antica
L’ALTRO PLUTARCO
TRA FILOSOFIA, ANIMALI E ALIMENTAZIONE
di Andrea Murace
Nel corso dei secoli Plutarco di
Cheronea (46-125 d.C. circa) ha
costantemente rappresentato una fonte
imprescindibile per comprendere la
storia, tanto quella greca quanto quella
romana. Autore di una serie infinita di
scritti – si pensi che il cosiddetto
Catalogo di Lampria, contenuto nel
cod. Par. gr. 1678 della Biblioteca
Nazionale di Francia e della cui
autenticità si continua a discutere, ne
enumera ben 227 –, è quasi sempre
ricordato per la sua opera principale
giunta sino a noi, le Vite parallele
(Bíoi
parálleloi).
Nelle 22 coppie di biografie – anche se
una di esse risulta doppia –, nelle
quattro singole e nei frammenti di altre
ancora, si prendono in esame personaggi
storici greci e romani (fa eccezione il
persiano Artaserse II), per lo più
tratti dalle rispettive età classiche e,
al termine della narrazione, si
istituisce un confronto, o synkrisis,
tra i protagonisti.
È possibile ripercorrere la grandissima
fortuna di Plutarco a partire dagli
elogi rivoltigli da Aulo Gellio (“vir
doctissimus ac prudentissimus”, in
Noct. Act. I.26.4), passando per
la sua estrema importanza nei cicli
pittorici medievali e rinascimentali
(uomini illustri e poi biografia
dipinta) fino al XIX secolo, quando, nel
1847, lo troviamo menzionato nei primi
versi dei Masnadieri di Verdi, su
libretto di A. Maffei.
Ora, tuttavia, non sono le Vite
che ci interessano. Com’è noto, il
corpus plutarcheo comprende una
seconda raccolta di opere, che sin
dall’attività filologica di Planude (XIII-XIV
secolo) va sotto il nome convenzionale
di Moralia (Ethikà) per
l’importanza assunta al suo interno
dagli scritti di carattere morale,
collocati in prima posizione, e per la
ricorrente presenza di considerazioni
filosofiche di natura pratica.
Spicca per i nostri propositi il
trittico zoopsicologico, comprendente il
De sollertia animalium (pp. 959
A-985 C secondo la numerazione standard
dello Stephanus del 1599), il Bruta
animalia ratione uti (pp. 985 D-992
E), impropriamente chiamato anche
Gryllos, e il De esu carnium
(pp. 993 A-999 B).
Nei Moralia, comunque, è
possibile rintracciare l’interesse per
gli animali e i loro comportamenti anche
in altre sedi, segno che tali questioni
rivestivano un certo interesse per
l’autore. Nei tre scritti appena
menzionati si discute di altrettanti
argomenti, diversi tra loro, ma connessi
dalla convinzione che sia possibile – se
non doveroso – trattare gli animali in
modo più ‘umano’ e riconoscere in essi
quei legami di somiglianza, già
individuati da Teofrasto qualche secolo
prima, derivati dal continuum
della vita e dal loro possesso di
un’anima, la psyché.
Se nel primo opuscolo si legge di una
conversazione tra cacciatori e
pescatori, gli uni sostenitori della
superiorità degli animali terricoli, gli
altri di quelli acquatici, il Bruta
animalia ratione uti cela,
all’interno di una bizzarra cornice
mitica, un acceso dialogo che fa
risaltare i pro e i contro dell’essere
uomini e fornisce i motivi della
presunta superiorità animale, addotti
dal maiale Gryllos contro le deboli
pretese di Odisseo.
Quest’ultimo, a discapito della propria
fama di facondo oratore, si sforza
invano di convincere l’interlocutore (e
il lettore) dell’intrinseca bontà della
natura umana: Gryllos, un tempo uomo e
poi trasformato da Circe, continuerà a
preferire la condizione attuale e il suo
atteggiamento sarà di spunto per
molteplici opere di età moderna, tra le
quali ci sembra significativo ricordare
la sezione conclusiva del Cymbalum
mundi di Bonaventure des Périers (XVI
secolo).
Nella terza opera, il De esu carnium,
troviamo un vero e proprio trattato
etico-filosofico contro la creofagia.
Plutarco, da esperto di retorica qual
era, architetta in modo sapiente la
struttura delle tre opere, inserendo non
solo una quantità enorme di esempi, o
paradéigmata,
tratti dal mondo animale e ricavati
soprattutto da Aristotele e Teofrasto,
ma facendo continuamente riferimento a
precetti filosofici orfici e pitagorici,
pur non essendo un esponente di tali
filosofie, verso cui, anzi, avanza
spesso delle riserve.
Qui ci preme evidenziare come il
Plutarco di questi tre opuscoli sia ben
diverso dal biografo delle Vite,
dove in ogni caso capita di trovare dei
rapidi cenni sulle relazioni
interspecifiche (per esempio si condanna
la spilorceria, o mikrología,
di Catone il Censore nei confronti degli
schiavi anziani e degli animali da soma
oramai inservibili).
Vediamo in azione, semmai, un Plutarco
che icasticamente è stato definito
“partigiano degli animali” (Li Causi
2018), al pari di altri scrittori di età
imperiale come Claudio Eliano e Porfirio,
quest’ultimo anche lui autore di un
trattato sull’astensione dalla carne e
dall’uccisione animale, il De
abstinentia.
Il trittico zoopsicologico di cui ci
stiamo occupando presenta una coerenza,
tematica ed etica, che difficilmente può
essergli negata. Il filo conduttore è da
individuare, da una parte, nella
ricognizione negli animali di uno
specchio, talora deformante, talora più
veritiero, di quel che il genere umano è
nel suo intimo e, dall’altra, nella
polemica antistoica che muove la
discussione.
Gli Stoici, oltre a negare ogni
possibile rapporto di giustizia con i
bruta animalia, ritenuti incapaci e
di intrattenere rapporti pacifici tra di
loro e di ragionare compiutamente,
sostenevano che ogni cosa esista in
vista dell’uomo, che può e deve far uso
di ciò che la terra produce e mostrarsi
superiore agli altri viventi. Celebre la
frase di Cleante di Asso (IV-III secolo
a.C.), il successore di Zenone alla
guida della Stoà, secondo cui al maiale
sarebbe stata data l’anima unicamente
per non farne marcire le carni, quasi
fosse sale.
Possiamo notare come Plutarco si ponga
nei confronti dell’animalità non tanto
come naturalista, quanto come moralista:
il suo discorso, in altre parole, non è
finalizzato a descrizioni troppo
particolareggiate dell’etologia e della
fisiologia, che pure non mancano del
tutto, quanto piuttosto all’analisi
degli aspetti che permettono un
avvicinamento tra l’elemento antropico e
quello zoologico.
Da questo vivace confronto con gli altri
esseri viventi sappiamo che ebbe origine
una corrente di pensiero che, da
Porfirio fino ai giorni nostri, ha
proposto un’alternativa contrastante con
quegli usi di tipo alimentare e
comportamentale ritenuti connaturati
all’uomo. Per tutta l’età moderna, fino
ai movimenti più recenti, Plutarco è
stato infatti considerato il campione
delle istanze più moderate nei confronti
degli animali non umani e, pur con le
dovute cautele, un animalista ante
litteram.
Proviamo adesso a ricapitolare
brevemente le ragioni alla base della
riflessione plutarchea. In primo luogo,
l’alimentazione a base carnea presenta
svantaggi sia per la salute del corpo
sia per quella dello spirito; invece di
ispirarsi all’esempio di Diogene di
Sinope, che diede spettacolo cibandosi
di un intero polpo crudo, sarebbe
meglio, semmai, rifarsi al precetto
pitagorico di evitare spargimenti di
sangue, considerando gli eventuali
pericoli derivati dalla metempsicosi (o,
meglio, metensomatosi).
Il rischio, come si intuisce anche
dall’epistola 108 di Seneca, è di
mangiare un animale in cui risieda
l’anima di un parente o di un amico.
Questi cibi, inoltre, sono assolutamente
contrari non solo alla conformazione
fisica dell’uomo (assenza di artigli e
zanne per cacciare e di succhi gastrici
potenti per digerire grandi quantità di
carne cruda), ma anche al gusto,
altrimenti, ci si interroga, per quale
ragione i cuochi si affannano a condire
la carne con spezie e intingoli vari e
non la lasciano, più semplicemente,
cruda? Perché si rende necessario
ingannare il gusto?
Sono tutti argomenti che per Plutarco
dimostrano un’unica cosa, ossia che è la
natura stessa dell’uomo a rigettare una
simile condotta alimentare. Proseguendo
su questa strada, l’uomo corre il
rischio di trasgredire le regole del
mondo naturale e di compiere un assiduo
“insulto estetico” (Del Corno 2001),
oltre che etico, dal momento che si
rende necessario ammazzare e fare a
pezzi esseri solitamente ammansiti e
dotati di sensazioni o, per dirla in
termini moderni e più generali, esseri
forniti di status morale.
L’atto di rapire una vita,
sacrificandola all’edonismo, è quindi
condannato senza possibilità di appello
e focalizza l’attenzione sulla violenza
gratuita che a esso si accompagna.
Al disprezzo della vita altrui appena
menzionato fanno da pendant per
primi quei servi che, sottoposti agli
ordini dei ricchi, preparano le mense
come fossero ‘‘acconciatori di
cadaveri’’ (nekrokósmoi):
Plutarco affonda il colpo parlando né
più né meno di necrofagia.
Il diritto che l’uomo indebitamente si
arroga di decidere della morte altrui è
indice di una decadenza dei costumi e di
una mancanza di compassione che sembrano
avere una soluzione tutt’altro che
facile: distruggere una vita equivale,
in buona sostanza, a un atto di
hybris.
È su questo nodo che si innesta il
discorso emergente dal Bruta animalia
e dal De sollertia animalium, in
cui le differenze e le somiglianze tra
animali e uomini derivano dal seguire o
meno le norme dettate dalla natura.
Soprattutto per le numerose affinità nei
comportamenti e nei modi di comunicare,
Plutarco sostiene che l’uomo abbia
imparato diverse arti dagli animali e
che, sì, è possibile instaurare nuovi
rapporti con loro, purché li si accolga
all’interno della sfera della
philanthropía.
Si tratta di un passo in avanti molto
importante, in quanto si oltrepassa una
barriera finora considerata invalicabile
soprattutto dai filosofi stoici.
Attraverso questo sentimento (o forse
meglio virtù?), normalmente tipico del
gruppo umano, si riconoscono i
conspecifici come parte della stessa
famiglia biologica e giuridica.
Il nostro autore, difatti, ritiene che
l’abitudine alla benevolenza, così come
alla non-violenza, possa far
intraprendere un percorso di
perfezionamento
finalizzato a relazionarsi in modo
armonioso col circostante e a rifiutare
quelle azioni feroci derivate dalla
componente irrazionale-demoniaca
dell’anima. A esiti simili arriva pure
Claudio Eliano nei 17 libri del De
natura animalium, in cui si compiace
di riportare storie d’amicizia e d’amore
nate tra uomini e animali, come quella
tra un pescatore e una foca (III.19).
Giunti a questo punto si potrebbe
facilmente concludere che Plutarco fosse
un animalista nel senso odierno del
termine. Tuttavia, se così facessimo,
scivoleremmo in un errore piuttosto
grave. Senza dubbio molti degli
argomenti polemici introdotti nel corso
dei tre opuscoli possono essere
paragonati, se non addirittura
scambiati, con quelli moderni. Così, per
l’appunto, fu fatto in tempi più vicini
a noi, dal XVIII secolo, quando gli
statuti di diverse Vegetarian
Societies si ispirarono allo
scrittore greco.
In Plutarco si registra una ripresa
personale e per certi versi innovativa
della questione, insistendo in
particolar modo sull’argomento del
dolore ed esponendo una serie di
provocazioni contro l’opinione comune.
In questo sta senz’altro la grande
attualità dei presenti scritti,
riscoperti e rivalorizzati in anni
recenti, e l’opportunità da essi offerta
di svelare il lato più intimo di un
grande greco del passato.
Dall’altro lato, però, in Plutarco
mancano una serie di argomenti che
solitamente giocano un ruolo importante
nei dibattiti di questo genere, uno su
tutti è quello dei ‘‘casi marginali’’,
che comparirà con Porfirio e che tanta
parte avrà nella discussione moderna e
contemporanea sui diritti animali (Bentham
e Singer). Plutarco, come si può vedere,
tempera la propria riflessione con una
sorta di mediocritas, un giusto
mezzo, e lo fa soprattutto sulla base
delle proprie esperienze di vita.
Per via epigrafica sappiamo che ricoprì
per circa vent’anni la carica di
sacerdote a Delfi (al cui Museo è oggi
possibile osservare sia l’iscrizione sia
l’erma che lo raffigura); da questa
posizione, va da sé, difficilmente
poteva esimersi dall’officiare i riti e
soprattutto i sacrifici. Allora come
spiegare quest’aporia?
Pur tenendo conto dei possibili – e
normali – ripensamenti che ciascuno può
avere nel corso dell’esistenza, per
prima cosa va compreso cosa
rappresentasse il sacrificio in età
antica e quanto fosse importante il suo
ruolo di ‘‘collante’’ all’interno della
società civica. Il rifiuto di
partecipare ai riti comuni non veniva
visto positivamente. È per questo, oltre
che per la complessiva oscurità dei loro
rituali, che gli orfici non godevano di
buona fama; in Euripide, Ippolito viene
accusato di vegetarianismo dal padre
Teseo a causa della sua sospetta
condotta, assai riservata e
all’apparenza anti-cittadina, e non per
il suo effettivo regime alimentare
(com’è noto, Ippolito è un cacciatore).
Plutarco, infine, in queste opere di cui
si è parlato, attua una differenziazione
preferenzialistica del trattamento
destinato, da un lato, agli animali
mansueti e, dall’altro, a quelli
selvatici: dal momento che gli animali
domestici dimostrano agli uomini
amorevolezza e collaborazione in vari
mestieri, è opportuno non usare modi
violenti nei loro riguardi (anche se ne
viene ammessa l’uccisione per necessità
e non per ghiottoneria) come se fosse
valida una sorta di giustizia basata,
beninteso, non su un diritto positivo,
ma sui sentimenti e sulla comunanza di
stirpe; gli animali selvaggi, di
converso, proprio perché pericolosi ed
estranei a qualunque norma del vivere
associato, meritano di essere puniti e
eliminati senza remore.
Certamente, agli occhi dei moderni tutto
questo può sembrare un compromesso,
vista e considerata l’animosità della
discussione nel corso delle tre opere,
ma è bene non perdere di vista
l’orizzonte culturale, la Grecia tra il
I e il II secolo, in cui viveva
l’autore. Col passare del tempo, anche i
pensatori pagani cominciarono a mostrare
i primi segni di insofferenza nei
confronti del sacrificio cruento, che
pure costituiva un elemento di
distinzione rispetto alla nuova
religione cristiana.
Possiamo comunque trarre da questi
opuscoli, se non dei precetti di vita,
almeno una chiave di lettura dei
rapporti interspecifici per comprendere
con più attenzione il circostante e per
rispondere alla sfida cui Plutarco
ancora oggi ci chiama, quella di andare
al di là dell’indifferenza, l’oligoría.
Riferimenti bibliografici:
P. Li Causi-R. Pomelli, L’anima degli
animali. Aristotele, frammenti stoici,
Plutarco, Porfirio, Torino 2015.
P. Li Causi, Gli animali nel mondo
antico, Bologna 2018.
E.J.
Mannucci, La cena di Pitagora. Storia
del vegetarianismo dall’antica Grecia a
Internet, Roma 2008.
S.T. Newmyer, Animals, rights and
reason in Plutarch and Modern Ethics,
New York-Oxford 2006.
Plutarco, Tutti i Moralia, a c.
di E. Lelli, Milano 2017.
Plutarco, Del mangiare carne.
Trattati sugli animali, a c. di D.
Del Corno, Milano 2001. |