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N. 36 - Dicembre 2010 (LXVII)

UNA VITA IN CITTà
Poesia e società negli epigrammi di Marziale

di Miro Gabriele

 

[Marco Valerio Marziale è la sola “commedia umana” della letteratura latina e della società del I secolo dopo Cristo. La sua opera ed il suo stile (“basso”, dunque “comico”), sono destinati a registrare tale commedia: la vicenda quotidiana di poveri e ricchi nella folla della città, uomini e donne mossi da impulsi elementari verso il guadagno, il piacere ed anche, in misura minore, la virtù e l’onestà. Ognuno è colto nel suo angolo, un piccolo spazio del labirinto cittadino. È una rappresentazione gremita, talora frenetica, che mette in scena tutte le occasioni delle azioni, delle abitudini e dei comportamenti umani.


Marziale è il poeta erotico più famoso dell’antichità dopo Catullo, ma gli spetta il primato del più prolifico: il numero delle poesie d’amore contenute nei suoi quindici libri, gareggia solo con quello del grande deposito della poesia epigrammatica greca, l’Antologia Palatina. Le infinite sfaccettature dell’Eros, la registrazione minuziosa di desideri, manie, inclinazioni, costituisce una vera e propria indagine, ironica e acuta, sulle psicologie e sui costumi dei suoi contemporanei. La traccia della loro esistenza è una traccia senza schermo, ognuno di essi appare implicato senza difese, e diciamo pure senza falsi pudori e senza remore, ai propri nascosti, coltivatissimi vizi.


Marziale fu un autore di successo, i suoi libri di poesia ebbero grande diffusione, andavano per le mani di nobili e di popolani, fu lo scrittore più in voga del suo tempo. Ma la smania e soprattutto l’esigenza di produrre per un vasto pubblico versi salaci e divertenti ad ogni costo, lo costringono talvolta a sciorinare tutta una serie di mini epigrammi, da uno o due distici, che spesso non hanno che la tiepida verve di una barzelletta. Le variazioni sul tema però, il moltiplicarsi di gusti e di atteggiamenti registrati da questa marea di versi, si riflettono con straordinaria efficacia sul linguaggio. Anche Marziale, come Catullo, adopera una miscela di lingua popolare e di lingua letteraria e, senza tendere alla sintesi di stile e passione, punta soprattutto sull’effetto espressivo. Egli è capace di grandi invenzioni linguistiche, di variazioni, di doppi sensi, di angolature di verso in cui le immagini si incastrano con miracolosa agilità. L’unico che gli si possa accostare fra gli autori antichi per originalità dell’espressione erotica, è il solo Petronio.


Non gli si rende giustizia comunque leggendo soltanto le poesie erotiche, Marziale ha scritto altro. Egli non gode, purtroppo, di buona fama nella scuola per il suo linguaggio esplicito e realistico, quanto e forse più di quello di Catullo, e per l’affrettato e in parte ingiusto giudizio che su di lui fu espresso da Paratore nella sua Storia della letteratura latina. In realtà, a ben vedere, è il primo poeta urbano, interamente ed esclusivamente calato nella minuziosa realtà di una metropoli, e che dall’incessante muoversi di quella vita trae motivi di riflessione e di scrittura. Dal centro di quell’universo che era la Roma del I secolo dopo Cristo, la Roma degli imperatori Flavi, così simile per molti aspetti alle nostre città, Marziale racconta con accenti semplici ed efficaci, delle cose e della gente di tutti i giorni. Sono momenti di un’intera vita, più di trent’anni trascorsi nella capitale del mondo. Nei suoi infiniti meandri Marziale esplora tutti i sentieri dell’esistenza: affetti, amicizie, sesso, felicità, polemiche, drammi; tutto annota e tutto registra: aneddoti, fatti di cronaca, incontri, echi di conversazioni, perché tutto è vita, gioia e sconforto, mescolati in modo tale da non potersi più districare. Non stupisca l’accostamento, poesia dopo poesia, di teneri slanci e della più sfacciata sensualità. Noi apparteniamo ad un altro mondo, abbiamo creato un’infinità di divisioni. Gli antichi erano più liberi, l’accostamento non strideva, erano tutte manifestazioni di vita, testimonianze di pienezza dell’esistenza; che per essere piena ha bisogno di tutti i suoi aspetti, fisici e spirituali: perché ogni energia del mondo è sacra.


L’incessante vortice degli eventi, una vita già allora tanto veloce e frenetica al centro di un impero, sembrò a un certo punto venirgli a noia: intorno ai sessant’anni volle tornare al paese natale, in cerca di quella quiete che la città non sembrava più concedergli. Ma la vita calma e monotona della provincia spagnola non riuscì mai a cancellare il ricordo e il rimpianto della grande metropoli che aveva lasciato.


Molte analogie si potrebbero stabilire con un altro grande romano Gioacchino Belli, anche lui osservatore e cantore della propria realtà urbana. Anche lui sembra utilizzare lo stesso metodo, quello di collocare l’uno accanto all’altro una quantità di piccoli particolari, alcuni apparentemente di minima importanza e diversi fra loro, ma che veduti assieme compongono una vera e propria mappa del luogo in cui è vissuto. Per incontrare un altro poeta “cittadino”, un autore così in prima persona calato nella realtà del proprio luogo, dobbiamo giungere fino a Baudelaire, nella cui opera, a quei “Fiori del male” della metropoli parigina, si aggiunge per la prima volta il sentimento dell’alienazione e dell’angoscia, che affiancherà poi sempre ogni riflessione sulle società moderne.


Marziale è l’unico poeta antico che abbia saputo ritagliare nel microcosmo cittadino un po’ di spazio (oltre le maschere plautine e l’oraziano portavoce di una spicciola saggezza popolare) per qualche figura di schiavo, che di quella società costituiva, percentualmente, la maggioranza. Gli epigrammi dedicati a schiavi morti in giovane età, raggiungono sempre grande altezza di stile e di immagini, e qualche volta una limpida, commovente forza evocativa. Famosi quelli per le due bambine Canace ed Erotion (XI 91, V 34, V 37, X 61), e i versi scritti per la scomparsa dell’ affezionato segretario Demetrio (I 101).


Ne trascriviamo due dedicati ad Erotion, ed uno dedicato alla bimba Canace. Il nome di Erotion, verosimilmente figlia di schiavi di Marziale, significa in greco “Amorino”. I due nomi che compaiono invece all’inizio della prima poesia, Frontone e Flaccilla, sono da considerarsi quelli dei genitori del poeta.

V XXXIV
Hanc tibi, Fronto pater, genetrix Flaccilla, puellam
oscula commendo deliciasque meas,
parvola ne nigras horrescat Erotion umbras
oraque Tartarei prodigiosa canis.
Impletura fuit sextae modo frigora brumae,
vixisset totidem ni minus illa dies.
Inter tam veteres ludat lasciva patronos
et nomen blaeso garriat ore meum.
Mollia non rigidus caespes tegat ossa nec illi,
terra, gravis fueris: non fuit illa tibi.


V 34
A te padre Frontone, madre Flaccilla, questa
bambina affido, baci e tenerezza mia, piccina
che non abbia paura Erotion delle ombre nere
e del muso mostruoso del tartareo cane.
Avrebbe sentito appena il freddo del sesto inverno
se fosse vissuta ancora sei giorni.
Fra così antichi patroni giochi scherzando
e con la bocca incerta balbetti il mio nome.
Una dura zolla non copra le tenere ossa e per lei
terra, non essere pesante: lei non lo fu per te.

X LXI

Hic festinata requiescit Erotion umbra,
crimine quam fati sexta peremit hiems.
Quisquis eris nostri post me regnator agelli,
Manibus exiguis annua iusta dato:
sic lare perpetuo, sic turba sospite solus
flebilis in terra sit lapis iste tua.

X 61
Qui riposa Erotion frettolosa ombra,
per crimine del fato il sesto inverno l’ha disfatta.
Chiunque sarai dopo di me padrone del mio campicello,
ai piccoli Mani dà il giusto tributo ogni anno:
così col focolare eterno, con la tua gente al sicuro
solo questa pietra sia da piangere nella terra tua.


XI XCI
Aeolidos Canace iacet hoc tumulata sepulchro,
ultima cui parvae septima venit hiems.
"A scelus, a facinus!" Properas qui flere, viator,
non licet hic vitae de brevitate queri:
tristius est leto leti genus: horrida vultus
abstulit et tenero sedit in ore lues,
ipsaque crudeles ederunt oscula morbi
nec data sunt nigris tota labella rogis.
Si tam praecipiti fuerant ventura volatu,
debuerant alia fata venire via.
Sed mors vocis iter properavit cludere blandae,
ne posset duras flectere lingua deas.


XI 91
Canace figlia di Eolide giace, tumulata in questo sepolcro,
piccola, il settimo, ultimo inverno è giunto per lei.
Ah delitto, disgrazia! Tu che t’affretti a piangere, passante,
qui non è permesso lamentarsi della vita breve:
il modo in cui è morta è più triste della morte: un’orrida
cancrena ha tolto il viso, si è insediata nella bocca tenera,
i baci stessi ha divorato la malattia crudele,
e le labbra non sono state date intere al nero rogo.
Se con volo tanto rapido è arrivato,
per altra via doveva giungere il destino.
Ma la morte ha chiuso in fretta il viaggio della dolce voce,
perché la lingua non potesse piegare le dee spietate.

C’è inoltre un’originale freschezza in certe descrizioni di paesaggi di campagna, dove mostra una sottile sensibilità e uno sguardo in possesso di una visione “panoramica” assai attuale; ricordiamo gli epigrammi sulla tenuta di Faustino a Baia, sulla villa di Cesare in Spagna e su quella di Giulio Marziale sul Gianicolo. Ogni volta che affronta temi che sente particolarmente vicini, quali l’amicizia, la precarietà dell’esistenza, l’aspirazione a un vivere semplice e tranquillo, ogni volta cioè che percorre l’elegia, nei suoi versi brilla una luce che supera il quotidiano, e che va oltre.

Marziale ebbe piena coscienza del rapporto stretto che intercorre fra scrittore e lettore, ben consapevole del ruolo del pubblico a cui si rivolgeva, e ai cui gusti fu discretamente sensibile, pubblico nel suo caso addirittura internazionale poiché era molto conosciuto, e veniva letto in ogni provincia dell’impero. Capì, con sorprendente modernità, come al di là delle valutazioni degli addetti ai lavori, degli intellettuali, la diffusione di un’opera letteraria, la sua frequenza nelle mani dei lettori, costituisca uno dei segni principali della propria esistenza espressiva

III IX
Versiculos in me narratur scribere Cinna:
non scribit, cuius carmina nemo legit.


III 9
Versetti si dice che Cinna scriva contro di me,
non scrive, chi non ha lettori delle sue poesie.


IX (extra ordinem)
'Ille ego sum nulli nugarum laude secundus
quem non miraris, sed - puto -, lector, amas.
Maiores maiora sonent: mihi parva locuto
sufficit in vestras saepe redire manus’.


IX (extra ordinem)
Io sono quello secondo a nessuno per gloria di poesiole,
quello che non ammiri, ma credo, lettore, che ami.
Cantino i più grandi cose più grandi: a me che di piccole
cose ho parlato, basta tornare spesso nelle vostre mani.



Egli arriva a considerare il pubblico dei suoi lettori come l’unica ricchezza posseduta, e reale motivo di gloria: “Lector opes nostrae, quem mihi cum Roma dedisset/ - Nil tibi cum demus maius habemus - ait.”; “Lettore mia ricchezza, quando Roma ti ha dato a me/ - Niente di più grande, disse, abbiamo da darti -” (X 2). Tramite le sue parole veniamo a conoscere i best seller dell’epoca, che erano, oltre a Virgilio sempre ininterrottamente letto, la Pharsalia di Lucano e, ce lo riferisce con una punta di legittimo orgoglio, i suoi libri di epigrammi.


Descrittore dei costumi della sua città, Marziale forse non ha il dono della grande metafora, della visionarietà, di uno sguardo sintetico come quello del suo amico Giovenale. La sua è un’analisi esterna della società, un’indagine sugli atteggiamenti più che sulle intenzioni, un’indagine che a volte esaspera la realtà fino a sfiorare la cattiveria, ma in fondo vicina come poche altre ai suoi personaggi. A differenza dei “veri” satirici, egli si pone su un piano più umano, compatetico: “Hominem pagina nostra sapit”; “La mia pagina sa di uomo”, il suo simile, canzonato o sbeffeggiato ma mai rifiutato, riempie, quasi con la sua impronta fisica, l’intero spazio del verso. È uno scrittore satirico più di fatto che intenzionalmente. Molte volte lui stesso si racconta come uno dei suoi personaggi, mettendo a nudo, senza alcuna vergogna, i propri comportamenti più intimi.


Marziale scende fino alla miriade di particolari della vita d’ogni giorno, alcuni quasi impercettibili, ma sempre motivi di rapide immagini e rivelatori di tendenze, di manie, di piccole deviazioni, non considerandole quali aspetti di un comune malessere (non collegandole al disgregarsi della società tradizionale, o all’avanzata di nuovi ceti senza scrupoli e di nuovi modelli di vita), ma vivisezionandole nelle manifestazioni individuali più segrete e più nascoste, incarnando così il ruolo del prezioso testimone e dell’osservatore imparziale. Il verso di Marziale è un verso inconfondibile, non può essere confuso con quello di nessun altro: multiforme, ironico, affollato, piacevolmente spigoloso talvolta, ricco di voci, odori, gesti, sguardi, dell’intera vita di un’epoca e di una città, e dove ogni parola è segno di brevi esistenze, di piccole, quotidiane visioni, così affettuosamente frammentarie e personali.


 

 

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