aspro. Lo scontro verteva in particolare sui poteri da conferire all’Assemblea Costituente: toccava ad essa – come pensavano a Nenni e Togliatti – decidere se l’Italia doveva restare una monarchia o diventare una repubblica. Spettavano alla Costituente “sovrana” (investita, cioè, di ampi poteri) avrebbe finito con l’assomigliare troppo alla Convenzione Nazionale della Rivoluzione francese. Si oppose quindi con tutte le sue forze alle richieste di socialcomunisti ed ottenne due cose: che la scelta istituzionale fosse affidata ad un referendum popolare e che la Costituente si limitasse a elaborare e approvare la nuova Costituzione.


Così, il 2 giugno del 1946 gli italiani si recarono in massa alle urne per scegliere tra monarchia e repubblica e, contemporaneamente, eleggere i deputati della Costituente. Si trattò delle prime elezioni a suffragio veramente universale della storia dell’Italia, nelle quali il diritto di voto fu riconosciuto anche alle donne.


Nel referendum istituzionale prevalse, seppur di poco, la Repubblica e, nello specifico, questa conquistò la maggioranza nel Centro e nel Nord, mentre la Monarchia vinse al Sud. In pratica, il referendum aveva rivelato l’esistenza di due Italie.

Incaricato di formare il primo governo dell’Italia repubblicana (il terzo del dopoguerra) fu, ancora una volta, De Gasperi. Egli era ora il segretario del partito di maggioranza relativa, pertanto rafforzò la presenza democristiana e ridimensionò quella dei partiti di sinistra. Anche se cresceva nel Paese la spinta anticomunista, e nel mondo il contrasto tra USA e URSS, De Gasperi puntò ancora sulla presenza dei comunisti nel Governo per due ragioni: perché doveva essere ancora firmato il trattato di pace con le potenze vincitrici (tra le quali c’era anche l’URSS) e perché occorreva dare all’Italia la nuova Costituzione.


Nei mesi che seguirono, però, De Gasperi preparò accuratamente il terreno per una svolta ch’egli riteneva ormai necessaria: la definitiva rottura con il Pci.


A parte la gravità della situazione economica (disoccupazione in crescita, inflazione), la questione più delicata che il secondo governo De Gasperi dovette affrontare, nell’autunno del 1946, fu quella del trattato di pace. L’atteggiamento delle potenze vincitrici non era tenero verso l’Italia perché questa era considerata comunque responsabile di misfatti del fascismo. Il problema era reso più complicato dal contesto in atto, anche in campo internazionale, fra De Gasperi e Togliatti. De Gasperi, infatti, stava costruendo, come Capo del Governo, un rapporto privilegiato, seppure non servile, con gli Stati Uniti d’America, l’influenza dei quali in Europa andava man mano crescendo in concessione con il disimpegno britannico. Togliatti, viceversa, lavorava per una collocazione internazionale equidistante dell’Italia fra le maggiori potenze – anche se, nelle occasioni importanti, mostrava chiaramente di privilegiare il rapporto con l’URSS, allarmando così sempre di più le forze moderate.


Prendendo le mosse dalle questioni internazionali, quella che colpiva in maniera più forte l’opinione pubblica e gli interessi italiani era il problema del confine orientale. In questo ambito, ognuna delle grandi potenze avanzava una propria ipotesi di confine, da quella statunitense – la più favorevole all’Italia e la più simile al progetto di Wilson – a quella britannica, a quella francese, sempre meno favorevoli alle tesi di Roma, per concludere con la posizione sovietica, vicina a quanto richiesto dalle autorità di Belgrado, le quali, non si limitavano ad avanzare rivendicazioni su tutta la Venezia Giulia, incluse Trieste e Gorizia, ma aspiravano ad annettere anche aree del Friuli.


Secondo, in ordine di importanza, si collocava il problema delle colonie. A questo proposito la Gran Bretagna aspirava a privare l’Italia dei possedimenti prefascisti nella speranza di esercitare su di essi una forte influenza. Londra infatti progettava di trasformare la Cirenaica in un protettorato che avrebbe rafforzato la posizione strategica inglese nel Mediterraneo e contava di unire la Somalia italiana al British Somaliland in un’unica grande Somalia, anch’essa sotto protettorato inglese e infine di disporre dell’Eritrea come elemento destinato a rafforzare i rapporti tra Londra e l’Etiopia.


Gli Stati Uniti, da parte loro, apparivano condividere l’atteggiamento inglese, ma non perché fosse intenzione di Washington sostenere il rafforzamento dell’impero britannico, bensì perché, da un lato ritenevano che le colonie rappresentassero per l’Italia un inutile fardello economico, e dall’altro preferivano veder insediati in questi territori, almeno nel breve periodo, gli alleati britannici piuttosto che una nazione debole come l’Italia, dove per il momento i comunisti partecipavano alla guida del governo.

 

La posizione sovietica sembrava oscillare fra vaghe richieste di un controllo su aree dell’impero italiano e l’aspirazione internazionale di questi territori che le avrebbero consentito di esercitare una certa influenza. Solo la Francia si dimostrava interessata al mantenimento della sovranità italiana perché temeva che i britannici avrebbero concesso larghe forme di autonomia, ad esempio, ai territori libici e questa scelta avrebbe rappresentato un precedente sfavorevole per le sorti della presenza coloniale francese in Nord Africa. Per ciò che concerneva le rivendicazioni austriache sul Sud Tirolo, le posizioni americane e francesi apparivano fluide ma maggiormente favorevoli all’Italia, mentre le autorità inglesi ritenevano che le richieste di Vienna fossero in larga misura giustificate sulla base di criteri etnici e l’Unione Sovietica in un primo momento parve anch’essa considerare con favore il ritorno di tutto o di parte del territorio sud-tirolese alla sovranità austriaca.


Per quanto concerne le questioni economiche, soprattutto l’Unione Sovietica così come una serie di alleati minori, avanzava richieste di ingenti riparazioni quale compenso per i danni arrecati dall’Italia fascista con la sua aggressione. Ostili alle riparazioni erano gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. Vi era infine il problema delle eventuali clausole militari del trattato di pace tramite cui le grandi potenze miravano all’eliminazione dell’Italia quale potenza militare attraverso una serie di restrizioni alla consistenza delle Forse Armate e la distruzione delle fortificazioni esistenti in alcune aree strategiche.


Il trattato di pace venne firmato nel febbraio del 1947 e apparve nettamente sfavorevole rispetto alle aspettative italiane. Riguardo al confine orientale si accettò la proposta della Francia. Sulla questione di Trieste, invece, si aggiunse a un accordo per il quale all’area comprendente la città giuliana al momento occupata militarmente dagli anglo-americani sarebbe stata aggiunta la parte nord-occidentale della penisola istriana, occupata dagli jugoslavi, allo scopo di formare un territorio internazionalizzato (il Territorio libero di Trieste o Tlt) del quale sarebbe stata competente l’Organizzazione delle Nazioni Unite. Quanto alle colonie i contrasti fra i “grandi” si rivelarono insormontabili e fu impossibile definirne la sorte; si decise comunque che l’Italia avrebbe dovuto rinunciare alla sovranità sui territori africani prefascisti; nel volgere di un anno dall’entrata in vigore del trattato i quattro “grandi” avrebbero dovuto individuare una soluzione definitiva alla questione che, in caso contrario, sarebbe stata devoluta alle Nazioni Unite.

 

Vennero inoltre accettate le modifiche territoriali richieste dalla Francia. Solo sulla questione sud-tirolese l’Italia parve trovare parziale soddisfazione in quanto i vincitori decisero che il Sud Tirolo doveva restare di sovranità italiana, ma spinsero i governi di Roma e di Vienna a trovare automaticamente una soluzione alla questione dei diritti della minoranza di lingua tedesca.

 

Ciò favorì la firma, nel settembre 1946, di un compromesso italo-austriaco – il cosiddetto accordo De Gasperi-Gruber – con il quale l’Italia riconosceva ai sudtirolesi una larga autonomia e la difesa delle caratteristiche culturali, linguistiche, ecc. della comunità tedesca. Quanto alle clausole economiche, alcune nazioni fra cui l’Unione Sovietica, la Jugoslavia e la Grecia vedevano riconosciuto il diritto a riparazioni. L’Italia invece avrebbe subito drastiche limitazioni al proprio potenziale militare e i vincitori si apprestavano a spartirsi gran parte della flotta italiana. Le reazioni presso l’opinione pubblica e il mondo politico italiani furono particolarmente vivaci e negative anche se alla fine la classe politica parve convincersi che non vi erano alternative alla firma del trattato e che in ogni modo questa scelta avrebbe aperto la strada alla possibilità di una revisione di tale documento.

 

Il trattato di pace rimase comunque importante perché chiudeva definitivamente l’esperienza del fascismo e della seconda guerra mondiale e offrì alla nazione la possibilità di costruire una propria politica estera.



 

 

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