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ANTICA


N. 46 - Ottobre 2011 (LXXVII)

sulle politeiai
Una lettura del VI libro delle Storie di Polibio

di Paola Scollo

 

Polibio nasce alla fine del III secolo a Megalopoli, in Arcadia. La sua formazione avviene all’interno della Lega Achea, una confederazione di città della regione della Achaia, unite da radici culturali comuni, che si danno un’organizzazione comunitaria di tipo militare e politico.

 

Fino al 198 a.C. la lega è potenza egemone della Grecia peloponnesiaca, in posizione spiccatamente anti-spartana e anti-macedone. In seguito alla sconfitta di Filippo V nella battaglia di Cinoscefale del 197, rivela un graduale cedimento all’impero romano. All’età di vent’anni ha inizio l’attività pubblica di Polibio: in breve tempo acquisisce profonda esperienza in campo politico e militare e nel 169 è eletto ipparco. Nello stesso anno, sul trono macedone si insedia il figlio di Filippo V, Perseo, che costituisce un’alleanza con Rodii e Seleucidi in opposizione a Roma. Soltanto Epiro e Illiria decidono di schierarsi dalla parte di Perseo. Nel corso della terza guerra macedonica, nel giugno del 168 il console Lucio Emilio Paolo sconfigge a Pidna la falange macedone guidata da Perseo.

 

I Romani distruggono settanta città macedoni e devastano l’Epiro. La Grecia e la Macedonia vengono riunite a formare una provincia romana. In seguito, vengono deportati a Roma numerosi esponenti della classe guida della lega. Fra questi è anche Polibio che, una volta accolto nel circolo degli Scipioni, diviene spettatore privilegiato e, al contempo, protagonista della vita politica e culturale dell’Urbe, un intellettuale perfettamente integrato.


La fama di Polibio è legata alle Storie, opera in quaranta libri, di cui possediamo integralmente soltanto i primi cinque. Dei libri VI - XVIII restano, invece, ampi estratti. Per quanto riguarda i rimanenti libri, disponiamo di citazioni presso la Suda, Stefano Bizantino e altri autori. Di notevole interesse sono, infine, gli excerpta contenuti nella raccolta storica in 53 sezioni voluta da Costantino VII Porfirogenito (912- 959). I primi due libri delle Storie hanno carattere introduttivo e descrivono gli avvenimenti dal 264, anno della prima guerra punica, al 220, inizio della seconda guerra punica. L’opera di Polibio si pone come naturale prosecuzione della narrazione di Timeo, che si arresta agli avvenimenti del 265, anno della spedizione dei Romani in Sicilia.

 

Nel III libro è delineato il piano dell’opera che, inizialmente, avrebbe dovuto concludersi con la distruzione del regno di Macedonia, in seguito alla battaglia di Pidna. Dal libro III al XL viene poi analizzato il periodo di tempo compreso tra il 220 e il 145, con particolare riferimento a un evento paradoxon, straordinario, «come e grazie a quale genere di regime politico quasi tutto il mondo abitato, oikuènem, sia stato assoggettato e sia caduto in meno di cinquantatré anni sotto il dominio unico dei Romani, cosa che risulta mai essere avvenuta prima» (I 1.5). Si tratta di un evento eccezionale, senza precedenti, che impone ulteriori riflessioni. Di qui la scelta di sospendere la narrazione per offrire, nel VI libro, un’analisi dei fattori politici e militari che si pongono all’origine del successo e del dominio incontrastato, aderitos exousia (XXXI 25. 6), di Roma. Il racconto riprende con il VII libro, per poi proseguire senza interruzioni di rilievo, a parte l’accesa polemica contro Timeo e gli storici precedenti, nel libro XII, e la digressione geografica sul mondo mediterraneo del libro XXXIV.


L’analisi storico - politica di Polibio riflette l’idea di chi, dopo aver militato nella Lega Achea, opera nel momento in cui il processo storico ellenistico può dirsi compiuto. È inevitabile per lo storico porre l’attenzione su Roma che, dopo la battaglia di Pidna, ha chiaramente mostrato la portata della sua potenza. Polibio vuole offrire al lettore strumenti di giudizio validi per comprendere se il dominio romano sia preferibile a quello ellenistico. Il giudizio dello storico, infatti, sembra non essere più sufficiente. Le Storie nascono dal desiderio di comprendere e spiegare i processi che stanno alla base dell’imperialismo e del dominio universale dell’Urbe.

 

In questa ottica, scopo della historia è il conseguimento dell’utile (I 35. 9 - 10): «Chi dunque abbia questa consapevolezza deve ritenere che la migliore educazione per conoscere le vere ragioni della vita è l’esperienza derivante dalla storia pragmatica: questa sola, infatti, in ogni tempo e in ogni circostanza, ci rende giudici veritieri di quello che è il partito migliore, evitandoci ogni danno». Polibio individua varie possibilità di impianto per la narrazione storiografica. Alla fine, la prospettiva scelta è universale e pragmatica: le storie particolari, infatti, non agevolano la comprensione dei meccanismi generali della storia; quelle universali, invece, consentono di ricavare l’utile e il dilettevole (IX 2).

 

Sul filo di questa direttrice, sceglie come punto di partenza la battaglia di Pidna, nella quale «i Romani, infatti, avendo sconfitto i Cartaginesi e ritenendo di aver compiuto la parte maggiore e decisiva del loro disegno di dominio universale, così sempre allora, per la prima volta, osarono stendere le mani sulle restanti parti del mondo e passare con l’esercito in Grecia e in Asia» (I 3. 5). D’altra parte, Polibio è ben consapevole del fatto che l’orizzonte di Roma è ormai mediterraneo e che, più in generale, la storia ellenistica non è né storia greca né romana: è storia mediterranea. Proprio per queste ragioni, si propone di seguire gli sviluppi degli eventi in Asia, Grecia, Italia e Libia, i tre scacchieri mondiali necessari per fornire una visione organica della storia (I 3. 4): «Nelle epoche precedenti a questa, dunque, avveniva che gli eventi del mondo fossero per così dire dispersi, per il fatto che ciascuna delle azioni compiute differiva sia negli inizi, sia nelle conclusioni, sia, allo stesso modo, nei luoghi. A partire da questo periodo la storia si presenta come «un tutto organico» e «gli avvenimenti d’Italia e d’Africa s’intrecciano con quelli d’Asia e di Grecia, in reciproci rapporti che tendono tutti a un solo fine» (I 3. 4 - 5). Ben si comprende così il ruolo di assoluta centralità della politeia, dell’ordinamento costituzionale, nel processo di conquista del potere.


L’analisi dell’ordinamento politico e militare dello stato romano del VI libro risponde all’interrogativo che Polibio pone all’inizio delle Storie: «come e grazie a quale regime politico, politeia» Roma sia riuscita a conquistare rapidamente un dominio così esteso. E tale analisi è condotta attraverso gli strumenti propri del pensiero politico greco. Una chiara testimonianza in tal senso giunge dalla teoria dell’anakyklosis (VI. 3 - 9), ossia dell’andamento ciclico delle costituzioni secondo un ordine naturale, katà physin, biologico.

 

La riflessione sull’ascesa di Roma e sul conseguente declino della Grecia diviene confronto, synkrisis, tra politeiai differenti, ossia basileia, aristokratía e demokratía: «Si deve dunque ritenere che esistano sei forme di governo, e cioè le tre che tutti ammettono e che abbiamo enumerato, e tre affini a queste, cioè la tirannide, l’oligarchia, l’oclocrazia. Spontaneamente e naturalmente sorge prima di ogni altra forma la monarchia, dalla quale deriva, in seguito alle opportune correzioni e trasformazioni, il regno. Quando questo incorre nei difetti che sono ad esso connaturati e si trasforma in tirannide, viene abolito e subentra al suo posto l’aristocrazia.

 

Quando, secondo un processo naturale, essa degenera in oligarchia e il popolo punisce indignato l’ingiustizia e violenze, col passare del tempo si costituisce l’oclocrazia. La verità di questa mia affermazione appare chiara a chiunque consideri la nascita, lo sviluppo, la decadenza naturale di ognuna di queste forme; soltanto chi avrà considerato analiticamente l’origine di esse, potrà comprenderne lo sviluppo, la fioritura, la decadenza, la fine e rendersi conto di quando, come e dove ciascuna di esse andrà a terminare. Ho ritenuto che la forma di esposizione prescelta fosse particolarmente adatta allo studio della costituzione romana, perché la prima origine di questa, come successivamente il suo sviluppo e la sua fioritura furono dovuti esclusivamente a cause naturali». Peraltro, la conoscenza del principio dell’anaciclosi risulta necessaria, dal momento che, solo considerando tutto ciò, «chi vuol giudicare della futura sorte dei governi potrà sbagliare nel computo del tempo, ma ben raramente ingannarsi sul procedimento dello sviluppo e della decadenza di ogni singola forma e della loro successione, purché esprima il suo giudizio senza ira e invidia. Secondo questo criterio, passeremo a considerare l’origine, lo sviluppo, la fioritura dello stato romano e quindi la sua inevitabile decadenza: come infatti ogni altro stato, come ho appena detto, subisce questo ciclo, così anche quello romano, che ha avuto una origine e uno sviluppo». Nell’immagine di Polibio, la costituzione mista di Roma, per quanto complessa, si configura come la migliore forma di governo, in quanto «comprende le caratteristiche di tutte e tre le forme sopra elencate» (VI 4. 6). In particolare, «tre erano gli organi dello Stato che si spartivano l’autorità; il loro potere era così ben diviso e distribuito, che neppure i Romani avrebbero potuto dire con sicurezza se il loro governo fosse nel complesso aristocratico, democratico o monarchico.

 

Né è il caso di meravigliarsene, perché considerando il potere dei consoli, si sarebbe detto lo Stato romano di forma monarchica, valutando quello del senato lo si sarebbe detto aristocratico; se qualcuno, infine, avesse considerato l’autorità del popolo, senz’altro avrebbe definito lo Stato romano democratico». Di qui le riflessioni (VI 18. 1 - 2): «I singoli organi del governo possono dunque danneggiarsi a vicenda o collaborare fra loro; il rapporto fra le diverse autorità è così ben congegnato, che non è possibile trovare una costituzione migliore di quella romana. Ne segue che i Romani sono insuperabili e la loro costituzione è perfetta sotto tutti i riguardi. Ciascuno si tiene nei limiti prescritti o perché non riesce ad attuare i suoi piani o perché fin da principio teme il controllo degli altri».

 

E, in questo contesto, la religione popolare svolge un ruolo di mantenimento dell’equilibrio e dell’ordine sociale: è una forma di controllo della moralità pubblica. In sintesi, per Polibio il principale motivo del successo di Roma è rappresentato dalla costituzione mista, indispensabile presupposto per il conseguimento della concordia necessaria alla difesa e all’espansione dello stato. Di contro, la decadenza della Grecia è riconducibile al particolarismo della vita politica. Si apre a questo punto la riflessione sulla democrazia ateniese che, sulla scia dei giudizi di Platone, è vista come eccesso di libertà, frutto degli istinti del popolo. Democrazia non è quel sistema politico nel quale «la massa, plethos, è padrona di fare tutto quello che vuole e ha in animo di fare» (VI 4. 4).

 

Infatti, quando il demos si impadronisce del potere l’ordinamento che ne deriva assume il nome di libertà e di democrazia, ma è il peggiore dei regimi: è oclocrazia. In questa ottica, il popolo ateniese è paragonabile a una nave senza nocchiero, in grado di superare gli ostacoli solo se in esso regna la concordia (VI 42). Per concludere, le costituzioni di Tebe e di Atene vanno condannate, perché «non si sono sviluppate razionalmente né la loro acme è stata duratura né si sono modificate radicalmente» (VI 43. 2). Al contrario, nella vera democrazia l’opinione della massa, plethos, è limitata dalla venerazione per gli dèi, dal rispetto per genitori e anziani, dall’osservanza della legge. Polibio non è avverso alla democrazia in sé, ma alla democrazia ateniese in particolare, in quanto pura e semplice oclocrazia. Lo storico, infatti, non giunge mai a mettere in discussione la democrazia della Lega Achea, qualificata come vera e autentica, per distinguerla da quella di Atene. Ma c’è di più. Polibio idealizza la concertazione fra le città della lega: si tratta di un’organizzazione basata non semplicemente su rapporti di alleanza, amicizia e sulla condivisione delle istituzioni, ma soprattutto su uguaglianza e libertà di parola. È inevitabile non scorgere dietro queste riflessioni un forte sentimento patriottico.


Dopo aver esaltato la demokratía della Lega Achea, Polibio si sofferma sul regime dei basileis ellenistici, mettendone in luce il dispotismo e la scarsa prodigalità. Inoltre, individua nella convenienza il meccanismo alla base delle alleanze fra re ellenistici. Nel riportare il celebre dibattito, avvenuto in senato a Roma nel 189 a.C. tra gli ambasciatori di Rodi e il re Eumene II sullo statuto da assegnare alle città greche d’Asia in seguito alla pace di Apamea, Polibio afferma che «per natura ogni monarchia è ostile al regime di uguaglianza e fa in modo che tutti, o almeno quanti più possibile, le siano sudditi e le obbediscano». Nelle Storie numerose aspre critiche sono riservate a Filippo V, il peggiore dei sovrani, e a Prusia II di Bitinia, «ignobilmente servile nei confronti dei Romani, “un mezzo uomo”, vigliacco, effeminato, dissoluto e barbaro come un Sardanapalo, privo di qualunque istruzione» (XXX 18).

 

Si tratta di giudizi morali, ancor prima che storiografici. Il potere tirannico del basileus rappresenta il principale limite dei regni ellenistici. Di contro, la basileia autentica è basata non sul terrore, ma sulla gnome, sul giudizio ragionevole, ed è accolta spontaneamente dai sudditi.


Alla luce di queste considerazioni, è naturale chiedersi se Polibio possa considerarsi uno storico greco o romano. Polibio ha militato all’interno della Lega Achea, per cui non può non lodare l’ideale di democrazia proposto dai confederati in opposizione al dominio dispotico dei basileis ellenistici. E in tal senso rimane, prima di tutto, un acheo. Occorre comunque sottolineare che Polibio non giunge mai a mettere in discussione i principi dell’espansionismo romano. L’analisi delle costituzioni del VI libro delle Storie diviene per lui esaltazione nostalgica della vera democrazia della lega, condanna del fallimento dei regni ellenistici, elogio della costituzione mista di Roma. Potremmo parlare, sulla scia di Walbank, di posizione bifronte, orientata sia verso la Grecia sia verso Roma.

 

I giudizi di Polibio sono formulati quando ormai il mondo ellenistico è in declino e l’avvento di Roma appare conclusivo del processo storico dell’Ellenismo. Polibio stesso può essere considerato elemento di cerniera tra mondo greco e romano: ha compreso che Roma rappresenta, ormai, l’elemento unificante della storia antica.
 


Riferimenti bibliografici:


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