N. 57 - Settembre 2012
(LXXXVIII)
Alcide De Gasperi e gli Esteri
relazioni internazionali italiane nel secondo dopoguerra - Parte I
di Ivan Buttignon
Nell’aprile
del
1945
l’offensiva
alleata
e
l’azione
partigiana
conducevano
alla
liberazione
del
nord
e
alla
fine
delle
ostilità.
Per
l’Italia
si
apriva
una
fase
nuova
della
propria
storia,
non
solo
sul
piano
interno,
ma
anche
su
quello
internazionale.
Se
fino
alla
fine
del
1944
obiettivo
della
politica
estera
del
governo
Bonomi
era
stato
in
prevalenza
lo
smussamento
dei
termini
dell’armistizio,
con
l’avvicinarsi
della
fine
delle
ostilità,
la
questione
del
trattato
di
pace
divenne
centrale.
Nel
corso
di
quell’anno,
si
era
sviluppato
un
intenso
dibattito
tra
Londra
e
Washington
intorno
all’opportunità
di
separare
la
posizione
dell’Italia
da
quella
degli
altri
satelliti
della
Germania
hitleriana
elaborando
in
anticipo
rispetto
a
questi
ultimi
un
trattato
di
pace
con
il
governo
di
Roma.
Quanto
alle
autorità
italiane,
l’attenzione
del
ministero
degli
Esteri,
nel
dicembre
del
1944
affidato
al
leader
democristiano
Alcide
De
Gasperi,
parve
concentrarsi
sul
recupero
della
sovranità
sui
territori
della
penisola
liberati
e su
un
diverso
rapporto
con
l’Acc
e
con
i
governi
alleati.
Con
la
fine
delle
ostilità
in
Europa
la
prospettiva
di
una
pace
punitiva
e le
sue
gravi
implicazioni
di
natura
internazionale
emersero
in
tutta
la
loro
drammaticità.
Ai
confini
nord-occidentali
le
truppe
francesi,
su
ordini
di
De
Gaulle,
cercarono
di
procedere
all’occupazione
della
Valle
d’Aosta
quale
primo
passo
verso
l’annessione
di
questo
territorio.
Lungo
la
frontiera
orientale
le
unità
partigiane
jugoslave
invasero
gran
parte
della
Venezia
Giulia
e
per
circa
quaranta
giorni
imposero
la
loro
occupazione
sulla
città
di
Trieste.
Quest’ultimo
episodio
si
rivelò
particolarmente
doloroso
perché
nelle
zone
occupate
gli
jugoslavi
esercitarono
un
duro
regime
di
repressione
e di
snazionalizzazione
colpendo
la
comunità
italiana;
migliaia
di
italiani
vennero
uccisi
e i
loro
corpi
gettati
nelle
depressioni
carsiche:
le
foibe.
Se
l’atteggiamento
jugoslavo
trovava
parziale
spiegazione
nella
politica
repressiva
attuata
dal
fascismo
nei
riguardi
di
sloveni
e
croati
durante
il
ventennio,
è
pur
vero
che
l’azione
jugoslava
mirava
a
realizzare
un’annessione
di
fatto
della
Venezia
Giulia
e a
intimidire
i
membri
della
comunità
italiana
indipendentemente
dall’atteggiamento
da
loro
tenuto
nei
confronti
del
regime
di
Mussolini.
Ad
ogni
modo
le
autorità
di
Roma
compresero
l’esistenza
di
una
precisa
minaccia
all’integrità
del
territorio
nazionale
e
rivolsero
pressanti
appelli
a
Washington
e
Londra
affinché
non
si
creassero
situazioni
di
fatto
sfavorevoli
all’Italia
ancor
prima
dell’avvio
delle
discussioni
sul
trattato
di
pace.
Le
pressioni
esercitate
da
De
Gasperi
e
dai
suoi
collaboratori
parvero
dare
alcuni
frutti:
gli
anglo-americani
bloccarono
le
ambizioni
gaulliste
e le
autorità
militari
americane
giunsero
a
minacciare
l’interruzione
dei
rifornimenti
alle
unità
francesi
se
queste
avessero
proceduto
all’occupazione
della
Valle
d’Aosta.
Quanto
alla
Venezia
Giulia,
le
truppe
di
Tito
mantennero
il
controllo
di
gran
parte
di
questa
regione;
solo
per
ciò
che
riguardava
Trieste,
dopo
un
duro
confronto
con
il
leader
jugoslavo,
gli
Alleati
riuscirono
a
imporre
lo
sgombero
della
città
giuliana,
che
venne
quindi
occupata
nel
maggio
dalle
truppe
neozelandesi.
è
probabile
che,
sulla
base
delle
posizioni
assunte
da
Londra
e da
Washington,
gli
italiani
si
convincessero
dell’esistenza
di
una
buona
disposizione
delle
due
potenze
occidentali
nei
riguardi
dell’Italia.
In
realtà
né
gli
Stati
Uniti,
né
la
Gran
Bretagna
erano
intervenute
per
difendere
gli
interessi
italiani,
quanto
piuttosto
per
frenare
le
eccessive
ambizioni
dei
De
Gaulle
e di
Tito,
per
ribadire
che
il
futuro
assetto
del
continente
sarebbe
stato
deciso
dai
tre
“grandi”
e,
nel
caso
di
Trieste,
per
impedire
al
leader
jugoslavo
il
controllo
di
un
porto
che
sarebbe
risultato
di
particolare
rilievo
nel
sistema
alleato
di
rifornimenti
e di
comunicazioni.
Anche
nel
confine
settentrionale,
si
manifestava
una
minaccia
all’integrità
del
territorio
nazionale:
all’indomani
dell’8
settembre
1943
il
Sud
Tirolo
era
stato
annesso
al
Reich,
tra
l’altro
con
il
consenso
di
gran
parte
degli
abitanti
di
lingua
tedesca;
con
la
fine
delle
ostilità
la
provincia
di
Bolzano,
a
differenza
del
resto
del
paese
e
analogamente
a
parte
del
territorio
giuliano,
non
era
stata
restituita
all’amministrazione
italiana,
ma
era
rimasta
sotto
il
controllo
alleato.
Inoltre,
in
occasione
della
conferenza
di
ministri
degli
Esteri
di
Mosca
dell’ottobre
1943,
i
tre
“grandi”
avevano
deciso
di
considerare
l’Austria
non
come
complice
del
Reich
hitleriano,
bensì
come
prima
nazione
aggredita
dal
nazismo;
nella
primavera
del
1945,
sebbene
la
nazione
alpina
subisse
un’occupazione
militare
quadripartita
sul
modello
di
quella
imposta
alla
Germania,
i
vincitori
permisero
il
ricostruirsi
dello
Stato
e di
un
governo
austriaci
e
rapidamente
le
autorità
di
Vienna
avanzarono
la
richiesta
affinché
il
Sud
Tirolo
tornasse
alla
sovranità
austriaca.
Al
fine
di
sottolineare
la
posizione
dell’Italia
quale
potenza
cobelligerante
il
governo
Parri
decise
di
dichiarare
guerra
al
Giappone,
suscitando
fra
l’altro
scarsi
consensi
sia
a
Londra
che
a
Washington
per
la
sua
evidente
strumentalità.
Nel
luglio/agosto
del
1945
il
futuro
dell’Italia
venne
affrontato
in
maniera
marginale
nel
contesto
della
conferenza
interalleata
di
Potsdam.
Altre
erano
le
questioni
su
cui
i
tre
“grandi”
concentrarono
la
loro
attenzione
e,
per
ciò
che
riguardava
la
penisola,
ci
si
limitò
a
stabilire
che
un
organismo
quadripartito
– la
conferenza
dei
ministri
degli
Esteri
degli
Stati
Uniti,
dell’Unione
Sovietica,
della
Gran
Bretagna
e
della
Francia
- si
sarebbe
occupato
della
redazione
del
trattato
di
pace
con
l’Italia
e,
sebbene
si
riconoscesse
come
l’Italia
fosse
uscita
dalla
guerra
fin
dal
1943
e
avesse
contribuito
allo
sforzo
di
guerra
alleato,
la
posizione
italiana
non
appariva
molto
diversa
da
quella
degli
altri
quattro
satelliti
del
Reich
(Romania,
Ungheria,
Finlandia
e
Bulgaria)
i
cui
trattati
di
pace
sarebbero
stati
redatti
contemporaneamente
a
quello
italiano.
Nell’imminenza
della
conferenza
dei
ministri
degli
Esteri,
che
si
sarebbe
riunita
a
Londra
in
settembre,
De
Gasperi
delineò
la
posizione
dell’Italia
nei
confronti
del
trattato
di
pace.
Riguardo
alle
questioni
territoriali,
le
autorità
di
Roma
respingevano
nettamente
le
rivendicazioni
francesi
che
ora
miravano
ad
alcune
rettifiche
di
confine
in
Piemonte,
nonché
le
ambizioni
austriache
sul
Sud
Tirolo,
le
prime
perché
ritenute
ingiustificate
dal
punto
di
vista
etnico
e da
quello
politico,
le
seconde
in
base
ad
argomentazioni
di
ordine
economico
–
gli
investimenti
compiuti
e i
legami
economici
ormai
consolidati
– e
politico
– la
complicità
di
gran
parte
degli
austriaci
con
il
nazismo.
Possibilista
appariva
l’Italia
sul
problema
del
confine
orientale,
a
proposito
dl
quale
si
auspicava
l’applicazione
della
cosiddetta
“linea
Wilson”,
dall’ipotesi
avanzata
nel
1919
dall’allora
presidente
americano:
in
base
a
tale
piano
la
frontiera
italo-jugoslava
si
sarebbe
situata
all’incirca
lungo
una
direttrice
che
avrebbe
grosso
modo
tagliato
da
nord
a
sud
la
penisola
istriana,
realizzando
in
questo
modo,
secondo
Palazzo
Chigi,
una
suddivisione
equa
del
territorio
conteso
sulla
base
di
criteri
di
natura
etnica.
Quanto
all’impero
coloniale,
l’Italia
non
contestava
la
rinascita
di
un’Etiopia
e di
un’Albania
indipendenti
e
riconosceva
gran
parte
della
fondatezza
delle
richieste
greche
sulle
isole
del
Dodecanneso,
ma
rivendicava
la
sovranità
su
quelle
che
venivano
definite
le
colonie
“prefasciste”
(Libia,
Eritrea
e
Somalia)
motivando
questa
scelta
in
base
a
ragioni
storiche,
economiche
e
politiche:
questi
territori
erano
stati
conquistati
dall’Italia
liberale,
le
autorità
di
Roma
vi
avevano
investito
ingenti
risorse,
nelle
colonie
esistevano
comunità
di
coloni
italiani
ed
esse
potevano
rappresentare
uno
sbocco
migratorio,
infine
l’Italia
avrebbe
avuto
diritto
a
veder
riconosciuti
il
proprio
ruolo
di
potenza
africana
e la
propria
opera
“civilizzatrice”.
Palazzo
Chigi
inoltre
rifiutava,
sulla
base
dei
diritti
acquisiti
grazie
alla
cobelligeranza,
sia
l’imposizione
di
riparazioni
economiche,
sia
l’applicazione
di
clausole
militari
punitive.
Da
notare
che
queste
tesi
erano
nel
complesso
condivise
da
tutto
il
mondo
politico
antifascista
e da
gran
parte
dell’opinione
pubblica.
La
conferenza
dei
ministri
degli
Esteri
di
Londra
del
settembre/ottobre
1945
si
concluse
con
un
niente
di
fatto,
ma
essa
rappresentò
un
ulteriore
segnale
d’allarme
per
le
autorità
italiane.
Le
aspirazioni
delle
potenze
vincitrici
a
trarre
vantaggio
dalla
sconfitta
italiana
risultarono
evidenti
in
più
di
un’occasione
e
soprattutto
apparve
chiaro
come
per
i
quattro
“grandi”
l’Italia
fosse
un
oggetto
di
politica
estera
e
come
alle
autorità
di
Roma
sarebbe
stato
concesso
scarso
spazio
per
far
sentire
le
proprie
tesi.
Tale
atteggiamento
trovò
conferma
in
occasione
della
conferenza
dei
ministri
degli
Esteri
americano,
inglese
e
sovietico,
tenutasi
a
Mosca
alla
fine
del
1945:
al
termine
dell’incontro
venne
affermato
che
la
posizione
dell’Italia
non
differiva
agli
occhi
dei
vincitori
da
quella
degli
altri
quattro
satelliti
della
Germania
hitleriana.
Alle
difficoltà
nell’ambito
del
trattato
di
pace
si
aggiungevano
per
l’Italia
l’acuirsi
di
alcuni
problemi
interni
che
avevano
comunque
risvolti
di
natura
internazionale:
la
crisi
economico-sociale
non
appariva
destinata
a
risolversi
in
tempi
brevi,
nonostante
gli
Stati
Uniti
lanciassero
segnali
che
facevano
intendere
un
vago
interessamento
di
Washington
per
le
sorti
del
popolo
italiano.
La
situazione
dell’ordine
pubblico
restava
grave
e
soprattutto
i
rapporti
tra
i
partiti
e
all’interno
delle
forze
sociali,
al
di
là
della
cooperazione
antifascista,
mostravano
sintomi
di
logoramento.
Espressione
di
queste
difficoltà
erano
le
dimissioni
di
Ferruccio
Parri
nel
dicembre
del
1945.
Così,
il
10
dicembre
1945
De
Gasperi
divenne
Presidente
del
Consiglio,
mantenendo
anche
la
guida
del
ministero
degli
Esteri.
Sostenuto
dai
liberali,
ma
gradito
anche
a
socialisti
e
comunisti
(in
quanto
segretario
di
uno
dei
tre
partiti
popolari
di
massa
che
avevano
partecipato
alla
Resistenza),
De
Gasperi
fu
il
primo
cattolico
a
guidare
un
esecutivo
nella
storia
dell’Italia.
Governò
sino
al
1953;
ma,
anche
grazie
alla
sua
opera,
la
Democrazia
cristiana
mantenne
ininterrottamente
la
presidenza
del
Consiglio
per
oltre
trent’anni.
Tre
giorni
dopo
il
varo
del
gabinetto
De
Gasperi
–
che
comprendeva
Nenni
alla
vicepresidenza
del
Consiglio
e
Togliatti
al
ministero
di
Grazia
e
Giustizia
– il
governo
militare
alleato
trasferì
l’amministrazione
delle
regioni
settentrionali
al
governo
italiano.
La
guerra
era
davvero
finita,
anche
se
restavano
ancora
da
precisare
le
condizioni
di
pace.
Il
primo
governo
De
Gasperi
ebbe
il
delicato
compito
di
portare
il
Paese
“dalle
armi
al
voto”,
sciogliendo
insieme
il
delicato
nodo
istituzionale.
Nonostante
la
collaborazione
governativa
continuasse,
il
dibattito
tra
i
partiti
antifascisti
era
molto
aspro.
Lo
scontro
verteva
in
particolare
sui
poteri
da
conferire
all’Assemblea
Costituente:
toccava
ad
essa
–
come
pensavano
a
Nenni
e
Togliatti
–
decidere
se
l’Italia
doveva
restare
una
monarchia
o
diventare
una
repubblica.
Spettavano
alla
Costituente
“sovrana”
(investita,
cioè,
di
ampi
poteri)
avrebbe
finito
con
l’assomigliare
troppo
alla
Convenzione
Nazionale
della
Rivoluzione
francese.
Si
oppose
quindi
con
tutte
le
sue
forze
alle
richieste
di
socialcomunisti
ed
ottenne
due
cose:
che
la
scelta
istituzionale
fosse
affidata
ad
un
referendum
popolare
e
che
la
Costituente
si
limitasse
a
elaborare
e
approvare
la
nuova
Costituzione.
Così,
il 2
giugno
del
1946
gli
italiani
si
recarono
in
massa
alle
urne
per
scegliere
tra
monarchia
e
repubblica
e,
contemporaneamente,
eleggere
i
deputati
della
Costituente.
Si
trattò
delle
prime
elezioni
a
suffragio
veramente
universale
della
storia
dell’Italia,
nelle
quali
il
diritto
di
voto
fu
riconosciuto
anche
alle
donne.
Nel
referendum
istituzionale
prevalse,
seppur
di
poco,
la
Repubblica
e,
nello
specifico,
questa
conquistò
la
maggioranza
nel
Centro
e
nel
Nord,
mentre
la
Monarchia
vinse
al
Sud.
In
pratica,
il
referendum
aveva
rivelato
l’esistenza
di
due
Italie.
Incaricato
di
formare
il
primo
governo
dell’Italia
repubblicana
(il
terzo
del
dopoguerra)
fu,
ancora
una
volta,
De
Gasperi.
Egli
era
ora
il
segretario
del
partito
di
maggioranza
relativa,
pertanto
rafforzò
la
presenza
democristiana
e
ridimensionò
quella
dei
partiti
di
sinistra.
Anche
se
cresceva
nel
Paese
la
spinta
anticomunista,
e
nel
mondo
il
contrasto
tra
USA
e
URSS,
De
Gasperi
puntò
ancora
sulla
presenza
dei
comunisti
nel
Governo
per
due
ragioni:
perché
doveva
essere
ancora
firmato
il
trattato
di
pace
con
le
potenze
vincitrici
(tra
le
quali
c’era
anche
l’URSS)
e
perché
occorreva
dare
all’Italia
la
nuova
Costituzione.
Nei
mesi
che
seguirono,
però,
De
Gasperi
preparò
accuratamente
il
terreno
per
una
svolta
ch’egli
riteneva
ormai
necessaria:
la
definitiva
rottura
con
il
Pci.
A
parte
la
gravità
della
situazione
economica
(disoccupazione
in
crescita,
inflazione),
la
questione
più
delicata
che
il
secondo
governo
De
Gasperi
dovette
affrontare,
nell’autunno
del
1946,
fu
quella
del
trattato
di
pace.
L’atteggiamento
delle
potenze
vincitrici
non
era
tenero
verso
l’Italia
perché
questa
era
considerata
comunque
responsabile
di
misfatti
del
fascismo.
Il
problema
era
reso
più
complicato
dal
contesto
in
atto,
anche
in
campo
internazionale,
fra
De
Gasperi
e
Togliatti.
De
Gasperi,
infatti,
stava
costruendo,
come
Capo
del
Governo,
un
rapporto
privilegiato,
seppure
non
servile,
con
gli
Stati
Uniti
d’America,
l’influenza
dei
quali
in
Europa
andava
man
mano
crescendo
in
concessione
con
il
disimpegno
britannico.
Togliatti,
viceversa,
lavorava
per
una
collocazione
internazionale
equidistante
dell’Italia
fra
le
maggiori
potenze
–
anche
se,
nelle
occasioni
importanti,
mostrava
chiaramente
di
privilegiare
il
rapporto
con
l’URSS,
allarmando
così
sempre
di
più
le
forze
moderate.
Prendendo
le
mosse
dalle
questioni
internazionali,
quella
che
colpiva
in
maniera
più
forte
l’opinione
pubblica
e
gli
interessi
italiani
era
il
problema
del
confine
orientale.
In
questo
ambito,
ognuna
delle
grandi
potenze
avanzava
una
propria
ipotesi
di
confine,
da
quella
statunitense
– la
più
favorevole
all’Italia
e la
più
simile
al
progetto
di
Wilson
– a
quella
britannica,
a
quella
francese,
sempre
meno
favorevoli
alle
tesi
di
Roma,
per
concludere
con
la
posizione
sovietica,
vicina
a
quanto
richiesto
dalle
autorità
di
Belgrado,
le
quali,
non
si
limitavano
ad
avanzare
rivendicazioni
su
tutta
la
Venezia
Giulia,
incluse
Trieste
e
Gorizia,
ma
aspiravano
ad
annettere
anche
aree
del
Friuli.
Secondo,
in
ordine
di
importanza,
si
collocava
il
problema
delle
colonie.
A
questo
proposito
la
Gran
Bretagna
aspirava
a
privare
l’Italia
dei
possedimenti
prefascisti
nella
speranza
di
esercitare
su
di
essi
una
forte
influenza.
Londra
infatti
progettava
di
trasformare
la
Cirenaica
in
un
protettorato
che
avrebbe
rafforzato
la
posizione
strategica
inglese
nel
Mediterraneo
e
contava
di
unire
la
Somalia
italiana
al
British
Somaliland
in
un’unica
grande
Somalia,
anch’essa
sotto
protettorato
inglese
e
infine
di
disporre
dell’Eritrea
come
elemento
destinato
a
rafforzare
i
rapporti
tra
Londra
e
l’Etiopia.
Gli
Stati
Uniti,
da
parte
loro,
apparivano
condividere
l’atteggiamento
inglese,
ma
non
perché
fosse
intenzione
di
Washington
sostenere
il
rafforzamento
dell’impero
britannico,
bensì
perché,
da
un
lato
ritenevano
che
le
colonie
rappresentassero
per
l’Italia
un
inutile
fardello
economico,
e
dall’altro
preferivano
veder
insediati
in
questi
territori,
almeno
nel
breve
periodo,
gli
alleati
britannici
piuttosto
che
una
nazione
debole
come
l’Italia,
dove
per
il
momento
i
comunisti
partecipavano
alla
guida
del
governo.
La
posizione
sovietica
sembrava
oscillare
fra
vaghe
richieste
di
un
controllo
su
aree
dell’impero
italiano
e
l’aspirazione
internazionale
di
questi
territori
che
le
avrebbero
consentito
di
esercitare
una
certa
influenza.
Solo
la
Francia
si
dimostrava
interessata
al
mantenimento
della
sovranità
italiana
perché
temeva
che
i
britannici
avrebbero
concesso
larghe
forme
di
autonomia,
ad
esempio,
ai
territori
libici
e
questa
scelta
avrebbe
rappresentato
un
precedente
sfavorevole
per
le
sorti
della
presenza
coloniale
francese
in
Nord
Africa.
Per
ciò
che
concerneva
le
rivendicazioni
austriache
sul
Sud
Tirolo,
le
posizioni
americane
e
francesi
apparivano
fluide
ma
maggiormente
favorevoli
all’Italia,
mentre
le
autorità
inglesi
ritenevano
che
le
richieste
di
Vienna
fossero
in
larga
misura
giustificate
sulla
base
di
criteri
etnici
e
l’Unione
Sovietica
in
un
primo
momento
parve
anch’essa
considerare
con
favore
il
ritorno
di
tutto
o di
parte
del
territorio
sud-tirolese
alla
sovranità
austriaca.
Per
quanto
concerne
le
questioni
economiche,
soprattutto
l’Unione
Sovietica
così
come
una
serie
di
alleati
minori,
avanzava
richieste
di
ingenti
riparazioni
quale
compenso
per
i
danni
arrecati
dall’Italia
fascista
con
la
sua
aggressione.
Ostili
alle
riparazioni
erano
gli
Stati
Uniti
e la
Gran
Bretagna.
Vi
era
infine
il
problema
delle
eventuali
clausole
militari
del
trattato
di
pace
tramite
cui
le
grandi
potenze
miravano
all’eliminazione
dell’Italia
quale
potenza
militare
attraverso
una
serie
di
restrizioni
alla
consistenza
delle
Forse
Armate
e la
distruzione
delle
fortificazioni
esistenti
in
alcune
aree
strategiche.
Il
trattato
di
pace
venne
firmato
nel
febbraio
del
1947
e
apparve
nettamente
sfavorevole
rispetto
alle
aspettative
italiane.
Riguardo
al
confine
orientale
si
accettò
la
proposta
della
Francia.
Sulla
questione
di
Trieste,
invece,
si
aggiunse
a un
accordo
per
il
quale
all’area
comprendente
la
città
giuliana
al
momento
occupata
militarmente
dagli
anglo-americani
sarebbe
stata
aggiunta
la
parte
nord-occidentale
della
penisola
istriana,
occupata
dagli
jugoslavi,
allo
scopo
di
formare
un
territorio
internazionalizzato
(il
Territorio
libero
di
Trieste
o
Tlt)
del
quale
sarebbe
stata
competente
l’Organizzazione
delle
Nazioni
Unite.
Quanto
alle
colonie
i
contrasti
fra
i
“grandi”
si
rivelarono
insormontabili
e fu
impossibile
definirne
la
sorte;
si
decise
comunque
che
l’Italia
avrebbe
dovuto
rinunciare
alla
sovranità
sui
territori
africani
prefascisti;
nel
volgere
di
un
anno
dall’entrata
in
vigore
del
trattato
i
quattro
“grandi”
avrebbero
dovuto
individuare
una
soluzione
definitiva
alla
questione
che,
in
caso
contrario,
sarebbe
stata
devoluta
alle
Nazioni
Unite.
Vennero
inoltre
accettate
le
modifiche
territoriali
richieste
dalla
Francia.
Solo
sulla
questione
sud-tirolese
l’Italia
parve
trovare
parziale
soddisfazione
in
quanto
i
vincitori
decisero
che
il
Sud
Tirolo
doveva
restare
di
sovranità
italiana,
ma
spinsero
i
governi
di
Roma
e di
Vienna
a
trovare
automaticamente
una
soluzione
alla
questione
dei
diritti
della
minoranza
di
lingua
tedesca.
Ciò
favorì
la
firma,
nel
settembre 1946,
di
un
compromesso
italo-austriaco
– il
cosiddetto
accordo
De Gasperi-Gruber
–
con
il
quale
l’Italia
riconosceva
ai
sudtirolesi
una
larga
autonomia
e la
difesa
delle
caratteristiche
culturali,
linguistiche,
ecc.
della
comunità
tedesca.
Quanto
alle
clausole
economiche,
alcune
nazioni
fra
cui
l’Unione
Sovietica,
la
Jugoslavia
e la
Grecia
vedevano
riconosciuto
il
diritto
a
riparazioni.
L’Italia
invece
avrebbe
subito
drastiche
limitazioni
al
proprio
potenziale
militare
e i
vincitori
si
apprestavano
a
spartirsi
gran
parte
della
flotta
italiana.
Le
reazioni
presso
l’opinione
pubblica
e il
mondo
politico
italiani
furono
particolarmente
vivaci
e
negative
anche
se
alla
fine
la
classe
politica
parve
convincersi
che
non
vi
erano
alternative
alla
firma
del
trattato
e
che
in
ogni
modo
questa
scelta
avrebbe
aperto
la
strada
alla
possibilità
di
una
revisione
di
tale
documento.
Il
trattato
di
pace
rimase
comunque
importante
perché
chiudeva
definitivamente
l’esperienza
del
fascismo
e
della
seconda
guerra
mondiale
e
offrì
alla
nazione
la
possibilità
di
costruire
una
propria
politica
estera.