[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 155 / NOVEMBRE 2020 (CLXXXVI)


antica

L’ALTRO PLUTARCO

TRA FILOSOFIA, ANIMALI E ALIMENTAZIONE

di Andrea Murace

    

Nel corso dei secoli Plutarco di Cheronea (46-125 d.C. circa) ha costantemente rappresentato una fonte imprescindibile per comprendere la storia, tanto quella greca quanto quella romana. Autore di una serie infinita di scritti – si pensi che il cosiddetto Catalogo di Lampria, contenuto nel cod. Par. gr. 1678 della Biblioteca Nazionale di Francia e della cui autenticità si continua a discutere, ne enumera ben 227 –, è quasi sempre ricordato per la sua opera principale giunta sino a noi, le Vite parallele (Bíoi parálleloi).

 

Nelle 22 coppie di biografie – anche se una di esse risulta doppia –, nelle quattro singole e nei frammenti di altre ancora, si prendono in esame personaggi storici greci e romani (fa eccezione il persiano Artaserse II), per lo più tratti dalle rispettive età classiche e, al termine della narrazione, si istituisce un confronto, o synkrisis, tra i protagonisti.

 

È possibile ripercorrere la grandissima fortuna di Plutarco a partire dagli elogi rivoltigli da Aulo Gellio (“vir doctissimus ac prudentissimus”, in Noct. Act. I.26.4), passando per la sua estrema importanza nei cicli pittorici medievali e rinascimentali (uomini illustri e poi biografia dipinta) fino al XIX secolo, quando, nel 1847, lo troviamo menzionato nei primi versi dei Masnadieri di Verdi, su libretto di A. Maffei.

 

Ora, tuttavia, non sono le Vite che ci interessano. Com’è noto, il corpus plutarcheo comprende una seconda raccolta di opere, che sin dall’attività filologica di Planude (XIII-XIV secolo) va sotto il nome convenzionale di Moralia (Ethikà) per l’importanza assunta al suo interno dagli scritti di carattere morale, collocati in prima posizione, e per la ricorrente presenza di considerazioni filosofiche di natura pratica.

 

Spicca per i nostri propositi il trittico zoopsicologico, comprendente il De sollertia animalium (pp. 959 A-985 C secondo la numerazione standard dello Stephanus del 1599), il Bruta animalia ratione uti (pp. 985 D-992 E), impropriamente chiamato anche Gryllos, e il De esu carnium (pp. 993 A-999 B).

 

Nei Moralia, comunque, è possibile rintracciare l’interesse per gli animali e i loro comportamenti anche in altre sedi, segno che tali questioni rivestivano un certo interesse per l’autore. Nei tre scritti appena menzionati si discute di altrettanti argomenti, diversi tra loro, ma connessi dalla convinzione che sia possibile – se non doveroso – trattare gli animali in modo più ‘umano’ e riconoscere in essi quei legami di somiglianza, già individuati da Teofrasto qualche secolo prima, derivati dal continuum della vita e dal loro possesso di un’anima, la psyché.

 

Se nel primo opuscolo si legge di una conversazione tra cacciatori e pescatori, gli uni sostenitori della superiorità degli animali terricoli, gli altri di quelli acquatici, il Bruta animalia ratione uti cela, all’interno di una bizzarra cornice mitica, un acceso dialogo che fa risaltare i pro e i contro dell’essere uomini e fornisce i motivi della presunta superiorità animale, addotti dal maiale Gryllos contro le deboli pretese di Odisseo.

 

Quest’ultimo, a discapito della propria fama di facondo oratore, si sforza invano di convincere l’interlocutore (e il lettore) dell’intrinseca bontà della natura umana: Gryllos, un tempo uomo e poi trasformato da Circe, continuerà a preferire la condizione attuale e il suo atteggiamento sarà di spunto per molteplici opere di età moderna, tra le quali ci sembra significativo ricordare la sezione conclusiva del Cymbalum mundi di Bonaventure des Périers (XVI secolo).

 

Nella terza opera, il De esu carnium, troviamo un vero e proprio trattato etico-filosofico contro la creofagia. Plutarco, da esperto di retorica qual era, architetta in modo sapiente la struttura delle tre opere, inserendo non solo una quantità enorme di esempi, o paradéigmata, tratti dal mondo animale e ricavati soprattutto da Aristotele e Teofrasto, ma facendo continuamente riferimento a precetti filosofici orfici e pitagorici, pur non essendo un esponente di tali filosofie, verso cui, anzi, avanza spesso delle riserve.

 

Qui ci preme evidenziare come il Plutarco di questi tre opuscoli sia ben diverso dal biografo delle Vite, dove in ogni caso capita di trovare dei rapidi cenni sulle relazioni interspecifiche (per esempio si condanna la spilorceria, o mikrología, di Catone il Censore nei confronti degli schiavi anziani e degli animali da soma oramai inservibili).

 

Vediamo in azione, semmai, un Plutarco che icasticamente è stato definito “partigiano degli animali” (Li Causi 2018), al pari di altri scrittori di età imperiale come Claudio Eliano e Porfirio, quest’ultimo anche lui autore di un trattato sull’astensione dalla carne e dall’uccisione animale, il De abstinentia.

 

Il trittico zoopsicologico di cui ci stiamo occupando presenta una coerenza, tematica ed etica, che difficilmente può essergli negata. Il filo conduttore è da individuare, da una parte, nella ricognizione negli animali di uno specchio, talora deformante, talora più veritiero, di quel che il genere umano è nel suo intimo e, dall’altra, nella polemica antistoica che muove la discussione.

 

Gli Stoici, oltre a negare ogni possibile rapporto di giustizia con i bruta animalia, ritenuti incapaci e di intrattenere rapporti pacifici tra di loro e di ragionare compiutamente, sostenevano che ogni cosa esista in vista dell’uomo, che può e deve far uso di ciò che la terra produce e mostrarsi superiore agli altri viventi. Celebre la frase di Cleante di Asso (IV-III secolo a.C.), il successore di Zenone alla guida della Stoà, secondo cui al maiale sarebbe stata data l’anima unicamente per non farne marcire le carni, quasi fosse sale.

 

Possiamo notare come Plutarco si ponga nei confronti dell’animalità non tanto come naturalista, quanto come moralista: il suo discorso, in altre parole, non è finalizzato a descrizioni troppo particolareggiate dell’etologia e della fisiologia, che pure non mancano del tutto, quanto piuttosto all’analisi degli aspetti che permettono un avvicinamento tra l’elemento antropico e quello zoologico.

 

Da questo vivace confronto con gli altri esseri viventi sappiamo che ebbe origine una corrente di pensiero che, da Porfirio fino ai giorni nostri, ha proposto un’alternativa contrastante con quegli usi di tipo alimentare e comportamentale ritenuti connaturati all’uomo. Per tutta l’età moderna, fino ai movimenti più recenti, Plutarco è stato infatti considerato il campione delle istanze più moderate nei confronti degli animali non umani e, pur con le dovute cautele, un animalista ante litteram.

 

Proviamo adesso a ricapitolare brevemente le ragioni alla base della riflessione plutarchea. In primo luogo, l’alimentazione a base carnea presenta svantaggi sia per la salute del corpo sia per quella dello spirito; invece di ispirarsi all’esempio di Diogene di Sinope, che diede spettacolo cibandosi di un intero polpo crudo, sarebbe meglio, semmai, rifarsi al precetto pitagorico di evitare spargimenti di sangue, considerando gli eventuali pericoli derivati dalla metempsicosi (o, meglio, metensomatosi).

 

Il rischio, come si intuisce anche dall’epistola 108 di Seneca, è di mangiare un animale in cui risieda l’anima di un parente o di un amico. Questi cibi, inoltre, sono assolutamente contrari non solo alla conformazione fisica dell’uomo (assenza di artigli e zanne per cacciare e di succhi gastrici potenti per digerire grandi quantità di carne cruda), ma anche al gusto, altrimenti, ci si interroga, per quale ragione i cuochi si affannano a condire la carne con spezie e intingoli vari e non la lasciano, più semplicemente, cruda? Perché si rende necessario ingannare il gusto?

 

Sono tutti argomenti che per Plutarco dimostrano un’unica cosa, ossia che è la natura stessa dell’uomo a rigettare una simile condotta alimentare. Proseguendo su questa strada, l’uomo corre il rischio di trasgredire le regole del mondo naturale e di compiere un assiduo “insulto estetico” (Del Corno 2001), oltre che etico, dal momento che si rende necessario ammazzare e fare a pezzi esseri solitamente ammansiti e dotati di sensazioni o, per dirla in termini moderni e più generali, esseri forniti di status morale.

 

L’atto di rapire una vita, sacrificandola all’edonismo, è quindi condannato senza possibilità di appello e focalizza l’attenzione sulla violenza gratuita che a esso si accompagna. Al disprezzo della vita altrui appena menzionato fanno da pendant per primi quei servi che, sottoposti agli ordini dei ricchi, preparano le mense come fossero ‘‘acconciatori di cadaveri’’ (nekrokósmoi): Plutarco affonda il colpo parlando né più né meno di necrofagia.

 

Il diritto che l’uomo indebitamente si arroga di decidere della morte altrui è indice di una decadenza dei costumi e di una mancanza di compassione che sembrano avere una soluzione tutt’altro che facile: distruggere una vita equivale, in buona sostanza, a un atto di hybris.

 

È su questo nodo che si innesta il discorso emergente dal Bruta animalia e dal De sollertia animalium, in cui le differenze e le somiglianze tra animali e uomini derivano dal seguire o meno le norme dettate dalla natura. Soprattutto per le numerose affinità nei comportamenti e nei modi di comunicare, Plutarco sostiene che l’uomo abbia imparato diverse arti dagli animali e che, sì, è possibile instaurare nuovi rapporti con loro, purché li si accolga all’interno della sfera della philanthropía.

 

Si tratta di un passo in avanti molto importante, in quanto si oltrepassa una barriera finora considerata invalicabile soprattutto dai filosofi stoici. Attraverso questo sentimento (o forse meglio virtù?), normalmente tipico del gruppo umano, si riconoscono i conspecifici come parte della stessa famiglia biologica e giuridica.

 

Il nostro autore, difatti, ritiene che l’abitudine alla benevolenza, così come alla non-violenza, possa far intraprendere un percorso di perfezionamento finalizzato a relazionarsi in modo armonioso col circostante e a rifiutare quelle azioni feroci derivate dalla componente irrazionale-demoniaca dell’anima. A esiti simili arriva pure Claudio Eliano nei 17 libri del De natura animalium, in cui si compiace di riportare storie d’amicizia e d’amore nate tra uomini e animali, come quella tra un pescatore e una foca (III.19).

 

Giunti a questo punto si potrebbe facilmente concludere che Plutarco fosse un animalista nel senso odierno del termine. Tuttavia, se così facessimo, scivoleremmo in un errore piuttosto grave. Senza dubbio molti degli argomenti polemici introdotti nel corso dei tre opuscoli possono essere paragonati, se non addirittura scambiati, con quelli moderni. Così, per l’appunto, fu fatto in tempi più vicini a noi, dal XVIII secolo, quando gli statuti di diverse Vegetarian Societies si ispirarono allo scrittore greco.

 

In Plutarco si registra una ripresa personale e per certi versi innovativa della questione, insistendo in particolar modo sull’argomento del dolore ed esponendo una serie di provocazioni contro l’opinione comune. In questo sta senz’altro la grande attualità dei presenti scritti, riscoperti e rivalorizzati in anni recenti, e l’opportunità da essi offerta di svelare il lato più intimo di un grande greco del passato.

 

Dall’altro lato, però, in Plutarco mancano una serie di argomenti che solitamente giocano un ruolo importante nei dibattiti di questo genere, uno su tutti è quello dei ‘‘casi marginali’’, che comparirà con Porfirio e che tanta parte avrà nella discussione moderna e contemporanea sui diritti animali (Bentham e Singer). Plutarco, come si può vedere, tempera la propria riflessione con una sorta di mediocritas, un giusto mezzo, e lo fa soprattutto sulla base delle proprie esperienze di vita.

 

Per via epigrafica sappiamo che ricoprì per circa vent’anni la carica di sacerdote a Delfi (al cui Museo è oggi possibile osservare sia l’iscrizione sia l’erma che lo raffigura); da questa posizione, va da sé, difficilmente poteva esimersi dall’officiare i riti e soprattutto i sacrifici. Allora come spiegare quest’aporia?

 

Pur tenendo conto dei possibili – e normali – ripensamenti che ciascuno può avere nel corso dell’esistenza, per prima cosa va compreso cosa rappresentasse il sacrificio in età antica e quanto fosse importante il suo ruolo di ‘‘collante’’ all’interno della società civica. Il rifiuto di partecipare ai riti comuni non veniva visto positivamente. È per questo, oltre che per la complessiva oscurità dei loro rituali, che gli orfici non godevano di buona fama; in Euripide, Ippolito viene accusato di vegetarianismo dal padre Teseo a causa della sua sospetta condotta, assai riservata e all’apparenza anti-cittadina, e non per il suo effettivo regime alimentare (com’è noto, Ippolito è un cacciatore).

 

Plutarco, infine, in queste opere di cui si è parlato, attua una differenziazione preferenzialistica del trattamento destinato, da un lato, agli animali mansueti e, dall’altro, a quelli selvatici: dal momento che gli animali domestici dimostrano agli uomini amorevolezza e collaborazione in vari mestieri, è opportuno non usare modi violenti nei loro riguardi (anche se ne viene ammessa l’uccisione per necessità e non per ghiottoneria) come se fosse valida una sorta di giustizia basata, beninteso, non su un diritto positivo, ma sui sentimenti e sulla comunanza di stirpe; gli animali selvaggi, di converso, proprio perché pericolosi ed estranei a qualunque norma del vivere associato, meritano di essere puniti e eliminati senza remore.

 

Certamente, agli occhi dei moderni tutto questo può sembrare un compromesso, vista e considerata l’animosità della discussione nel corso delle tre opere, ma è bene non perdere di vista l’orizzonte culturale, la Grecia tra il I e il II secolo, in cui viveva l’autore. Col passare del tempo, anche i pensatori pagani cominciarono a mostrare i primi segni di insofferenza nei confronti del sacrificio cruento, che pure costituiva un elemento di distinzione rispetto alla nuova religione cristiana.

 

Possiamo comunque trarre da questi opuscoli, se non dei precetti di vita, almeno una chiave di lettura dei rapporti interspecifici per comprendere con più attenzione il circostante e per rispondere alla sfida cui Plutarco ancora oggi ci chiama, quella di andare al di là dell’indifferenza, l’oligoría.

 

                                                                                                      

Riferimenti bibliografici:

 

P. Li Causi-R. Pomelli, L’anima degli animali. Aristotele, frammenti stoici, Plutarco, Porfirio, Torino 2015.

P. Li Causi, Gli animali nel mondo antico, Bologna 2018.

E.J. Mannucci, La cena di Pitagora. Storia del vegetarianismo dall’antica Grecia a Internet, Roma 2008.

S.T. Newmyer, Animals, rights and reason in Plutarch and Modern Ethics, New York-Oxford 2006.

Plutarco, Tutti i Moralia, a c. di E. Lelli, Milano 2017.

Plutarco, Del mangiare carne. Trattati sugli animali, a c. di D. Del Corno, Milano 2001.

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