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N. 65 - Maggio 2013 (XCVI)

La politica alleata verso l’Italia nella Seconda Guerra Mondiale
Parte I - Le divergenze diplomatiche

di Roberto Rota

 

Nel 1940 l’opinione comune degli inglesi era che l’Italia non solo fosse l’anello debole dell’Asse (The Weakest Link) ma anche il paese che, per la sua posizione geografica e per i suoi progetti di espansione, più minacciava gli interessi britannici.

 

Non solo l’espansione africana metteva in pericolo l’Egitto (e quindi il canale di Suez) e Gibilterra, rischio grandissimo che avrebbe isolato completamente il Mediterraneo, ma un’eventuale campagna militare nel vicino oriente poteva minacciare (nei pensieri degli strateghi britannici che non conoscevano ancora l’effettiva efficienza dell’esercito italiano) anche i possedimenti indiani, la qual cosa avrebbe creato una formidabile ed invincibile soluzione di continuità tra l’Impero italiano e quello nipponico.

 

Le prime campagne italiane, in Africa e nei Balcani, dimostrarono, però, l’inefficienza dell’apparato militare italiano. Nonostante ciò l’eventualità di un contrattacco inglese era del tutto infondata poiché l’Impero Britannico non solo era ben più preoccupato di un’eventuale invasione del suolo patrio da parte delle truppe del Terzo Reich, ma non aveva la forza e le disponibilità per poter portare avanti operazioni belliche offensive nel Mediterraneo. Ricordiamo che nel 1940 gli Stati Uniti non erano ancora entrati in guerra e che l’operazione “Barbarossa” sarebbe cominciata solo l’anno dopo.

 

L’Inghilterra era l’unica potenza che ancora resisteva in Europa, ma le sue risorse erano tutte concentrate nella propria difesa. Le prime sconfitte italiane aprirono uno scenario nuovo circa le possibilità di azione; la prospettiva di una pace separata che facesse uscire dal conflitto l’Italia cominciava a diventare verosimile. Varie ipotesi furono vagliate, soprattutto dai servizi segreti (SOE, Special Operations Executive), tra le quali: la creazione, tra i prigionieri italiani caduti nelle mani degli inglesi in Africa, di un esercito di volontari per la liberazione nazionale (la cosiddetta “Legione Garibaldi”); la creazione di una colonia libera italiana in Cirenaica (che proprio allora era stata conquistata dalla controffensiva britannica); l’idea di far sbarcare, in Sardegna e in Sicilia, gruppi clandestini di antifascisti che avrebbero dovuto spianare la strada allo sbarco alleato e creare un movimento armato di resistenza; la possibilità del passaggio della Flotta e dell’Aviazione italiane dalla loro parte.

 

Si trattava d’ipotesi che, evidentemente, sovrastimavano la dimensione del movimento antifascista e la disponibilità della popolazione e dell’esercito alla collaborazione. Si voleva portare il popolo dalla propria parte discolpandolo di tutte le responsabilità della guerra, addossate unicamente alla follia di Mussolini.

 

 La politica di Churchill si concentrò, quindi, e sui bombardamenti che avrebbero dovuto fiaccare il consenso della popolazione alla politica di appoggio a Hitler, e su una massiccia propaganda che avrebbe dovuto portare a una pace separata dell’Italia. Si trattava di un piano di azione che si concretò nei vari tentativi, del dicembre 1940, di aprire contatti tramite il Vaticano, in particolare tramite i delegati apostolici di Sofia e di Londra. I negoziati, però, non si avviarono nemmeno.

 

Questa, dunque, era la prospettiva inglese per tutto il 1940, prospettiva che aveva l’obiettivo primario di far uscire l’Italia dal conflitto anche a costo di alcune concessioni. I vantaggi sarebbero stati molteplici: eliminare la minaccia nord-africana e quindi liberare le truppe impegnate su quel fronte (in particolare la flotta britannica che sarebbe stata usata per la guerra contro il Giappone), permettere alle forze navali inglesi il libero transito nel Mediterraneo e quindi evitare la pericolosa e lunga rotta del Capo, fare pressioni sulla Turchia e cercare di portarla dalla parte alleata acquisendo, quindi, l’importante controllo dei Dardanelli. Ma le cose ben presto cambiarono.

 

Tre avvenimenti contribuirono pesantemente al mutamento della politica estera britannica nei confronti dell’Italia. Il generale tedesco Erwin Rommel, che si era distinto nella campagna di Francia grazie alle imprese della sua Divisione Fantasma, era stato mandato da Hitler in Africa settentrionale per dare manforte alle truppe di Mussolini. La debolezza dell’esercito italiano era dovuta (anche) alla debolezza e alla codardia dei suoi ufficiali, gli inglesi lo sapevano bene e per questo l’arrivo dell’abile comandante tedesco preoccupava molto. Il 22 giugno 1941 comincia l’operazione “Barbarossa”.

 

La più grande campagna militare di tutti i tempi prometteva di impegnare fino all’ultimo uomo le truppe hitleriane, ma un’eventuale, e al tempo non improbabile, vittoria tedesca sarebbe stata disastrosa per le sorti della guerra. Infine con l’attacco giapponese a Pearl Harbour (7 dicembre 1941), anche gli Stati Uniti entrano in guerra, ma per il momento è l’impero del Sol Levante a collezionare successi nell’estremo oriente. La strategia britannica ben presto cambia, però deve anche confrontarsi con quella statunitense che, almeno originariamente, è profondamente diversa.

 

Inizialmente Roosevelt cercò di portare avanti una politica di appeasement (accomodamento) con l’Italia, non solo, in un primo momento, quando si tentò di farla rimanere neutrale, ma anche in seguito quando si cercò di raggiungere una pace separata. I tentativi di aprire una trattativa che convincesse Mussolini a restare neutrale furono avviati, attraverso il Vaticano, da Myron Taylor (ambasciatore personale di Roosevelt presso la Santa Sede) e dal sottosegretario di Stato Sumner Welles, ma si rivelarono ben presto fallimentari.

 

La politica statunitense era guidata dalla considerazione che l’Italia non fosse una potenza militarmente temibile e che la guerra fosse molto impopolare tra la popolazione italiana e quindi concessioni territoriali avrebbero avuto un effetto positivo. Ma vi erano anche interessi politici in gioco. Roosevelt era ben consapevole del fatto che i milioni di italo-americani cittadini statunitensi appoggiavano il partito democratico, e una feroce politica anti-italiana avrebbe fatto crollare i suoi consensi. Quindi, gli iniziali atteggiamenti favorevoli verso l’Italia, non furono dettati esclusivamente da scrupoli morali e umani ma soprattutto da interessi politici. Questo tipo di politica, appeasement e pace separata, sarebbe stato predominante almeno fino alla conferenza di Casablanca.

 

Tale atteggiamento favorevole non poteva, chiaramente, essere condiviso dagli inglesi, ormai da più di un anno in guerra con gli italiani e in un momento (il 1941) in cui le sorti della guerra erano particolarmente drammatiche. Se inizialmente la pace separata poteva essere una buona possibilità per uscire da una posizione difficile, l’entrata in guerra degli USA e l’operazione Barbarossa cambiavano le carte in tavola. In realtà all’interno del governo inglese cominciano a delinearsi due correnti profondamente in contrasto.

 

La corrente maggioritaria e nuova, rispetto alla precedente posizione, era quella che faceva capo al ministro per gli Affari Esteri Anthony Eden e al Foreign Office. Essa partiva dal presupposto che sarebbe stato dannoso portare avanti accordi preventivi poiché questi avrebbero legato esclusivamente le mani al governo britannico, e quindi limitato futuri possibili vantaggi. In particolare questa linea politica si concretò nel Memorandum del 20 novembre 1942 (Il testo del memorandum di Eden è riportato in: Llewellyn Woodward, British foreign policy in the Second World War, vol. II, HMSO, Londra 1971, pp. 462-463.). In esso si delineavano due prospettive possibili: quella della pace separata e quella del crollo del regime e dell’occupazione nazista del Paese.

 

La prima ipotesi non solo non era ben vista, poiché non si vedeva alcun tipo di vantaggio da un eventuale aiuto all’Italia e dall’Italia, ma era considerata altamente improbabile. Secondo Eden non vi erano personalità e autorità che avrebbero potuto portare avanti le trattative, il Vaticano non ne aveva la volontà, il Re Vittorio Emanuele III la forza e Badoglio non aveva un largo appoggio nell’esercito.

 

L’unica strada per il distacco sarebbe stata quella di concedere vantaggi territoriali, la qual cosa non era ben vista non solo perché ciò avrebbe consentito all’Italia di sedere ed avere un ruolo al tavolo della pace ma, anche perché, sarebbe stato opportuno lasciare aperta la possibilità di ripagare alcuni (leggi Jugoslavia) con territori italiani. Il crollo del Fascismo e l’occupazione tedesca, invece, erano prospettive ben più allettanti. Non solo sarebbe stata possibile attuare un’occupazione militare del territorio italiano ma il crollo interno avrebbe costretto le truppe tedesche a difendere i territori italiani e balcanici, disimpegnando un gran numero di truppe, eventualità, questa, preziosissima in vista dello sbarco nell’Europa settentrionale e della vittoria definitiva contro Hitler (scopo finale e principale della guerra, mai messo in secondo piano).

 

La corrente minoritaria faceva capo, invece, al Primo Ministro Winston Churchill e agli altri fautori dell’appeasement: Samuel Hoare (ex ministro degli esteri) e Percy Loraine (ex ambasciatore a Roma). Essi continuavano a sostenere la necessità di una pace separata, e l’interlocutore adatto sarebbe potuto essere Dino Grandi, già ambasciatore a Londra.

 

Le posizioni di Eden e di Churchill, quindi, erano discordanti in tutto tranne che nella convinzione della necessità di continuare i bombardamenti e di non aprirsi ad una politica di concessioni nell’eventualità delle trattative di resa. La politica predominante divenne, in ogni caso, quella intransigente di Eden (cioè il collasso interno dello stato) che avrebbe fortemente influenzato le trattative a Casablanca e chiuso a qualsiasi tentativo di trattativa da parte di interlocutori italiani, come vedremo in seguito.

 

Il 14 gennaio 1943 all'Hotel Anfa si apre la Conferenza di Casablanca (nome in codice "SYMBOL"), alla quale partecipavano Franklin D. Roosevelt, Winston Churchill e Charles de Gaulle. L’influenza sulla conferenza del Foreign Office era forte, soprattutto sul tema della resa “senza condizioni” da imporre alle potenze dell’Asse. L’opinione di Roosevelt e Churchill era che la formula della resa incondizionata dovesse applicarsi solamente per il Giappone e per la Germania.

 

Per l’Italia, invece, militarmente inferiore alle altre potenze, la prospettiva di una resa separata ed immediata sembrava più attraente e vantaggiosa per i due statisti. Nonostante l’opposizione di Eden, sembrava che la decisione fosse già stata presa invece, il 24 gennaio, Roosevelt annunciò a sorpresa che la formula della resa incondizionata sarebbe stata attuata anche per l’Italia.

 

Cos’era successo? L’affare Darlan aveva scosso gli animi, anche e soprattutto quelli sovietici. A seguito dello sbarco alleato in Africa del Nord (Operazione Torch) alla fine de 1942, Darlan, che si era inizialmente schierato con Pétain ed aveva appoggiato Hitler, aveva cambiato fronte, si era arreso agli Alleati e, con l’avallo di Eisenhower, era stato nominato "Alto commissario in Algeria" ossia rappresentante presso gli Alleati.

 

Dopo queste vicende ci si era reso conto che compromessi con il fascismo non erano ben visti e soprattutto erano in stridente contrasto con le motivazioni ideologiche della guerra. La Seconda Guerra Mondiale si profilava, sempre di più, come una guerra dal profondo significato morale ed ideologico.

 

Guerra contro il nazifascismo, in nome della democrazia, dell’autodeterminazione e della libertà. Solo in questo modo si potevano chiedere ai soldati e alla popolazione quei grandi sacrifici necessari per la vittoria, solo in questo modo poteva crearsi una grande alleanza che, almeno nelle intenzioni, superasse i progetti e gli interessi delle singole potenze occidentali.

 

Ma per far sì che la guerra potesse davvero essere vista come un epico scontro tra il bene e il male bisognava che il “bene” non si macchiasse più con compromessi e voltafaccia. La resa incondizionata era il simbolo della purezza di quell’Alleanza che si contrapponeva al diabolico disegno hitleriano (Roosevelt suggerì di chiamare la conferenza di Casablanca: “Conferenza della resa incondizionata”), e non poteva essere imposta e limitata solo ad alcuni, per interessi strategici.

 

La vittoria doveva essere completa, non solo militarmente ma anche moralmente. Il punto di vista di Roosevelt stava diventando ben più vicino a quello del Foreign Office, rispetto a quello del Dipartimento di Stato americano, in particolare Cordell Hull (segretario di stato) ed Eisenhower (Comandante in capo delle forze americane in Europa) erano del parere che offrire condizioni di pace avrebbe affrettato la resa, invece imporre una pace incondizionata avrebbe esclusivamente aumentato la resistenza e l’attaccamento all’alleato germanico.

 

In ogni caso il punto di vista di Roosevelt e del Foreign Office fu quello che uscì vincitore dalla conferenza di Casablanca. Oltre ai motivi morali che spinsero ad adottare questo tipo di resa con l’Italia vi era anche un profondo significato politico.

 

L’Unione Sovietica dopo la vittoria di Stalingrado (gennaio-febbraio 1943) aveva ormai preso l’iniziativa sul fronte orientale e quindi, se fino a quel momento era stato possibile dare secondaria importanza alle richieste di Stalin di aprire un secondo fronte europeo, in quel momento lo sbarco sul continente diventava necessario per non lasciare il prestigio dell’intera liberazione europea (e i relativi vantaggi strategici) ai sovietici e per evitare che, questi ultimi, firmassero, una volta liberato il territorio russo, una pace separata con Hitler.

 

Gli angloamericani dovevano riconfermare, con la promessa dello sbarco e con l’intransigenza della loro linea politica, la loro alleanza con la Russia nella lotta contro i nazifascismi. Inoltre la resa incondizionata italiana sarebbe stata un ottimo banco di prova per il futuro trattamento, poi, della Germania e del Giappone.



 

 

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