N. 40 - Aprile 2011
(LXXI)
morte di Cicerone in Plutarco
L’ultimo viaggio del Padre della patria in difesa della libertas
di Paola Scollo
Cicerone
può
essere
definito
a
tutti
gli
effetti
homo
novus:
di
famiglia
equestre
diviene
uno
dei
personaggi
più
celebri
del
suo
tempo,
l’epoca
della
tarda
repubblica.
Console
nel
63
a.C.
riesce
a
salvare
Roma
dalla
terribile
minaccia
della
congiura
di
Catilina,
ottenendo
l’appellativo
di
Padre
della
patria.
Eppure,
paradossalmente,
i
successi
politici
segnano
l’inizio
del
suo
declino.
La
condanna
all’esilio
e
l’allontanamento
dall’Urbe
non
sono
che
i
primi
segnali
di
un
percorso
in
discesa
che,
attraverso
la
perdita
di
entusiasmi
e
certezze
e un
ultimo
effimero
barlume
di
speranza,
conduce
Cicerone
verso
la
sconfitta
definitiva.
Ricostruire
gli
ultimi
convulsi
anni
di
vita
di
Cicerone
è
impresa
ardua.
Le
fonti
sono
quasi
inesistenti.
Pur
non
segnando
la
fine
della
sua
carriera
politica,
la
grave
crisi,
che
consegna
Roma
nelle
mani
di
Cesare,
costringe
Cicerone
a un
temporaneo
allontanamento
dalla
scena
politica.
Di
conseguenza,
si
riducono
i
suoi
interventi
pubblici
e la
corrispondenza
si
interrompe
bruscamente.
E
ciò
è
per
noi
motivo
di
forte
rammarico
perché
l’epistolario
ciceroniano,
oltre
a
testimoniare
un’esistenza
ricca
di
incontri
e di
relazioni,
svela
tormenti
e
sofferenze
interiori,
fragilità
e
umane
debolezze.
Alla
luce
di
ciò,
non
resta
che
affidarsi
alle
testimonianze
indirette.
I
principali
testimoni
sono
gli
storici
greci
d’età
romana,
ovvero
Plutarco,
Appiano
e
Cassio
Dione,
che
su
Cicerone
hanno
espresso
giudizi
alquanto
severi.
La
coppia
Demostene-
Cicerone
occupa
il
quinto
posto
delle
Vite
Parallele
di
Plutarco.
Gli
eventi
che
conducono
alla
morte
di
Cicerone
sono
narrati
nei
quattro
capitoli
conclusivi
(XLVI
-
XLIX)
della
biografia
(bios).
Plutarco
tenta
qui
di
ripercorrere
le
ultime
fasi
delle
vita
dell’oratore,
cercando
di
mettere
in
luce
le
ragioni
della
condanna
a
morte.
E
tali
ragioni
vanno
senz’altro
ricondotte
all’atteggiamento
di
Cicerone
nei
confronti
dei
protagonisti
della
scena
politica
di
Roma
in
seguito
alla
morte
di
Cesare:
Antonio
e
Ottaviano.
Stando
alle
parole
di
Plutarco,
Cicerone
in
un
primo
momento
aveva
scelto
di
appoggiare
la
politica
di
Ottaviano,
garantendogli
l’appoggio
del
Senato.
D’altra
parte,
lo
stesso
Cicerone,
in
una
delle
ultime
lettere
indirizzate
a
Bruto,
ammetteva
di
nutrire
la
speranza
di
«trattenere»
Ottaviano,
malgrado
«l’opposizione
da
parte
di
molti».
Con
ogni
probabilità
si
trattava
di
una
scelta
obbligata:
Ottaviano
doveva
rappresentare
l’unica
alternativa
ad
Antonio,
l’unico
personaggio
in
grado
di
difendere
la
causa
della
res
publica.
Ovviamente,
tale
speranza
era
destinata
al
fallimento
poiché
il
giovane,
già
da
qualche
tempo,
si
era
orientato
verso
Antonio
e
Lepido.
Ma
Cicerone
non
sembra
esserne
consapevole.
Nel
giugno
del
43 i
progetti
di
Ottaviano
sul
consolato
furono
manifesti.
Approfittando
della
morte
a
Modena
dei
consoli
Irzio
e
Pansa,
Ottaviano
avanzò
pretese
sulla
magistratura.
Alle
opposizioni
del
senato,
rispose
con
una
marcia
su
Roma.
Alla
fine,
venne
eletto
console
il
19
agosto
insieme
allo
zio
Quinto
Pedio.
E
dinanzi
a
Cicerone
si
spalancò
il
baratro.
Secondo
alcune
testimonianze,
giunse
persino
a
rinnegare
le
Filippiche.
Anche
se
ciò
non
dovesse
corrispondere
al
vero,
è
fuor
di
dubbio
in
quale
stato
d’animo
dovesse
trovarsi:
abbandonò
Roma,
cercando
rifugio
nelle
sue
proprietà.
Nel
frattempo,
Ottaviano
aveva
aperto
trattative
con
Antonio
e
Lepido,
facendo
prestare
giuramento
ai
veterani
di
Cesare.
I
colloqui
si
svolsero
alla
fine
di
ottobre
del
43
sul
fiume
Lavinius,
forse
identificabile
con
il
Reno,
presso
Bologna,
su
una
piccola
isola
fluviale.
La
conferenza,
svoltasi
dinanzi
a
tutto
l’esercito,
durò
tre
giorni.
Qui
furono
poste
le
basi
dell’accordo
che
più
tardi
ricevette
il
nome
di
Secondo
triumvirato.
I
triumviri
avrebbero
detenuto
per
cinque
anni
l’imperium
proconsulare
senza
limiti,
con
facoltà
di
nominare
i
magistrati,
compresi
i
consoli.
Plutarco,
nel
suo
racconto,
insiste
soprattutto
sulla
spartizione
del
potere
come
se
si
trattasse
di
un
possedimento
privato
(ktema),
non
precisando
i
contenuti
dell’accordo.
Ecco
come
descrive
la
situazione
(XLVI
2 -
3):
«il
giovane,
infatti,
divenuto
potente,
una
volta
che
ebbe
ottenuto
il
consolato,
voltò
le
spalle
a
Cicerone
e
divenne
amico
di
Antonio
e
Lepido
con
i
quali
unì
le
sue
forze
per
poi
dividere
con
loro
il
potere
supremo
quasi
fosse
un
possedimento
personale».
A
Ottaviano
furono
assegnate
le
province
di
Sicilia,
Sardegna,
Corsica
e
Africa;
ad
Antonio
la
Gallia
Cisalpina
e la
Gallia
Transalpina;
a
Lepido
la
Narbonense
e le
Hispaniae.
Gli
accordi
furono
tradotti
in
legge
con
la
lex
Titia
il
27
novembre
del
43.
In
seguito,
si
prepararono
liste
di
proscrizione,
ossia
elenchi
di
persone
condannate
a
morte
con
la
confisca
di
tutti
i
beni.
A
tal
proposito,
Plutarco
riferisce
di
un’accesa
discussione
sulle
persone
da
mandare
a
morte:
ciascun
triumviro,
infatti,
tentava
di
eliminare
i
propri
avversari
e di
salvare
i
propri
seguaci.
Alla
fine,
Antonio
scelse
di
sacrificare
Lucio
Cesare,
zio
da
parte
di
madre,
mentre
Lepido
suo
fratello
Paolo.
Pur
non
avendo
fatto
includere
nelle
liste
di
proscrizione
nessuno
dei
suoi
parenti,
Ottaviano
dovette
cedere
alle
pressioni
di
Antonio,
sacrificando
il
suo
ex
alleato
ed
amico
Cicerone.
Con
ogni
probabilità
Plutarco
qui
segue
una
versione
filoaugustea,
in
quanto
sostiene
che
Ottaviano
si
sforzò
fino
all’ultimo
per
salvare
Cicerone
(XLVI
5):
«si
dice
che
Ottaviano
abbia
sostenuto
le
difese
di
Cicerone
per
due
giorni
ed
al
terzo
si
sia
dichiarato
vinto
ed
abbia
lasciato
in
balia
della
sorte
l’oratore».
Proseguendo
nel
suo
racconto,
Plutarco
narra
che
Cicerone
fu
informato
delle
proscrizioni
a
Tusculo,
dove
era
fuggito,
insieme
al
fratello
Quinto,
quando
Pedio
aveva
ricevuto
dai
triumviri
l’incarico
di
uccidere
17
individui.
I
due
fratelli
decisero
di
trasferirsi
ad
Astura,
dove
Cicerone
aveva
un
possedimento
sulla
riva
del
mare.
Da
lì
avrebbero
navigato
verso
la
Macedonia
per
raggiungere
Bruto.
«Sfiniti
per
la
trepidazione
erano
portati
in
lettiga
e,
di
tanto
in
tanto,
lungo
la
strada,
si
fermavano
e,
collocate
le
lettighe
fianco
a
fianco,
si
scambiavano
le
loro
tristi
impressioni».
Con
queste
parole
si
apre
la
descrizione
della
fuga
di
Cicerone
e
Quinto
nella
Vita
di
Cicerone
di
Plutarco.
È
impossibile
non
scorgere
in
queste
parole
un’insistenza
sulla
penosa
condizione
dei
fuggitivi.
È
come
se
Plutarco
volesse
suscitare
sentimenti
di
commossa
e
intensa
partecipazione
al
dramma
interiore
di
chi
tenta
di
sottrarsi
al
destino
avverso.
Una
volta
raggiunta
Astura,
i
due
fratelli
scelsero
di
dividersi:
Cicerone
sarebbe
fuggito
per
primo,
mentre
Quinto
sarebbe
tornato
a
casa
per
recuperare
tutto
il
necessario
per
il
viaggio.
Ma a
Roma
Quinto
trovò
la
morte
insieme
al
figlio,
per
il
tradimento
di
un
suo
liberto.
Interessante
è a
tal
proposito
il
racconto
di
Appiano
(IV
20.83):
«Quinto,
fratello
dell’oratore,
arrestato
con
il
figlio,
chiese
ai
sicari
di
ucciderlo
prima
del
ragazzo,
il
quale
a
sua
volta
formulava
la
stessa
richiesta.
I
soldati
dissero
ad
entrambi
che
avrebbero
risolto
il
loro
problema
e,
divisisi
in
due
gruppi,
li
uccisero
contemporaneamente
ad
un
solo
segnale».
Nel
frattempo,
approfittando
dei
venti
favorevoli,
Cicerone
navigò
lungo
la
costa
del
Circeo.
Nonostante
le
esortazioni
dei
marinai,
l’oratore,
sia
per
timore
del
mare
sia
perché
non
aveva
ancora
perduto
la
speranza
nella
fedeltà
di
Ottaviano,
preferì
sbarcare
e
percorrere
a
piedi
un
centinaio
di
stadi
in
direzione
di
Roma.
Durante
il
tragitto
era
tormentato
da
dubbi:
come
se
un
legame
sottile
e
profondo
lo
tenesse
unito
all’Italia,
impedendogli
di
partire.
Alla
fine,
scelse
di
fare
ritorno
ad
Astura,
dove
trascorse
la
notte.
Si
trattava
di
una
decisione
sofferta,
raggiunta
dopo
molte
esitazioni:
offrire
la
propria
esistenza
in
nome
della
salvezza
della
patria.
Immaginò
di
penetrare
di
nascosto
nella
casa
di
Ottaviano
e di
uccidersi
presso
il
focolare
domestico,
in
modo
da
suscitare
lo
spirito
della
vendetta
contro
il
traditore.
«Dopo
molti
pensieri
turbinosi
e
contraddittori»,
il
mattino
seguente
ordinò
ai
servi
di
condurlo
per
mare
a
Gaeta.
Una
volta
sbarcato,
Cicerone
venne
condotto
in
lettiga
nella
sua
villa
di
Formia.
A
questo
punto,
Plutarco
narra
che
un
corvo,
posatosi
sul
giaciglio
di
Cicerone,
sollevò
col
becco
un
lembo
della
coperta,
scoprendone
il
volto.
Di
fronte
al
manifesto
presagio
di
morte,
i
servi
cominciarono
a
imprecare
contro
la
sorte
del
loro
padrone,
che
non
difendevano,
«mentre
anche
le
bestie
gli
venivano
in
aiuto
e si
prendevano
cura
di
lui»
(XLVII
10).
Intanto,
nei
dintorni
di
Formia
sopraggiunsero
gli
uomini
di
Antonio,
capeggiati
dal
centurione
Erennio
e
dal
tribuno
militare
Popillio.
Si
trattava,
secondo
il
racconto
di
Plutarco,
dello
stesso
Popillio
che
Cicerone
aveva
difeso
con
successo
in
un
processo
per
parricidio
(XLVIII
2).
In
breve
tempo
gli
schiavi
condussero
Cicerone
su
una
lettiga
lungo
sentieri
solitari,
attraverso
la
boscaglia,
in
direzione
del
mare.
I
soldati
fecero
irruzione
nella
proprietà
di
Cicerone,
senza
trovarlo.
Allora,
un
«giovinetto,
liberalmente
allevato
ed
educato
da
Cicerone,
liberto
del
fratello
di
lui
Quinto,
di
nome
Filologo»
indicò
al
tribuno
la
strada
da
percorrere.
Cicerone
ordinò
ai
servi
di
fermare
la
lettiga.
E
«secondo
il
suo
solito,
toccandosi
con
la
sinistra
la
guancia,
stava
con
gli
occhi
fissi
sui
sicari,
con
i
capelli
scomposti,
con
lo
sguardo
disfatto
dai
pensieri,
con
una
espressione
tale
che
i
più
si
coprirono
gli
occhi
mentre
Erennio
lo
colpiva».
E il
corpo
mortale
fu
inferto
nel
collo
proteso
fuori
dalla
lettiga.
Le
parole
di
Plutarco
squarciano,
ad
un
tratto,
le
ombre
che
avvolgevano
la
personalità
di
Cicerone.
Emerge
l’immagine
di
un
uomo
che
va
incontro
al
suo
destino,
pur
mostrando
evidenti
fragilità
e
debolezze.
E il
destino
di
Cicerone
assume
le
sembianze
di
Erennio,
secondo
la
narrazione
di
Plutarco.
A
dire
il
vero,
di
questo
personaggio
le
altre
fonti
non
parlano.
Secondo
Livio
(per.
CXX),
Cicerone
venne
ucciso
da
Popillio,
originario
del
Piceno,
liberto
o
figlio
di
un
liberto.
Questa
testimonianza
trova
conferma
anche
in
Seneca
(Controv.
VII
2.8):
Popillium
interfectorem
Ciceronis.
Secondo
Valerio
Massimo
(V
3.
4),
Popilio
Lenate
della
regione
picena
chiese
di
sua
iniziativa
ad
Antonio
che
Cicerone
venisse
bandito
e
ucciso,
ottenendo
peraltro
questo
detestabile
incarico.
Esultante
per
la
gioia
del
compito
ricevuto,
Popilio
corse
a
Gaeta
e,
dopo
aver
imposto
a
Cicerone
di
protendere
il
collo,
recise
il
capo
dell’eloquenza
romana
(caput
Romanae
eloquentiae)
e
quella
mano
destra
davvero
illustre,
che
aveva
assicurato
lunga
e
tranquilla
pace
(pacis
clarissimam
dexteram
per
summum
et
securum
otium)».
Secondo
Appiano
(IV
20.77
-
80),
«Lenate,
che
una
volta,
in
un
processo,
se
l’era
cavata
proprio
per
l’intervento
di
Cicerone,
tirò
la
testa
fuori
della
lettiga
e la
staccò
con
tre
colpi,
maciullando
le
ossa
per
imperizia.
In
seguito,
tagliò
anche
la
mano
con
la
quale
l’oratore
aveva
intitolato
Filippiche,
come
i
discorsi
di
Demostene,
i
suoi
discorsi
contro
Antonio
presentato
come
tiranno».
Un
colpo
di
spada
recise
dunque
il
capo
del
Padre
della
Patria,
del
simbolo
della
romanità
stessa.
Un
colpo
di
spada
inferto
proprio
da
chi
Cicerone
un
tempo
aveva
difeso
con
successo
dalle
accuse
di
parricidio.
L’uccisione
avvenne
il 7
dicembre
secondo
la
testimonianza
di
Tirone
contenuta
nel
Dialogus
de
oratoribus
di
Tacito
(XVII
2).
Secondo
Plutarco,
Cicerone
aveva
64
anni
(XLVIII
6);
secondo
Livio
(in
Sen.,
Suas.
VI
22 -
23),
ne
aveva
63.
Plutarco
riferisce
poi
che,
su
ordine
di
Antonio,
vennero
tagliate
«la
testa
e le
mani
con
cui
aveva
scritto
le
Filippiche»
(XLIX
6).
Livio
(per.
CXX)
narra
che
la
testa
di
Cicerone
venne
esposta
sui
rostri
insieme
alla
mano
destra.
Cassio
Dione
(XLVII
8.4)
fa
riferimento
alla
testa
e
alla
mano
destra.
Appiano
(IV
20.77)
dice
che
venne
tagliata
soltanto
la
mano
destra.
Inoltre,
in
Plutarco
non
c’è
alcun
riferimento
al
compenso
dell’uccisore.
Appiano,
invece,
narra
che
Antonio
premiò
il
centurione
con
una
corona
e
con
un
donativo
di
250.000
dramme
attiche
(IV
20.79):
«Antonio
ne
provò
una
soddisfazione
grandissima,
premiò
il
centurione
con
una
corona
e
gli
attribuì,
oltre
la
ricompensa
convenuta,
un
donativo
di
duecentocinquanta
mila
dramme
attiche
perché
gli
aveva
ucciso
il
nemico
più
grande
e
pericoloso».
Cassio
Dione
(XLVII
11.2)
spiega
che
all’uccisore
venne
dato
più
di
quanto
era
stato
pattuito.
Il
racconto
di
Plutarco
procede
con
la
notizia
secondo
cui
la
testa
e le
mani
di
Cicerone
vennero
condotte
a
Roma
ad
Antonio,
intento
a
presiedere
un’assemblea
per
l’elezione
di
alcuni
magistrati.
Dopo
aver
avuto
conferma
della
morte
di
Cicerone,
Antonio
annunciò
la
fine
delle
proscrizioni.
In
seguito,
ordinò
di
esporre
testa
e
mani
di
Cicerone
sui
rostri
che
si
trovavano
sulla
tribuna
degli
oratori:
«uno
spettacolo
raccapricciante
per
i
Romani,
i
quali
credettero
di
vedere
in
quei
tratti
non
il
volto
di
Cicerone,
ma
l’immagine
dell’animo
di
Antonio».
Sono
queste
le
considerazioni
di
Plutarco.
Peraltro,
la
stessa
testimonianza
si
trova
anche
in
Seneca
(Suas.
VI
19)
e in
Velleio
Patercolo
(II
66.4).
Secondo
la
narrazione
di
Appiano,
Antonio
pose
la
testa
di
Cicerone
sulla
tavola
fino
che
fu
sazio
di
tale
orrenda
vista
(IV
20.77).
Fu
questa,
dunque,
secondo
Plutarco
la
fine
di
Marco
Tullio
Cicerone.
Una
fine
che,
paradossalmente,
ha
contribuito
a
perpetrarne
il
ricordo.
A
ulteriore
conferma
di
ciò,
Plutarco
conclude
la
Vita
di
Cicerone
con
un
racconto
di
carattere
edificante
di
cui
-per
sua
stessa
ammissione-
è
venuto
a
conoscenza.
Ottaviano,
ormai
anziano,
recatosi
a
far
visita
a un
nipote,
lo
trovò
con
un
libro
di
Cicerone
in
mano.
Subito,
il
ragazzo,
tremante
di
paura,
tentò
di
nasconderlo
sotto
la
veste.
Augusto
afferrò
il
libro
e,
stando
in
piedi,
ne
lesse
una
buona
parte.
Poi
lo
restituì
dicendo:
“Era
un
uomo
colto,
ragazzo
mio,
colto
e
amante
della
patria”.
A
distanza
di
anni,
Ottaviano
definì
quindi
Cicerone
loghios
e
philopatris.
Per
Plutarco,
Cicerone
era
vittima
di
Antonio,
non
di
Ottaviano.
A
pochi
anni
dalla
morte,
l’oratore
era
divenuto
il
martire
della
patria,
il
simbolo
della
libertas
e il
suo
ricordo
o,
piuttosto,
l’immagine
dell’anima
(eikon
psyches)
doveva
costituire
il
punto
di
partenza
per
la
damnatio
memoriae
di
Antonio.
In
realtà,
la
condanna
di
Antonio
era
già
stata
avviata
alla
fine
degli
anni
Trenta,
quando
Ottaviano
aveva
chiamato
come
suo
collega
al
consolato
il
figlio
di
Cicerone.
Alla
sua
morte
ad
Alessandria
nel
31
a.C.,
la
statua
di
Antonio
a
Roma
era
già
stata
divelta.
Di
conseguenza,
l’unica
soddisfazione
per
il
giovane
Cicerone
era
quella
di
annunciare
alla
città
la
morte
del
triumviro.