N. 100 - Aprile 2016
(CXXXI)
I Plebisciti nell’età moderna
democrazia Apparente
di Ilaria La Fauci
«[…]
Plebiscitum
est
quod
plebs
iubet
atque
constituit
[…]»:
è la
definizione
che
il
giurista
romano
Gaio
diede
a
questo
strumento
creato
nell’Antica
Roma,
ovvero
una
richiesta
diretta
alla
classe
sociale
dei
plebei
senza
mediatori.
In
origine
ebbe
validità
solo
per
la
plebe,
che,
convocata
nella
piazza
adiacente
al
Foro,
votava
tributim,
ovvero
ogni
tribù
esprimeva
il
proprio
voto.
Con
il
tempo
però
venne
meno
la
distinzione
tra
popolo
e
plebe
e si
cominciò
a
definirlo
come
“consultazione
popolare”
per
alternativa
tra
due
possibilità.
Tale
strumento
difatti
venne
usato
nel
periodo
Risorgimentale
come
alternativa
tra,
da
un
lato,
qualcosa
di
chiaro
e
certo
e,
dall’altro
lato,
qualcosa
di
vago
e
incerto,
come
pratica
di
approvazione
“per
sì o
per
no”,
fino
ad
essere
usato
come
“referendum
costituzionale”
per
modificare,
in
tutto
o in
parte,
una
costituzione.
I
casi
più
noti
di
utilizzo
del
plebiscito,
durante
l’epoca
moderna,
furono
nella
Francia
e
nell’Italia
del
XIX
secolo.
Napoleone
Bonaparte
se
ne
servì
per
legittimare
il
potere
personale,
la
realtà
territoriale
e le
leggi
che
emanava:
tutto
ciò
otteneva
un’approvazione
democratica,
di
cui
venne
fatto
uso
anche
con
la
finalità
di
promuovere
i
generali
costituenti
francesi
posti
a
capo
delle
repubbliche
militari.
Bonaparte
fu
abile
nell’usare
le
proprie
capacità
tattiche
e
strategiche
da
generale
che
fu
nel
periodo
della
rivoluzione
francese
e
delle
repubblica,
al
punto
di
effettuare
il
colpo
di
Stato
in
un
periodo
di
grande
difficoltà
e
debolezza
per
il
popolo
e
per
la
Francia
stessa
e,
con
il
tempo,
accentrare
il
potere
nelle
sue
mani,
legislativo
giudiziario
ed
esecutivo,
legando
qualsiasi
organo
politico
alla
sua
carica
di
console.
Nel
1802
infatti
Napoleone,
attraverso
un
plebiscito,
propose
la
trasformazione
della
carica
di
“primo
console”
a
“console
a
vita”:
ci
furono
3500000
sì e
8300
no;
fece
entrare
in
vigore
una
nuova
Costituzione,
annullando
tutti
gli
organi
legislativi,
lasciando
il
potere
unicamente
al
console,
ed
ebbe
il
diritto
di
nominare
il
suo
successore.
Tale
plebiscito
fu
organizzato
dalla
polizia
di
Joseph
Fouché
(ministro
della
polizia
che
successivamente
lo
aiutò
per
proclamare
l’impero
ed
eliminare
gli
oppositori),
che
obbligò
il
popolo
alla
partecipazione
per
sancire
un
fatto
compiuto:
la
fine
dell’esperienza
repubblicana
in
Francia.
Nel
1804,
tramite
un
nuovo
plebiscito,
viene
eletto
alla
carica
di
Imperatore
dei
francesi.
L’appel
au
peuple
fu
un
modo
per
servirsi
del
popolo
come
necessaria
(in
realtà
apparente)
fonte
di
potere,
creando
ciò
che
si
può
definire
una
“dittatura
democratica”,
che
non
è
altro
se
non
una
contraddizione
in
termini.
Consisteva
in
un
nuovo
o,
per
meglio
dire,
rinnovato
metodo
politico
esteriormente
democratico
adoperato
per
approvare
decisioni
già
prese.
Anche
Napoleone
III,
nel
dicembre
del
1851,
effettuò
un
colpo
di
Stato
ed
il
popolo
gli
confermò
la
sua
dignità
imperiale:
assunse
infatti
tale
carica
«per
grazia
di
Dio
e
volontà
dei
francesi»,
sempre
sfruttando
il
grande
momento
di
debolezza
che
in
quegli
anni
colpiva
la
Francia,
per
i
vari
moti
risorgimentali
e
cambi
di
governo
continui.
La
parola
“plebiscito”
venne
usata
per
la
prima
volta
nella
legislazione
elettorale
italiana
per
opera
del
governatore
provvisorio
di
Parma,
Giuseppe
Manfredi,
nel
decreto
dell’8
agosto
1855
per
indicare
la
formula
di
annessione
al
Regno
di
Sardegna.
Nel
1797-1798,
nella
penisola
Italiana,
venne
impiegato
per
accettare
costituzioni-sorelle
simili
a
quella
termidoriana
dell’anno
III,
facendo
una
pressione
sul
popolo
ed
una
manipolazione
sul
suffragio.
Il
plebiscito
venne
poi
impiegato
come
espressione
della
nazione,
attraverso
la
partecipazione
popolare
alle
procedure
elettorali,
tra
il
1859
ed
il
1870,
per
annettere
le
terre
prima
al
Regno
di
Sardegna
e
poi
al
Regno
d’Italia,
per
legittimare
una
costituzione,
lo
Statuto
Albertino,
ed
un
nuovo
Sovrano:
il 3
dicembre
1860
la
legge
n°4497
stabiliva
la
«facoltà
di
accettare
per
Decreti
Reali
l’annessione
delle
province
dell’Italia
Centrale
e
Meridionale
che
volevano
farne
parte».
I
quesiti
furono
sottoposti
in
formulazioni
diverse
seppur
simili:
- nel
marzo
1860
le
ex
Legazioni
Pontificie
e la
Toscana
risposero
in
426006
e
386445
sì
(756
e
14925
no)
alla
domanda
«Volete
l’unione
alla
monarchia
costituzionale
di
Re
Vittorio
Emanuele
II?»;
-
nell’aprile
1860
toccò
alla
Contea
di
Nizza
e
Savoia
votare
per
l’annessione
alla
Francia:
rispettivamente
con
25743
e
altri
130523
sì
(160
e
235
no)
tali
territori
acconsentirono
alla
volontà
francese;
- nell’ottobre
1860
fu
la
volta
del
Regno
di
Napoli
e
della
Sicilia,
che,
con
i
loro
1302064
e
432053
sì
(10312
e
617
no)
alla
domanda
«Il
popolo
vuole
l’Italia
Una
e
Indivisibile
con
Vittorio
Emanuele
Re
costituzionale
e i
suoi
legittimi
discendenti?»,
entrarono
nel
Regno
d’Italia;
- nel
novembre
1860
venne
chiesto
a
Marche
ed
Umbria
«Volete
far
parte
della
monarchia
costituzionale
del
Re
Vittorio
Emanuele?»,
ed
ovviamente
anche
qui
ci
furono
fiumi
di
sì,
rispettivamente
ben
133765
e
97040
(1212
e
308
no);
- sei
anni
dopo,
nell’ottobre
del
1866,
finalmente
la
domanda
venne
posta
al
Veneto,
che
con
i
suoi
647426
sì
(69
no)
entrò
ufficialmente
nel
Regno
d’Italia;
-
infine
nell’ottobre
del
1870
il
Lazio
con
133681
sì
(1507
no).
Questo
elenco
di
dati
serve
per
far
comprendere
la
grande
spinta
sugli
elettori
(unicamente
cittadini
maschi
di
21
anni
con
diritti
civili;
esclusi
donne,
minori,
esuli,
stranieri,
ex
sudditi
al
di
fuori
delle
loro
patrie)
ad
acconsentire
all’annessione
di
uno
Stato
già
esistente,
così
da
disarmare
i
tentativi
francesi
di
bloccare
la
formazione
di
uno
Stato
unitario.
Si
trattò
di
un
«atto
collettivo
di
investitura
diretta
del
potere
esecutivo»,
una
solenne
affermazione
del
principio
di
nazionalità,
un’elezione
del
re
per
grazia
di
Dio
e
volontà
della
nazione.
Il
plebiscito
poteva
essere
preceduto
da
un’assemblea
o
essere
“voto
muto”,
dato
al
singolo
individuo
senza
nessuna
conoscenza
a
riguardo;
quest’ultima
tipologia
sopprime
qualsiasi
diritto
di
scelta,
giungendo
alle
elezioni
impreparati,
disinformati
sul
significato
del
plebiscito
e
facilmente
strumentalizzati
dai
funzionari
dei
seggi.
Può
essere
anche
seguito
da
un’assemblea:
da
un
lato,
non
ha
senso
discutere
su
una
scelta
già
presa,
dall’altro
lato
però,
serve
per
definire
le
modalità
di
attuazione
dell’atto
scelto.
Fu
ovviamente
un’arma
a
doppio
taglio
nel
caso
italiano:
i
cittadini
infatti
non
votarono
per
un’annessione
immediata
e
incondizionata,
bensì
unicamente
per
un’Italia
una
e
indivisibile;
eppure
gli
eventi
successivi
ci
narrano
che
invece,
una
volta
avuta
tale
legittimazione,
il
popolo
non
venne
più
interpellato
nelle
scelte
di
politica
o di
economia
del
Paese.
Venne
offerto
ai
cittadini
come
un
appello
alla
pacificazione
ed
alla
concordia:
il
prodittatore
della
Sicilia
Antonio
Mordini,
il
15
ottobre
1860
illuse
i
siciliani
che
si
trattasse
di
una
ratificazione
dell’operato
di
Garibaldi,
scrivendo:
«[…]
Qui
si
tratta
di
fare,
colla
concordia,
la
patria.
Italiani
della
Sicilia!
Dal
fondo
dell’urna,
ove
il
giorno
21
si
deciderà
del
vostro
avvenire,
fate
che
sorga
questo
commovente
annunzio
ai
popoli
della
Penisola:
in
Sicilia
più
non
son
partiti.
Sarà
per
Garibaldi
la
miglior
prova
d’affetto,
sarà
il
mio
conforto
nel
separarmi
da
voi
[…]»;
tali
parole
puntarono
a
scatenare
nel
cuore
dei
siciliani
quella
speranza
di
essere
autonomi
e di
vedere
messe
in
atto
le
promesse
di
Garibaldi
(ovvero
la
redistribuzione
delle
terre
ai
contadini),
nascondendo
la
complessa
rivalità
politica
sorta
sin
dalla
dittatura
garibaldina,
dopo
lo
sbarco
dei
Mille
a
Marsala.
Tutto
ciò
venne
mascherato
sostenendo
che
«la
nazionalità
si
fonda
sul
libero
meditato
solenne
consenso
dei
popoli»:
ovvero
sull’attuazione
del
plebiscito.
Seguì
la
disillusione
nello
scoprire
la
cessione
al
Piemonte
e la
perdita
di
qualsiasi
indipendenza.
Francia
e
Italia
sono
i
casi
senza
dubbio
più
noti
ma
ne
esistono
altri,
in
cui
spesso
i
plebisciti
non
ebbero
il
successo
sperato
o
conseguenze
effettive:
nel
1814,
ad
esempio,
la
Norvegia
tenta
di
essere
consultata
sulla
sua
cessione
dalla
Danimarca
alla
Svezia;
nel
1867
la
Russia
propone
invano
che
Moldavia
e
Valacchia
venissero
consultate
sulla
loro
separazione
dell’Impero
Turco;
nel
1861
la
repubblica
di
San
Domingo
venne
ceduta
alla
Spagna
tramite
plebiscito;
stessa
cosa
nel
1863
con
la
cessione
alla
Grecia
delle
Isole
Ionie
da
parte
dell’Inghilterra.
Si
tratta
quasi
sempre
di
plebisciti
di
annessione:
fu
questa
senz’altro
la
forma
prevalente
in
cui
il
plebiscito
può
essere
ritrovato
nel
corso
dell’epoca
moderna.
Il
suo
utilizzo
fu
strumentalizzato
largamente,
sfruttando
la
disinformazione
degli
elettori
cui
venne
data
la
falsa
impressione
di
essere
utilmente
interpellati.
Riferimenti
bibliografici:
Fruci
G.
L.,
Alle
origini
del
momento
plebiscitario
risorgimentale.
I
liberi
voti
di
ratifica
costituzionale
e
gli
appelli
al
popolo
nell’Italia
rivoluzionaria
e
napoleonica
(1797-1805),
in
Vox
Populi?
Pratiche
plebiscitarie
in
Francia,
Italia,
Germania
(secoli
XVIII-XX),
a
cura
di
Fimiani
E.,
Bologna,
2010.
Fruci
G.
L.,
I
plebisciti
e le
elezioni,
in
L’unificazione,
2011.
Giardina
A.,
Sabbatucci
G.,
Vidotto
V.,
Manuale
di
storia.
Vol.
2:
L’età
moderna,
1998.
Statuto
Fondamentale
del
Regno
in
data
4
marzo
1848
corredato
di
lettere
patenti,
decreti,
proclami,
plebisciti
con
intestazioni
degli
atti
di
governo
e
formula
per
la
promulgazione
delle
leggi,
Torino,
1884.
Mazzini
G.,
Assemblea
e
Plebiscito,
in
Edizione
nazionale
degli
Scritti
editi
e
inediti,
vol.
LXVI,
Imola,
1906-1943.
Montesano
M.,
Partiti
politici
e
plebiscito
a
Napoli
e
nelle
province
meridionali
nel
1860,
in
Archivio
Storico
delle
Province
Napoletane,
1966.